Filosofo italiano. Quinto degli otto figli
di un umile libraio, entrò a 12 anni in un collegio gesuita per
abbandonarlo dopo poco e mettersi a studiare per suo conto i testi di P. Ispano
e P. Veneto. Ritornato al collegio per seguire le lezioni di G. Ricci, lo
lasciò ancora una volta dedicandosi allo studio della metafisica di F.
Suarez. Per assecondare il padre, nel 1688 si iscrisse alla facoltà di
Giurisprudenza dell'Università di Napoli, ma non seguì mai i corsi
e solo nel 1694 si laureò, forse a Salerno. Nel frattempo, era divenuto
precettore dei figli del marchese Rocca, incarico che mantenne per nove anni
(1686-95), e aveva avuto modo di approfondire la sua preparazione filosofica,
affermandosi tenace oppositore della Scolastica, alla quale preferiva le
correnti culturali europee di quegli anni. Tornato a casa, si adoperò per
mantenere il padre e i fratelli, insegnando retorica e grammatica e redigendo un
gran numero di lavori su commissione (orazioni funebri, poesie, panegirici,
ecc.). Nel 1699 vinse il concorso per un posto di professore di eloquenza
all'università, ma fu impossibilitato a lasciar perdere gli altri lavori
a causa dello scarso compenso che il nuovo incarico gli garantiva. Dei primi
anni d'insegnamento ci rimangono solo le sette prolusioni che egli dovette
comporre per l'apertura degli anni accademici compresi tra il 1699 e il 1706: le
prime sei, rielaborate, furono pubblicate postume nel 1869; la settima,
De
nostri temporis studiorum ratione, pronunciata il 18 ottobre 1708, fu,
invece, data alle stampe l'anno dopo. Negli anni seguenti,
V.
approfondì i suoi studi su Platone e maturò un più
accentuato distacco rispetto a Cartesio; su questo crinale teoretico si situa il
De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus, di cui
pubblicò il primo libro (sulla metafisica) nel 1710, ma non gli altri due
che aveva progettato (sulla fisica e sull'etica). Scrisse, quindi, una
Risposta (1711) e una
Seconda risposta (1712) ad alcune critiche
anonime al
De antiquissima uscite sul "Giornale de' letterati
d'Italia", nonché un opuscolo andato perduto dal titolo
De
aequilibrio corporis animantis (1713). A partire dal 1715,
V.
approfondì le sue conoscenze storico-giuridiche studiando Grozio, autore
che molto ebbe ad apprezzare, e scrisse varie opere, delle quali l'unica a non
essere andata perduta è il
De uno universi iuris principio et fine uno
(1720-21). Con questo lavoro il progetto della Scienza nuova era ormai in
cantiere e gli anni successivi furono da
V. dedicati a portarlo a
termine: la prima versione della
Scienza Nuova trovò pubblicazione
a spese dell'autore nel 1725 col titolo di
Scienza nuova prima. Fu quello
un periodo molto difficile per il filosofo, in quanto alle persistenti
difficoltà economiche si sommarono varie disavventure familiari (che
raccontò in un'
Autobiografia pubblicata postuma nel 1818);
ciò non gli impedì, tuttavia, un'intensificazione della sua
attività: tra il 1725 e il 1728 scrisse saggi critici su Dante e la
poesia, sul cartesianesimo, sulla condizione degli studi in Europa, un opuscolo
(
Vindiciae, 1729) contro un denigratore della
Scienza nuova e,
infine, la seconda
Scienza nuova (1730). Anche stavolta l'opera non ebbe
un grande successo, ma ormai
V. aveva raggiunto la notorietà e con
essa erano arrivati il raddoppio dello stipendio e la nomina a storiografo regio
(1735) che gli permisero di superare definitivamente i problemi economici. Il
filosofo poté così dedicarsi ad aggiungere alla
Scienza nuova
tutte quelle correzioni e tutti quei commenti che lo avrebbero portato a
rielaborare l'opera e a pubblicare nel 1744 la
Scienza nuova terza. La
riflessione filosofica di V. si sviluppa a partire da una decisa polemica
anticartesiana: la mente umana, secondo il filosofo napoletano, può
conoscere solo ciò che essa costruisce, in quanto conoscere significa
ricostruire un oggetto o un fatto attraverso una serie di concatenazioni; in
base a questo principio per cui
verum est factum (identità del
vero col fatto), la natura può, allora, essere conosciuta da Dio, che
l'ha creata, ma non dagli uomini, che le appartengono. In questo senso, la
necessità di una
scienza nuova si pone come la necessità di
elaborare una scienza della storia umana: della possibilità di questa
scienza è garante il principio dell'identità del vero col fatto,
in quanto l'autore del mondo umano (leggi, istituzioni, miti, ecc.) è
sicuramente l'uomo. La costruzione della scienza nuova avviene in
V.
ricomponendo la scissione tra filologia e filosofia: la filologia deve accertare
i fatti in modo incontrovertibile, mentre la filosofia ha il compito di rendere
questi fatti tra loro coerenti e delineare così un senso all'interno del
divenire storico. Laddove, poi, i tempi sono più antichi e,
perciò, anche meno noti, la filosofia permetterà di scovare le
poche tracce che di essi rimangono con un'analisi della mente umana, all'interno
della quale si possono ritrovare quei principi a priori che, secondo
V.,
governano lo sviluppo dell'umanità. Ora, è chiaro, osserva il
filosofo, che nella mente umana la ragione si sviluppa solo dopo il senso e la
fantasia; pertanto, i popoli non possono evitare di passare per tre diverse
"età" (l'età degli dei o del senso, l'età degli
eroi o della fantasia, l'età degli uomini o della ragione) e di essere
protagonisti di una storia ideale eterna, una sorta di schema tipico che
caratterizza, con differenze anche notevoli ma nella sostanza irrilevanti, la
storia empirica di tutte le Nazioni della Terra. In particolare, nell'età
del senso, che comincia dopo il diluvio universale, gli uomini sono bestioni
feroci e brutali, privi di qualsiasi legge o regola morale; è solo per il
timore degli dei, successivo a eventi naturali spaventosi, che essi cominciano a
darsi regole di convivenza e una religione. La nascita di un sentimento
religioso consente il passaggio all'età della fantasia, in cui si afferma
un'etica guerriera e vengono costruiti i miti degli eroi. Sono in questo modo
poste le premesse per un passaggio ulteriore, quello che avviene con la
realizzazione delle istituzioni civili e con la comparsa della filosofia e che
dà avvio all'età della ragione. Questo percorso, che, all'interno
del pensiero vichiano, si svolge grazie alla tensione razionale e immanente
dell'uomo a perfezionare se stesso (una tensione, peraltro, in armonia con un
disegno divino trascendente) non è, tuttavia, esente da rischi: non di
rado popoli che hanno raggiunto un elevato livello di civiltà ricadono in
uno stato di barbarie, da cui debbono ripartire per tornare nuovamente alla
civiltà (il caso dell'Impero romano, secondo
V., è
emblematico da questo punto di vista). La storia umana è, dunque,
permeata da quelli che il filosofo chiama
corsi e ricorsi storici, vale a
dire un continuo ritornare sui propri passi: mai accade, dunque, che qualcosa
sia totalmente realizzato, perché, proprio quando gli uomini ritengono di
aver concluso il loro percorso, sorge l'insidia dell'usura, che genera
fiacchezza e che può esser causa di rovina. Della speculazione filosofica
di
V. si rileva anche il nuovo approccio da lui inaugurato nello studio
dei miti e del pensiero poetico in genere: contrariamente a quello che la
tradizione riteneva al riguardo, il mito non esprime la "sapienza
riposta" delle popolazioni primitive né le superstizioni arcaiche e
prive di senso di menti non ancora evolute, ma manifesta una fantasia animistica
e antropomorfica analoga a quella che domina i bambini (Napoli 1668-1744).