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Verdi, Giuseppe.

Musicista italiano. Nato da modestissima famiglia, ricevette la sua prima istruzione musicale dall'organista P. Baistrocchi; in seguito, grazie all'aiuto dell'industriale (e futuro suocero) A. Barezzi, poté frequentare la scuola di grammatica del canonico P. Seletti e quella di musica diretta da F. Provesi, maestro di cappella e organista alla cattedrale di Busseto. La sua prima produzione musicale comprende numerosi pezzi sacri scritti come esercitazione e destinati anche all'esecuzione nelle chiese locali, marce e altri pezzi per la banda del paese e composizioni vocali, tra le quali una sorta di cantata, I deliri di Saul. Il suo primo lavoro eseguito in pubblico fu una sinfonia, premessa, al posto di quella di Rossini, a una rappresentazione del Barbiere di Siviglia al teatro di Busseto (1828). Sostenuto senza successo l'esame di ammissione al conservatorio di Milano (1832), fu invece accettato come allievo da V. Lavigna, maestro concertatore alla Scala e compositore, con il quale proseguì i suoi studi fino al 1835. Nel 1836 sposò Margherita Barezzi da cui ebbe due figli: Virginia nel 1837 e Icilio Romano nel 1838, morti entrambi in tenerissima età. Margherita morirà anch'essa, nel 1840. Nel 1838 V. aveva pubblicato le sei Romanze, ma il suo esordio nel melodramma avvenne l'anno successivo alla Scala con Oberto conte di San Bonifacio, il cui buon esito convinse l'impresario Marelli a commissionare a V. tre nuove opere. La prima di queste, l'opera buffa Il finto Stanislao ovvero Un giorno di regno, su libretto di Romani, non fu accolta favorevolmente. L'insuccesso professionale e i lutti familiari fecero cadere V. in una crisi dalla quale si risollevò soltanto quando Marelli gli propose il libretto del Nabucco, di T. Solera. Di getto compose la nuova opera (V. NABUCCO), rappresentata con esito trionfale alla Scala (1842), con ottimi interpreti tra i quali Giuseppina Strepponi nel ruolo di Abigaille. L'anno successivo fu messa in scena l'opera I Lombardi alla prima crociata, ancora su libretto di Solera, accolta anch'essa con grande favore di pubblico. Con Ernani (1844, V. ERNANI O L'ONORE CASTIGLIANO) V. abbandonò per motivi pratici (soprattutto legati agli eccessivi costi della messinscena) il genere della grande opera corale, verso il quale nondimeno la sua vena artistica e la sua tempra morale lo portavano, per adottare un tipo d'opera a personaggi, il cui allestimento era più abbordabile da parte dei numerosi teatri di provincia, ansiosi di accaparrarsi nuovi lavori da mettere in cartellone. L'ansia di successo indusse V. a scrivere in nove anni (dal 1842, l'anno del Nabucco, al 1851, l'anno del Rigoletto) ben tredici opere, il cui valore musicale e drammaturgico è diseguale, pur rivelando caratteri di vigorosa passione che ben rispondevano ai sentimenti patriottici diffusi in quegli anni in Italia: dopo Ernani, I due Foscari (1844), Giovanna d'Arco (1845), Alzira (1845), Attila (1846), Macbeth (1847, V.), I Masnadieri (1847, V. MASNADIERI, I), Jérusalem (rifacimento dei Lombardi, 1847), Il Corsaro (1848), La Battaglia di Legnano (1849, V. BATTAGLIA DI LEGNANO, LA), Luisa Miller (1849), Stiffelio (1850). Ormai ricco e celebre a livello internazionale, V. poté mettere fine agli "anni di galera" (come egli stesso li definì) e iniziare a lavorare prestando maggiore attenzione alla complessità psicologica dei personaggi, favorito in questo dalla decisione di prendere stabile dimora nella sua tenuta di Sant'Agata, presso Busseto, accanto alla propria compagna, Giuseppina Strepponi, che V. sposerà nel 1859, dopo dieci anni di convivenza. Nel frattempo la temporanea interruzione del processo unitario aveva raffreddato gli entusiasmi popolari, e tale mutato clima sociale si riflette anche nella produzione verdiana, che privilegia ora la dimensione affettiva e privata rispetto a quella politica. In ogni caso, il duro tirocinio del periodo precedente aveva permesso a V. di scaltrire la propria scrittura vocale e di mettere a punto un meccanismo drammaturgico che raggiungerà la massima efficacia nelle opere della cosiddetta Trilogia popolare: Rigoletto (1851, V.), Il Trovatore (1853, V. TROVATORE, IL) e La Traviata (1853, V. TRAVIATA, LA). Quest'ultimo lavoro (su libretto di Piave) fu male accolto alla prima rappresentazione, sia per l'insolita ambientazione contemporanea sia per l'audacia del soggetto; spostando l'ambientazione nel Settecento, l'opera riscuoterà l'anno successivo un successo trionfale. In questi capolavori la grande arte verdiana si rivela nella capacità di mettere la melodia vocale al servizio della situazione drammatica, di farne lo strumento principale con il quale conferire ai personaggi umanità e spessore psicologico. Alla Trilogia popolare seguirono le opere I Vespri Siciliani (libretto, in francese, di E. Scribe e G. Duveyrier; Parigi, 1855, V. VESPRI SICILIANI, I), Simon Boccanegra (1857, V.), Aroldo (rifacimento di Stiffelio, 1857), Un ballo in maschera (1859, V. BALLO IN MASCHERA, UN), La forza del destino (1862, V. FORZA DEL DESTINO, LA). In questa fase creativa V. alterna momenti di straordinaria forza espressiva a ricadute nei facili effetti musicali di cui aveva fatto abbondante uso nella sua prima produzione; tuttavia egli amplia la sua visione del dramma, non più concentrato, come nella trilogia, nell'interazione di pochi, essenziali personaggi, ma aperta alla complessità dei caratteri e degli ambienti. Musicalmente ciò si tradusse anche in una studio più accurato nella composizione degli accompagnamenti strumentali. Nel frattempo, all'impegno artistico si era unito l'impegno politico: fautore dell'unità nazionale, V. aveva accettato l'invito di Cavour a candidarsi al Parlamento italiano e nel 1861 era stato eletto deputato nell'area liberal-moderata. Su commissione aveva composto, inoltre, un Inno delle Nazioni, che ingloba citazioni dei temi degli inni nazionali francese, inglese e italiano. Gli anni che seguirono furono per V. un periodo di pacata riflessione, durante il quale si limitò ai rifacimenti del Macbeth (1865) e della Forza del destino (1869) e scrisse una sola opera nuova, Don Carlos, rappresentata con successo all'Opéra di Parigi nel 1867. Nel 1870 fu incaricato dal chedivè d'Egitto di comporre un'opera nuova per l'inaugurazione ufficiale del canale di Suez: l'Aida (V.), su libretto di A. Ghislanzoni, rappresentata con esito trionfale al Cairo nel 1871, costituisce un momento unico nella produzione verdiana, in cui il felice equilibrio della costruzione si coniuga a un'incredibile ricchezza d'invenzione melodica. L'opera sembra segnare il culmine e insieme la conclusione della carriera del musicista, proprio quando il dominio del melodramma è sconvolto dalla rivoluzione wagneriana. In effetti, il silenzio creativo di V. si protrasse per 15 anni (durante i quali svolse un'intensa attività direttoriale in Italia e all'estero; nel 1874 diventò senatore), interrotto solo dalla composizione della Messa di Requiem (in memoria di Manzoni, 1874) e del Quartetto per archi (1875), nonché dalla rielaborazione del Boccanegra (1881) e del Don Carlos (1884, V.). In realtà in questi anni V. realizza il sogno, perseguito da lungo tempo, di trasporre in linguaggio musicale il dramma shakespeariano. Otello (V.) su libretto di A. Boito, alla cui stesura V. lavorò sei anni, fu rappresentato alla Scala nel 1887 con esito trionfale. Con questa opera giunge a compimento quella ricerca del declamato melodico che già aveva caratterizzato la produzione successiva alla Trilogia popolare; V. sancisce il superamento della tradizionale concezione dell'opera come successione di arie e recitativi, senza con questo concedere nulla alle novità introdotte da Wagner. Ancora ispirata a Shakespeare, Falstaff (V.), scritta, come Otello, in collaborazione con Boito e rappresentata nel 1893, è l'ultima opera di V., il quale scrisse ancora i Pezzi Sacri (Te Deum, Laudi alla Vergine, Stabat) eseguiti a Parigi nel 1898. L'anno prima era morta Giuseppina Strepponi, con la quale V. aveva realizzato il progetto di fondare e mantenere, con i proventi dei diritti d'autore, la Casa di riposo per musicisti e cantanti di Milano, nella cui cappella volle essere sepolto. Protagonista di oltre mezzo secolo della vita musicale italiana, V. si proclamò sempre aperto sostenitore della tradizione vocale italiana rappresentata da Palestrina, Benedetto Marcello, Pergolesi e Rossini, Bellini e Donizetti, mentre manifestò una sospettosa diffidenza nei confronti del moderno sinfonismo, un genere considerato più adatto ai tedeschi che agli italiani. Si può quindi discutere se le posizioni antimoderniste di V. possano avere avuto un effetto ritardante sull'evoluzione della cultura musicale italiana, mentre è indubbia la capacità del creatore, a dispetto delle sue idee conservatrici, di innovare il suo linguaggio musicale, recependo gli stimoli delle novità e dei mutamenti di gusto, com'è testimoniato dalle sorprendenti anticipazioni stilistiche contenute nell'Otello e nel Falstaff. Dotato di un robusto senso del teatro, V. non si limitò a essere un compositore, ma si preoccupò dell'aspetto letterario delle opere e curò sempre personalmente l'allestimento dei suoi lavori, arrivando persino a suggerire ai cantanti i movimenti di scena. Nella concezione verdiana del melodramma, infatti, ogni elemento doveva concorrere a formare un tutto coerente con la situazione drammatica, ed è in questo inesausto sforzo di coesione strutturale che si può riconoscere il tratto comune a opere stilisticamente così eterogenee. Con V. il melodramma italiano si libera definitivamente dagli esangui convenzionalismi settecenteschi e riconquista un'umanità appassionata e dolente, un'adesione sincera e intimamente sentita alla "verità" psicologica dei personaggi (Roncole Verdi, Parma 1813 - Milano 1901).