(dal latino
verbum: parola). Ant. - Parola.
║
Non dire,
non profferire v.: tacere.
• Fil. - Nel linguaggio scolastico medioevale,
concetto, pensiero, soprattutto in quanto espresso.
• Teol. - Nella teologia cristiana, Gesù Cristo, la seconda persona della
Trinità, il quale nella terminologia del Vangelo di Giovanni
corrisponde al Logos, o
V., o ragione eterna o Sapienza del Padre
incarnata.
• Gramm. - Parte del discorso che esprime
l'azione o lo stato del soggetto, e che è variabile nel tempo, nel modo,
nella persona e nel numero. ║
Voce del v.: una qualsiasi forma che
appartiene alla flessione di un
v.; per esempio, "andarono"
è una voce del
v. "andare".
• Ling - Considerato da Platone e Aristotele
soprattutto da un punto di vista logico, in contrapposizione al
nome o
soggetto, il
v. venne invece studiato in quanto categoria
grammaticale dagli stoici, che elaborarono un sistema organico delle forme
temporali del greco antico. I linguisti moderni hanno dato del
v.
definizioni diverse, a seconda che, ad esempio, si ponesse (come A. Meillet)
l'accento sulla funzione del
v. in quanto indicante un
"processo", oppure (come L. Hjemslev) lo si considerasse come un
insieme di categorie grammaticali. I sistemi verbali delle varie lingue si
differenziano per il diverso modo con cui si organizzano tra loro l'elemento
verbale, portatore del significato (il semantema verbale), e la flessione, la
quale introduce le distinzioni grammaticali nelle categorie di
tempo,
modo,
persona,
numero, ecc. Storicamente le lingue hanno
preso ad organizzare le proprie forme verbali in paradigmi, in relazione ai
quali si parla, per esempio, di verbi
regolari o
irregolari. Un
sistema verbale comprende inoltre, normalmente, accanto alle forme personali,
talune forme dette
nominali (in quanto possono svolgere funzione
nominale) e
modi infiniti o indefiniti, perché non sono
determinate nella persona, ma solo nella diatesi e nel tempo (
infinito),
o nella diatesi, nel tempo e nel numero (
participio), ecc. Dal punto di
vista sintattico si distinguono inoltre
v.
transitivi e
intransitivi, a seconda che possano essere seguiti oppure no da un
complemento oggetto.
I verbi sono parole che esprimono: Azioni, Modi di Essere e Situazioni. 3^
primaria
1 Un'azione
Lo studente scrive, legge, ascolta
L'acqua scorre, bagna , disseta
Gli insetti volano, succhiano, pungono
Il medico cura, opera, guarisce
Il fuoco brucia, riscalda, illumina
I palloni, volano, scoppiano, rimbalzano
La bambina nuota
Il gatto dorme
Il ciclista pedala
Il serpente striscia
Il mio cane abbaia agli sconosciuti
Simone e i suoi amici giocano a calcio
Il prossimo anno io frequenterò la classe quarta
Domani Luca lavorerà fino a tardi
A colazione bevo una tazza di latte e mangio dei biscotti
La fata Turchina aiutò Pinocchio
La zia passerà a trovarmi la prossima settimana
2 Un modo: di essere
Lo studente è attento, studioso, disattento
L'acqua è trasparente, pulita, sporca
Gli insetti sono velenosi, piccoli, nocivi
Il medico è bravo, attento, gentile
Il fuoco è rovente, caldo, violento
I palloni sono colorati, leggeri, gonfi
3 Una situazione, uno stato
Clara si trova a Roma per lavoro
Il cane sta nella cuccia
Lia è in bagno
Il cuscino è sul letto
Ieri il nonno era a Palermo
Per un po' Susi resterà a casa mia
Il papà è in garage
Il gatto dorme sul cuscino
Domani Michele andrà a Verona
1
Il verbo (< Lat. verbum = "parola" per eccellenza) è la parte più importante di
una frase (sentence) e ne indica l'azione principale, lo stato (state),
l'esistenza, il modo di essere (way, manner of being) delle persone, degli
animali o delle cose. È possibile avere più verbi in una frase.
ESEMPI:
1. L'uomo cammina.
2. Il tempo passa.
3. Dopo che avevano mangiato, i ragazzi sono usciti con i loro genitori che
erano appena tornati dall'Italia.
4. "Penso quindi sono". (Descartes)
http://lab.chass.utoronto.ca/italian/verbi/cosa.html
(azione)
(stato, modo di essere)
(azione, azione, azione)
(modo di esssere)
Il verbo non solo definisce (defines) il soggetto, ma definisce anche il tempo
dell'azione, presente, passato, futuro, ecc. e il tipo di rapporto temporale fra
un'azione e l'altra. In aggiunta (in addition), il verbo indica e il "modo" o la
maniera in cui l'azione avviene (occurs).
2
s. m. 1 Parola: predicare il verbo di Dio | A verbo a –v, parola per parola
| Non dire, non aggiungere, non proferire –v, tacere. 2 Il Verbo, nella teologia
cristiana, la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo. 3 (ling.) Parte
variabile del discorso che indica un'azione o un modo di essere di persona o di
cosa: verbo attivo, passivo, transitivo, intransitivo.
Verbo
1 INTRODUZIONE
Verbo Parte variabile del discorso che, insieme al soggetto, costituisce il
nucleo di una frase. Pur essendo fondamentale nella struttura della frase, il
verbo può essere sottinteso; esistono addirittura enunciati che non lo
prevedono, com'è il caso delle parole olofrastiche, che equivalgono a un'intera
frase e sono costituite da interiezioni o da avverbi ('sì', 'no', 'ecco'), o
delle frasi nominali, costruite senza verbo.
Il verbo, esprimendo un'azione compiuta dal soggetto o su di esso, o un suo modo
di essere, svolge la funzione di predicato; nella frase si distinguono i
predicati verbali, costituiti dalla sola voce verbale ('Fioriscono i ciliegi'),
e i predicati nominali, costituiti dalla parte nominale e da un verbo copulativo
('I ciliegi sono in fiore').
I verbi si dividono inoltre in transitivi e intransitivi a seconda che possano o
non possano reggere un complemento oggetto; sottocategorie sono quelle dei
riflessivi ('lavarsi', 'chinarsi'), dei pronominali ('fidarsi', 'pentirsi'),
degli impersonali ('piovere', 'tuonare'), degli ausiliari ('essere' e 'avere'),
dei modali o servili ('potere', 'volere'), dei fraseologici ('cominciare',
'stare per').
Molti verbi derivano da nomi, tramite l'aggiunta del suffisso verbale
corrispondente a una delle tre coniugazioni; a loro volta possono dare origine a
nomi o aggettivi. Il verbo può subire alterazione tramite l'aggiunta di suffissi
che ne modificano il significato ('cant-icchiare', 'gioch-erellare').
2 LA CONIUGAZIONE
In molte lingue il verbo assume forme diverse a seconda del modo, del tempo e
della persona. La coniugazione del verbo è caratteristica di ogni lingua: alcune
presentano un gran numero di variazioni, altre meno. L'inglese, ad esempio,
mantiene la stessa forma per tutte le persone, con l'eccezione della terza
persona singolare all'indicativo presente.
In italiano la coniugazione è piuttosto complessa: si hanno sette modi, di cui
quattro finiti (indicativo, congiuntivo, condizionale e imperativo) e tre
indefiniti (infinito, gerundio e participio); più tempi per ogni singolo modo,
ad esempio per l'indicativo si hanno otto tempi, di cui quattro semplici
(presente, imperfetto, passato remoto e futuro semplice) e quattro composti
(passato prossimo, trapassato prossimo, trapassato remoto e futuro anteriore); e
sei persone (tre singolari e tre plurali). I verbi transitivi, oltre alla forma
attiva, hanno la forma passiva. Le varie forme si ottengono aggiungendo alla
radice del verbo una desinenza caratteristica del modo, del tempo e della
persona; nei tempi composti e nelle forme passive, si coniuga l'ausiliare e a
questo si fa seguire il participio passato del verbo.
In base alla terminazione (-are, -ere, -ire), si distinguono tre coniugazioni,
cui corrisponde un modello di flessione. Sono però numerosi i verbi irregolari,
che non seguono il modello della coniugazione cui appartengono. Ci sono poi i
verbi difettivi, che mancano di alcune forme verbali, e quelli sovrabbondanti,
che hanno due forme appartenenti a coniugazioni diverse, con significato simile
('riémpiere', 'riempire') o, più spesso, diverso ('arrossare', 'arrossire').
(dal latino
accusativus). Caso grammaticale della lingua italiana che
indica, essenzialmente, il compimento o l'effetto di un'azione. In genere si
immedesima con l'oggetto su cui cade direttamente l'azione che viene
espressa dal verbo. Nei sostantivi neutri, tale caso non si distingue mai
dal nominativo. Il caso
a. serve anche a indicare direzione,
estensioni di tipo spaziale o temporale, complementi di relazione,
esclamazioni, oppure può avere anche funzione avverbiale. In linea di
massima, i sostantivi e gli aggettivi delle lingue romanze derivano, di
fatto, tranne che in rari casi, dall'
a. latino: ad esempio la parola
nazione deriva da
nationem e non da
natio. L'
a.
grammaticale dipende direttamente da un
verbo
transitivo; l'
a. libero è un tipo di
a. che può assumere vari
significati. All'interno della sintassi, inoltre, si possono distinguere, in
opposizione all'
a. ordinario, altri tipi di
a.: l'
a. di
relazione (o
alla greca) viene usato quando si limita a un
determinato oggetto il significato di un attributo; il
doppio a.
viene impiegato con i verbi che si costruiscono con l'
a. della cosa;
l'
a. con l'infinito è un particolare tipo di costruzione che consiste
nel porre il soggetto della proposizione nel caso
a., mentre il
predicato collegato ad esso viene posto all'infinito, per dare maggiore
risalto alla narrazione.
Ausiliare.
Persona o cosa che è di aiuto.
• Dir. - Libri a.: le scritture non obbligatorie delle imprese. ║
A. dell'imprenditore: colui che collabora con lui
nell'espletamento dell'attività, sia sotto forma di dipendente, sia con
mansioni indipendenti. ║ A. dei giudici: colui che ha parte
preminente in un processo, oltre al giudice, cioè avvocati, curatori
fallimentari, liquidatori, ecc.
• Ling. - Verbi a.: a. per eccellenza sono i verbi
essere e avere, impiegati per la formazione dei tempi
composti dei verbi attivi e per il passivo dei verbi transitivi.
Avere si usa con i verbi transitivi attivi e con i verbi
intransitivi che esprimono attività fisica e morale. Con i verbi modali
servili come potere, dovere e volere si usa l'a.
richiesto dal verbo cui sono uniti.
Avverbio.
Parte invariabile del discorso che ha la funzione di determinare un
verbo, un aggettivo o un altro a.
a cui si riferisce. Si distinguono diversi gruppi secondo la funzione
che esplicano: di maniera (bene, male); di tempo (ora,
adesso, poi, allora, ancora, oggi, ieri, domani, tardi, spesso, ecc.);
di quantità (più, meno, troppo, molto, affatto); di luogo
(qui, qua, laggiù, lassù, lì, là, ecc.) di negazione (no, non);
di affermazione (sì, certamente, sicuramente, proprio, appunto);
di dubbio (forse, probabilmente); interrogativi (perché?
come?).
Concessivo.
Che esprime concessione.
• Gramm. - Proposizione c.: proposizione subordinata che esprime
un fatto, nonostante il quale avviene ugualmente quanto è detto nella
proposizione reggente. Nella forma esplicita ha di norma il congiuntivo
ed è introdotta dalle congiunzioni benché, quantunque, sebbene o
dalle locuzioni per quanto, con tutto che, nonostante che. Nella
forma implicita può avere il verbo nel
participio passato, retto dalle stesse congiunzioni, o al gerundio
introdotto da pure.
Congiuntivo.
Ciò che è atto a congiungere, ad unire.
• Gramm. - Modo del verbo (detto anche
soggiuntivo) che indica l'azione come possibile ma non certa o,
comunque, non ancora avvenuta. In conseguenza di ciò, si avrà il c.
ottativo o desiderativo, il c. dubitativo, il c.
esortativo, il c. potenziale, ecc.
Coniugazione.
Si chiama in genere c. la flessione del
verbo in confronto di quella del nome (declinazione); essa in
alcune lingue indo-europee esprime il tempo, il modo, il numero, la
persona e la diatesi. In particolare, si dice c. la sistemazione
delle diverse forme del verbo. Così in latino si hanno quattro c.
e le forme essenziali sono quelle dell'indicativo presente (o
dell'infinito presente), del perfetto e del supino. In italiano le c.
sono tre, se si trascura la differenza tra i verbi in -ere piani
e quelli in -ere sdruccioli.
• Biol. - L'accoppiamento sessuale o copulazione.
• Bot. - Fusione di due isogameti liberi dal gametangio che li ha
prodotti; contrapposto a copulazione.
• Anat. - Forami di c.: i fori intervertebrali attraverso cui
passano le radici spinali.
Denominale.
Ling. - Riferito a verbo, aggettivo o
sostantivo che deriva da un nome.
Deponente.
(dal latino deponens: che depone). Chi o che fa un deposito.
● Ling. - Nella grammatica latina, verbo
di forma passiva e di significato attivo.
● Mat. e Chim. - In espressioni matematiche e formule chimiche, termine
usato per indicare numeri, lettere e segni aggiunti ad altri, in basso,
generalmente a destra, un po' sotto la riga.
Desiderativo.
Che esprime desiderio.
● Gramm. - Forma verbale che indica il desiderio di compiere l'azione
espressa dal tema del verbo stesso. È
riscontrabile in parecchie lingue indoeuropee.
Dichiarativo.
Che dichiara o spiega.
● Gramm. - Congiunzioni d.: di tipo coordinativo, quando
introducono una proposizione che spiega quanto espresso nella frase
precedente (cioè, infatti, invero); di tipo subordinativo, quando
introducono una proposizione che dichiara, afferma o enuncia in
dipendenza da quanto espresso dalla reggente (che, come). ║
Proposizioni d.: proposizioni subordinate che spiegano un pronome
dimostrativo contenuto nella principale, completandone il senso, o che
costituiscono l'enunciato di una comunicazione. Nella forma esplicita
sono introdotte da che, come e hanno
verbo di modo finito; nella forma implicita sono
introdotte da di e hanno verbo di
modo infinito. Proposizioni d. possono dirsi anche le
proposizioni soggettive o oggettive quando dipendano da verba dicendi.
║ Verbi d.: voci verbali che esprimono comunicazione, spesso
indicati anche come verba dicendi.
● Dir. - Detto di atti giuridici o amministrativi tesi ad accertare ed
evidenziare rapporti e situazioni giuridiche preesistenti.
Discorso.
(dal latino discursus, der. di discurrere: correre qua e
là). Atto del discorrere. Colloquio, conversazione. ║ Argomento su cui
si discorre. ║ Esposizione ordinata ed esaustiva intorno a un argomento,
sia scritta sia pronunciata di fronte ad un pubblico di ascoltatori. ║
Nei titoli di alcune opere è sinonimo di saggio.
● Gramm. - Parti del d.: categorie entro cui è sistematizzato il
corpo lessicale di una lingua in base alla funzione assolta dalle
singole parole. La grammatica tradizionale italiana distingue: nome,
articolo, aggettivo, pronome, verbo,
preposizione, congiunzione, avverbio, interiezione. Le prime cinque, in
quanto soggette a flessione secondo il genere, il numero, la persona, il
tempo e il modo, sono dette variabili, le altre quattro
invariabili. ║ D. diretto e indiretto: in sintassi
sono tali rispettivamente la riproduzione delle parole pronunciate da
altri nella forma originaria o la riproduzione in dipendenza sintattica
da un verbum dicendi.
Finito.
Giunto o condotto a termine, compiuto. ║ Di opere, lavori, prodotti
dell'ingegno, della mano o dell'industria, condotto a compiutezza o
perfezione, che ha avuto tutte le rifinitiure. ║ Determinato, limitato.
● Econ. - Prodotto f.: in linguaggio economico si considerano
prodotti f., per i venditori, i beni che vengono normalmente
ceduti a pagamento immediato, sia che siano destinati al consumo sia che
debbano a loro volta servire per ulteriori produzioni.
● Arald. - Attributo del manico di un martello quando all'estremità è
guarnito di smalto diverso.
● Gramm. - Modi f. del verbo:
quelli che distinguono la persona, il numero, il tempo, e cioè, nella
lingua italiana, i modi indicativo, congiuntivo, condizionale,
imperativo.
● Filos. - Ciò che ha limite o termine, contrapponendosi a infinito. La
contrapposizione tra il concetto di f. e quello di infinito è
presente già nella filosofia greca, passando poi al pensiero scolastico
medioevale. La caduta della dualità tradizionale tra f. e
infinito viene posta da G. Bruno, secondo cui a Dio, causa infinita,
deve necessariamente corrispondere un effetto infinito. Pertanto,
secondo Bruno, così come è contraddittorio pensare che l'infinita
potenza creatrice di Dio si esaurisca nella creazione di una realtà
f., è altrettanto contraddittorio considerare f. l'universo.
L'universo è infinito come Dio, anzi esso non è che la rappresentazione
sensibile di Dio. Il tema della dualità f.-infinito viene
largamente ripreso da Schelling che, nella fase più schiettamente
religiosa del suo pensiero, giunse a concepire l'esistenza del f.
come una caduta, un salto. Poiché il reale, in Dio, è anche ideale, la
nascita della realtà f. equivale a una separazione del reale
dall'ideale, il determinarsi di una realtà che non ha più in sé tutte le
possibilità della sua esistenza ed è quindi condizionata. Pertanto,
secondo Schelling, la caduta è il distacco del reale dall'ideale. La
logica hegeliana intende cogliere l'immanenza dell'infinito nel f.,
dell'assoluto nel divenire, concependo la dialettica come un articolarsi
dell'infinito nello sviluppo e nelle relazioni del f. Il tema del
f., in contrapposizione all'infinito, ricorre in tutto il
pensiero del filosofo danese S. Kierkegaard che, da esso, formula tutta
una serie di categorie divenute i temi obbligati della filosofia
esistenziale. Kierkegaard ripudia il f., in nome di una vita
religiosa in cui l'esistenza umana si rivela nella sua singolarità
irripetibile, come esistenza f. nella quale irrompe l'infinito.
Secondo Kierkegaard, il f. è proprio della vita estetica che ha
valore solo se si pone come momento di transizione verso una vita più
alta. Egli pone come secondo stadio, quello della vita etica in cui
l'uomo diviene consapevole di essere una creatura f. e
peccaminosa e viene preso dalla disperazione del f. e
dall'angoscia dell'assoluto, che egli risolve nella vita religiosa.
L'umanesimo contemporaneo ha rivalutato il mondo f., non
trascendentale, proprio dell'uomo storico, condizionato dalle proprie
matrici biologiche ed esistenziali.
● Mat. - Un insieme I si dirà f. quando esso è equivalente a un
insieme composto dai primi n numeri naturali. Ciò vuol dire che è
possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli elementi di I e
i numeri da 1 a n. Ma degli insiemi f. si può dare anche
una definizione indiretta: un insieme è f. quando non è possibile
stabilire una corrispondenza biunivoca tra i suoi elementi e gli
elementi di un suo sottoinsieme proprio.
H.
Ottava lettera dell'alfabeto italiano e latino; segno consonantico usato
con funzioni ortografiche, in alcune voci del
verbo avere, in qualche interiezione e in alcune parole,
in gran parte non italiane. Nei digrammi ch e gh serve ad
indicare il suono gutturale di c e g davanti a e e
i. La h è usata largamente nelle lingue classiche e
straniere soprattutto come lettera iniziale. ║ Presso i Greci indicava
il n. 100, poi il n. 8; presso i Romani, il n. 200. ║ Simbolo di ora. ║
Simbolo di etto. ║ Targa automobilistica internazionale dell'Ungheria.
• Chim. - Simbolo dell'idrogeno.
• Elettr. - Simbolo del campo magnetico e dell'induttanza.
• Fis. - Simbolo della costante di Planck.
• Mus. - Nella notazione musicale dei paesi di lingua tedesca, equivale
alla nota si.
Imperativo.
Fil. - Legge della ragione che si impone alla volontà. Secondo Kant, l'i.
può essere ipotetico, e allora comanda un'azione non come fine a se
stessa, ma come mezzo per giungere a un fine; ovvero categorico, quando
invece la ragione comanda un'azione fine a se stessa.
• Gramm. - Uno dei modi del verbo; serve
ad indicare comando.
Imperfetto.
Non condotto a perfezione. ║ Difettoso; mancante in qualche parte;
incompleto.
• Gramm. - Modo i.: tempo del modo indicativo e congiuntivo del
verbo, indicante azione continuativa o
usuale del passato.
Indicativo.
Che indica.
• Ling. - Modo i.: modo del verbo
che esprime fatti certi e reali o considerati tali. ║ Aggettivi i.:
aggettivi non qualificativi: possessivi, dimostrativi, indefiniti,
interrogativi. • Telecom. - I. di chiamata di una stazione
radioelettrica è il segnale corrispondente al nominativo della stazione.
║ In telefonia, i. distrettuale: gruppo di cifre che nella
numerazione telefonica interurbana contraddistingue un determinato
distretto telefonico.
Infinito.
Che non ha principio né fine.
• Mat. - Concetto fondamentale che compare, sotto varie forme, in molti
rami della matematica. Si indica con il simbolo ∞. Nella geometria
proiettiva,
elemento all'i. è sinonimo di
elemento improprio.
Nell'analisi matematica, un
i. è una quantità reale o complessa,
variabile e tendente all'
i., nel senso complesso, cioè avente
modulo che tende all'
i. Nel campo reale possono presentarsi in
particolare i casi di tendenza a + ∞ od a -∞. Si dice anche di funzioni
che in un punto
a hanno per limite l'
i. Siano
f(x)
e
g(x) due
i. per x →
a, cioè sia

e supponiamo che esista il limite del loro rapporto. Si possono allora
presentare i tre casi seguenti:

.
Nel primo caso si dice che f(x) è un
i. di ordine inferiore
rispetto a g(x); nel secondo caso, si dice che f(x) e g(x) sono due
i.
dello stesso ordine; nell'ultimo caso, si dice che f(x) è un
i.
di ordine superiore rispetto a g(x). Si dirà infine che f(x) e g(x)
non sono confrontabili se il limite del loro rapporto non esiste.
Nella teoria degli insiemi si definisce
insieme i. quell'insieme
equipotente (cioè tale che i suoi elementi si possono mettere in
corrispondenza biunivoca) con una sua parte propria.
• Gramm. -
Modo i. del verbo:
quello che ne esprime genericamente l'idea, senza determinazione di
persona e di tempo. Ha spesso il valore di sostantivo (
il buon volere:
la buona volontà).
• Filos. - Il concetto di
i. fu distinto da Aristotele in due
significati diversi: metafisicamente, come ciò che si può percorrere e
matematicamente come ciò che si può percorrere ma non interamente. Il
primo significato assunse poi, ad opera di Plotino e della Scolastica,
un valore teologico come modo di essere di Dio. La distinzione
cartesiana tra
i. ed indefinito dove solo Dio è
i.,
ripropone la distinzione tra il significato teologico e quello
matematico. Con Hegel questa distinzione, affermata nei termini di
cattivo i. (l'
i. matematico) e
vero i., viene risolta
assegnando al secondo il carattere puramente empirico, e cioè come forza
per la quale la ragione abita il mondo e lo domina.
Intransitivo.
Gramm. - verbo la cui azione non passa
oltre il soggetto che la compie, ma si esaurisce nell'agente stesso e
non richiede un complemento oggetto o diretto. Per quest'ultima ragione
il verbo i. non può esser fatto
passivo. Alcuni verbi i. possono divenire transitivi e allora
prendono per complemento oggetto una parola ricavata dalla stessa radice
del verbo (oggetto interno). Alcuni
verbi transitivi assumono valore i. quando siano usati in senso
assoluto, cioè senza complemento oggetto.
Ipotètico.
Che costituisce o si fonda sopra un'ipotesi.
• Filos. - Giudizio i.: ogni giudizio del tipo se A è, B è,
oppure se A è B, C è D. ║ Sillogismo i.: ogni sillogismo
che sia comunque composto, totalmente o parzialmente, di giudizi i.
║ Imperativo i.: nella terminologia di Kant, proposizione che
esprime un comando condizionato, ossia consiglia un'azione come mezzo
per conseguire un fine.
• Gramm. - Periodo i.: periodo formato di due proposizioni in
stretta correlazione fra loro (anche per l'uso dei modi e tempi del
verbo), di cui una (protasi)
esprime la condizione necessaria per l'avverarsi del fatto espresso
dall'altra (apodosi). La protasi è normalmente introdotta dalla
congiunzione se. ║ Nella sintassi latina, e per analogia in quella
italiana, si distinguono tre tipi di periodo i.: il tipo della
realtà, quando l'ipotesi è un fatto reale e la conseguenza è
affermata come sicura; il tipo della possibilità, quando si pone
per condizione un fatto possibile, cioè che può effettivamente
verificarsi; il tipo dell'irrealtà, quando si ammette, per pura
supposizione, un fatto irreale.
Modale.
Di modo, che esprime il modo. • Gramm. - Proposizione m.:
subordinata che indica la maniera in cui avviene ciò che è espresso
nella proposizione reggente. ║ Attrazione m.: fenomeno
linguistico per cui una subordinata strettamente connessa, dal punto di
vista logico, a una proposizione reggente che abbia il
verbo al congiuntivo viene a sua volta
attratta al modo congiuntivo. ║ Particelle m.: particelle che si
uniscono alle forme verbali per precisarne il valore come azione
possibile, eventuale, desiderabile.
• Mat. - Logica m.: studio delle relazioni di inferenza
caratteristiche delle proposizioni che esprimono contingenza,
possibilità, necessità.
• Mus. - Notazione m.: struttura intervallare che scandisce con
regolarità una melodia all'interno di un sistema musicale
Modo.
Aspetto, forma in cui ci si presenta, apparenza esteriore; maniera. ║
Comportamento, atteggiamento che si ha nei confronti degli altri. ║
Usanza, abitudine. ║ Metodo, mezzo per raggiungere uno scopo, sistema,
espediente. ║ Possibilità, occasione, opportunità. ║ Misura, regola,
limite.
• Dir. - Onere al quale il destinatario di una donazione o di una
liberalità altrui deve sottostare per volontà della persona dalla quale
riceve il beneficio.
• Filos. - Determinazione non essenziale che può caratterizzare una data
sostanza nella sua natura o nel suo divenire. In questo senso il termine
fu usato soprattutto nella Scolastica e acquistò poi il massimo
interesse nella scuola cartesiana e in Spinoza, il quale chiama m.,
o modificazioni, tutte le particolari forme in cui si presenta
l'unica infinita sostanza in entrambi i suoi due (ma non esclusivi)
attributi dell'estensione e del pensiero. ║ M. del sillogismo:
nella logica aristotelica, e poi nella tradizione latina e medioevale, i
quattro tipi sillogistici che, all'interno di una determinata figura, si
potevano ottenere a seconda che ciascuna delle premesse fosse
affermativa o negativa, universale o particolare (essere possibile, non
essere possibile, essere necessaria, non essere necessaria).
• Fis. - Ciascuno dei possibili stati di un sistema dinamico
(soprattutto in riferimento a sistemi oscillanti) e la soluzione delle
equazioni particolari che lo descrivono.
• Gramm. - Categoria del verbo che
indica come il soggetto sente l'azione: certa e reale (indicativo),
probabile ed eventuale (congiuntivo), realizzabile a certe condizioni
(condizionale), espressa in forma di comando (imperativo). ║ Avverbi
di m.: avverbi che indicano come viene compiuta l'azione (ad
esempio, facilmente). ║ Complemento di m.: complemento che
indica il m. in cui viene compiuta l'azione espressa dal
verbo (ad esempio, con difficoltà).
• Mineral. - Percentuale, rispetto al volume, in cui ciascuno dei
minerali che la costituiscono è presente in una roccia.
• Mus. - Sequenza di toni e semitoni disposti secondo un ordine
prestabilito e formanti una serie di suoni successivi, che rimane
identica per ogni ottava. Poiché toni e semitoni possono essere disposti
nella scala in diverse maniere, essi danno origine a molti m.,
ciascuno con delle caratteristiche e un colore particolare: la musica
greco-romana ne comprendeva sette, il canto liturgico della Chiesa
cattolica ne conosce otto, la musica tonale ne adotta due, il maggiore (terza
maggiore) e il minore (terza minore). ║ Termine con cui,
nella teoria medievale della misura della durata delle note, si
indicavano i valori della maxima e della longa e i segni
di misura ad essi corrispondenti.
Morfologìa.
Studio sistematico delle forme.
● Biol. - Studio e descrizione delle forme degli esseri viventi, nella
loro struttura interna (anatomia o m. interna) e nel loro aspetto
esterno (m. esterna). Talora si comprendono nella m., che
rappresenta il settore più antico delle scienze biologiche, anche la
citologia, l'istologia, l'embriologia, la teratologia, in realtà sue
branche e derivazioni. La m. prevede numerose specializzazioni:
la m. descrittiva, che opera descrizioni analitiche della
struttura degli organismi; la m. comparata, che ha lo scopo di
rilevare affinità e differenze fra le strutture degli organismi viventi;
la m. sperimentale, che studia in particolare lo sviluppo e la
definizione delle forme di un organismo.
● Bot. - M. vegetale: disciplina che studia la forma esterna e le
posizioni delle parti e degli organi delle piante, stabilendo affinità e
differenze tra specie diverse, utili anche ai fini di una collocazione
sistematica. La m. vegetale contribuisce, inoltre, alla
comprensione della struttura e dei fenomeni di accrescimento e di
riproduzione degli organismi vegetali.
● Geogr. fis. - Studio delle forme della superficie terrestre, dei loro
caratteri, della loro distribuzione e origine.
● Ling. - Disciplina che studia la forma, la struttura e le componenti
delle parole e la loro suddivisione in classi diverse (aggettivo,
verbo, avverbio, ecc.). Ogni parola può
essere divisa in più parti o morfemi, la prima delle quali (radice
o morfema lessicale) è immutabile ed esprime il significato fondamentale
della parola, mentre l'ultima (desinenza o morfema grammaticale)
subisce diverse modificazioni a seconda della funzione svolta
all'interno della frase (soggetto, complemento, ecc.). La terminologia
usata dal linguista A. Martinet indica con il termine monema
entrambe le parti di una parola, tanto quella invariabile (detta anche
lessema) quanto quella variabile. Il monema costituisce l'unità
minima e fondamentale di significato; esso non è però sempre facilmente
identificabile, poiché a rendere difficoltosa l'analisi delle componenti
di un vocabolo possono intervenire fattori diversi, quali mutamenti
all'interno della radice, plurali irregolari, ecc. Le lingue possono
essere distinte, a seconda dei procedimenti morfologici che le
caratterizzano, in tre gruppi principali. Le lingue flessive
(come quelle indoeuropee) indicano le diverse funzioni grammaticali
tramite affissi uniti alle radici e possiedono più forme per indicare il
numero (singolare e plurale), il genere e il caso; le lingue
agglutinanti (il turco) sono composte da parole in cui i monemi si
pongono separatamente l'uno dopo l'altro; le lingue isolanti (il
cinese) prevedono monemi separati. Nel primo gruppo di lingue, la
flessione può riguardare diverse classi di parole: si distinguono perciò
la flessione verbale (che avviene mediante una serie di desinenze in
paradigmi detti coniugazioni), nominale e pronominale (entrambe in
paradigmi detti declinazioni). La m. si occupa anche della
formazione delle parole: i processi fondamentali che portano alla
creazione di nuovi termini sono due, la composizione (tramite lessemi
autonomi già dotati di significato) e la derivazione (mediante affissi).
Nominale.
(dal latino nominalis, der. di nomen: nome). Gramm. - Del
nome. ║ Declinazione n.: è relativa alla categoria del nome,
quale sostantivo o aggettivo. ║ Predicato n.: è costituito da un
nome e da una copula, o un verbo
copulativo. ║ Forme n. del verbo:
quelle che possono essere sostantivate. ║ Appello n.: è
effettuato chiamando per nome e cognome ciascuna persona.
● Econ. - Corso n.: prezzo attribuito ai titoli in assenza di
contrattazioni che ne determinino il prezzo corrente. ║ Interesse n.:
interesse effettivamente corrisposto. ║ Prezzo n.: prezzo
corrente, diverso da quello di mercato. ║ Valore n.: valore
attribuito al capitale di una società all'atto della sua costituzione;
valore dato ai titoli a reddito fisso. ║ Valore n. di una moneta:
quello indicato su di essa, indipendentemente dal suo potere d'acquisto.
● Fis. - Termine attribuito ad alcune grandezze fisiche per distinguerle
da altre che hanno lo stesso nome, ma che sono fisicamente differenti.
Oggettivo.
Che concerne l'oggetto, è in relazione con l'oggetto o ha carattere di
oggetto. ║ Con accezione opposta a soggettivo, ciò che ha
consistenza in se stesso, indipendentemente dal fatto di essere
conosciuto da un soggetto. ║ Che si fonda sull'oggetto, su fatti ed
elementi concreti, su un'esperienza diretta. ║ Secondo l'uso più
diffuso, ciò che si basa su una valutazione della realtà dei fatti,
prescindendo da idee o da tendenze personali. ║ Ciò che ha valore
generale e non limitato ad un singolo o ad alcuni. In questa accezione è
affine ad universale.
● Filos. - Attributo della realtà extramentale. Per la Scolastica è
l'attributo del reale in quanto pensato, cioè rappresentato dal pensiero
mediante categorie mentali e perciò "frapposto" tra il soggetto pensante
e la realtà che sussiste indipendentemente dal pensiero (V. OGGETTO).
Per Kant, o. è ciò che non deriva dalle determinazioni empiriche
del soggetto ma è frutto di una sintesi gnoseologica universale e
necessaria e, perciò, reale.
● Ling. - Proposizione o.: in italiano, proposizione subordinata
che, nella struttura logica del periodo e in relazione al predicato
della proposizione principale, ha funzione corrispondente a quella del
complemento oggetto all'interno della singola frase. Le proposizioni
o. possono avere forma esplicita (in tal caso sono introdotte
dalla congiunzione che e hanno il verbo
espresso in un modo finito; per esempio: spero che tu venga) o
forma implicita (in tal caso hanno il verbo
espresso all'infinito semplice o retto dalla preposizione di
oppure a; per esempio: spero di vederti). In latino le
o. sono proposizioni dirette e appartengono alla categoria delle
infinitive, essendo espresse con l'infinito del
verbo ed il soggetto nel caso accusativo. ║ Genitivo o.:
determinazione sintattica che esprime un rapporto, tra il genitivo e il
sostantivo che lo regge, tale per cui il primo funge da ideale
complemento oggetto delle azioni o sentimenti impliciti nel secondo.
● Med. - Sintomi o.: sono quelli rilevabili dal medico, mediante
una visita clinica o esami di laboratorio, e si distinguono dai
soggettivi, cioè i sintomi che il paziente dichiara di avvertire.
Paradigma.
(dal tardo latino paradigma). Modello, esempio.
• Gramm. - Modello di declinazione di un sostantivo o di coniugazione di
un verbo fornito nei libri di testo;
anche l'enunciazione delle forme fondamentali di un
verbo, cioè presente, perfetto,
participio passato, infinito, da cui derivano tutti gli altri tempi del
verbo stesso (per esempio, il paradigma
del verbo latino vincere è vinco-is,
vixi, victum, vincere).
• Ling. - L'insieme degli elementi della frase che stanno in una
reciproca relazione di sostituibilità, potendo alternarsi nello stesso
contesto.
• Filos. - Nel linguaggio filosofico è talvolta usato come sinonimo di
archetipo per designare i modelli eterni degli oggetti sensibili
(per esempio in Platone). Nell'epistemologia contemporanea il termine è
stato introdotto da Th. Kuhn, nel significato di insieme di pratiche,
regole metodologiche, ipotesi e modelli esplicativi che orientano la
ricerca scientifica in una data epoca.
Particìpio.
(dal latino participium, der. del greco metochikós:
partecipante). Modo indefinito del verbo,
che può assumere valore di aggettivo o di sostantivo, declinandosi per
genere, numero e caso. Partecipa della natura del
verbo, in quanto può distinguere il
tempo e l'aspetto di un'azione. Nella lingua italiana, il p.
presente è impiegato per lo più come sostantivo (comandante) o
aggettivo (contenente), quello passato nelle costruzioni assolute
(preparata la valigia, partì) e nella formazione dei tempi
composti (avere fatto), quello futuro come aggettivo o sostantivo
(nascituro).
Passivo.
(dal tardo latino passivus der. di passus, part. pass. di
pati: patire, subire). Che subisce l'azione, in contrapposizione
ad attivo. ║ Nel linguaggio comune, di individuo che dimostra mancanza
di volontà, di spirito di iniziativa. ║ Resistenza p.: quella di
chi si limita a non collaborare; anche sinonimo di opposizione non
violenta a un'imposizione ritenuta ingiusta. ║ Fumo p.: quello
che, pur non fumando, si aspira in presenza di fumatori.
• Econ. - Nel linguaggio amministrativo e contabile, il termine p.
è utilizzato in varie espressioni (bilancio p., partite p., elementi
p., ecc.) per indicare la mancanza di utili, in quanto le uscite
superano le entrate. Usato come sostantivo, indica quella parte del
bilancio dove si registrano debiti e oneri, ovvero gli elementi p.
di un'azienda.
• Banca - Conto corrente p.: quello che presenta un saldo
creditore per la banca. ║ Operazioni p.: operazioni con cui le
banche si procurano capitali a credito. • Gramm. - Detto di forme
verbali in cui il soggetto subisce l'azione: io sono amato. Il
termine p. è usato anche come sostantivo: il p. del
verbo amare.
• Psicol. - Soggetto riluttante a intraprendere una qualsiasi azione o
che è incline a diventare dipendente da qualcun altro e a cercare
relazioni in cui possa assumere un ruolo p.-ricettivo o
p.-dipendente.
• Dir. - Di ciò che riguarda il soggetto p. di un rapporto
giuridico obbligatorio: delegazione p. ║ Soggetto p.: il
titolare del dovere in un rapporto giuridico obbligatorio. • Elettrotecn.
- Di elemento di un circuito in cui non siano presenti sorgenti di forza
elettromotrice (rete p.) e, più in particolare, di elemento che
non può immettere energia nel circuito (resistore).
• Telecom. - Terminale p.: elemento terminale di un collegamento
che non ha bisogno di essere alimentato da una fonte di energia, perché
riceve energia dall'altro terminale. • Chim. - Stato p.: stato di
un metallo che ha subito il processo di passivazione.
Predicato.
(dal latino praedicatum, der. del greco kategoroúmenon:
detto, asserito). Ciò che si predica, ovvero ciò che si afferma o nega
intorno a una certa cosa che, grammaticalmente, funge da soggetto. ║
P. d'onore o p.: qualificazione onorifica, attribuita a
personaggi eminenti, per concessione o consuetudine. Ai senatori delle
Repubbliche di Venezia, Genova e Lucca era, anticamente, attribuito il
p. di Eccellenza, usato anche per i grandi di Spagna e gli
appartenenti a supremi ordini cavallereschi. In seguito questo p.
fu esteso a tutti coloro che ricoprivano alte cariche civili o militari
e ai cardinali; questi ultimi, a partire dal XVII sec., ebbero come
p. proprio anche quello di Eminenza. P. dei sovrani
inglesi è quello di Graziosissima maestà; Magnifico degli
antichi nobili veneziani e genovesi e, attualmente, dei rettori
d'università; Monsignore veniva attribuito agli alti prelati e,
dal XVII sec., al Delfino francese; Serenissimo ai principi
sovrani minori, ai principi di rami collaterali della famiglia regnante
e ai dogi di Venezia e Genova. Per concessione della Santa Sede, ai
sovrani di Austria-Ungheria, Spagna, Francia e Portogallo vennero
rispettivamente attribuiti i p. di Apostolico,
Cattolico, Cristianissimo, Fedelissimo. ║ P.
nobiliare: nome, solitamente di luogo, che, preceduto dalla
particella nobiliare (in italiano di), viene aggiunto al titolo
nobiliare per specificarlo. Esso può seguire il titolo (Camillo Benso
conte di Cavour) o semplicemente il nome (conte Camillo Benso di
Cavour). ║ Essere in p. di...: essere fra coloro i quali
hanno maggiore probabilità di ottenere una carica o un titolo.
• Filos. - L'analisi delle forme di enunciazione, condotta da Aristotele
nell'Organon, portò il filosofo greco a individuare i due termini
basilari dell'enunciazione: ciò rispetto a cui si enuncia e ciò che si
enuncia. Aristotele chiamò il primo upokeímenon, tradotto dai
Latini con subiectum, da cui il nostro "soggetto", e il secondo
kategoroúmenon, in latino praedicatum da cui p.,
ovvero il prodotto dell'azione di enunciare. Nella logica
aristotelica soggetto e p. vengono così ad assumere il ruolo di
elementi fondamentali della proposizione, che già Platone aveva
individuato nel nome (ónoma) e nel verbo
(rema), intendendo con quest'ultimo, sia il p. verbale,
sia quello nominale.
• Gramm. - Il p. come termine fondamentale della proposizione
predicativa, esprime uno stato, una qualità o un'azione del soggetto. È
detto verbale se nella proposizione appare un
verbo predicativo, nominale se
nella proposizione appare il verbo
essere o un altro verbo copulativo; in
quest'ultimo caso il p. è formato dalla copula (il
verbo copulativo) e dalla qualità, nome
o pronome unito al soggetto per mezzo della copula. In italiano, il
p. verbale concorda in numero e persona con il soggetto. Nei tempi
composti, nel caso in cui l'ausiliare sia essere, il participio
concorda anche nel genere; se, invece, l'ausiliare è avere il
participio non concorda con il soggetto, né nel genere né nel numero, ma
con il complemento oggetto. Il p. nominale concorda con il
soggetto nel genere e numero, se è aggettivo; qualora sia sostantivo può
non concordare.
• Log. - Con il termine p. si intende un'espressione linguistica
che designa una proprietà di oggetti (per esempio, rosso, piccolo,
ecc.). Nei Principia mathematica, B. Russel, riprendendo
le idee di G. Frege, sostenne che a un p. corrisponde una
funzione a un solo argomento, ottenibile sostituendo il termine
singolare con una variabile (proposizionale monadica). Questa funzione,
equivalente a una proprietà o a una classe, è soddisfatta da oggetti del
dominio della variabile e può avere come valori proposizioni o valori di
verità. Al contrario della logica classica, di matrice aristotelica e
basata sulla metafisica dell'inerenza, la logica matematica
contemporanea permette di formare non solo enunciati nella forma
soggetto-p., ma anche enunciati esprimenti relazioni fra
individui cui corrispondono, nel linguaggio formale, funzioni
diadiche o n-adiche. Si deve principalmente a Frege e Russel
tale potenziamento dell'analisi logica degli enunciati, in quanto le
loro teorie unificavano proprietà e relazioni nella nozione di funzione
a n argomenti. Sulla base di tale equiparazione, un p.
viene generalmente definito come simbolo per una proprietà. I termini
formanti gli enunciati, oggetto di studio nel linguaggio formale
predicativo, vengono classificati in p. e designatori per
individui, detti anche termini. Nel simbolismo della logica
formale si usano lettere minuscole per i termini e maiuscole per i
p., con un segno di esponente per indicare il numero di individui
cui il p. si applica. ║ Logica dei p.: sistema formale
entro cui, una volta decise opportune regole di deduzione, vengono
studiate le inferenze tra formule che si possono formare con p.,
costanti, variabili individuali, quantificatori e connettivi logici.
Presente.
Che si trova nello stesso luogo di chi parla o nel luogo di cui si parla
o a cui ci si riferisce. ║ Fig. - P.!:
espressione che costituisce la risposta a un appello. ║ Seguito dalla
preposizione a: assistere a qualcosa prendendovi parte o trovarsi per
caso sul luogo di un evento (i testimoni p. all'accaduto). ║ In
costruzioni assolute, accompagnato da sostantivo o pronome, è sinonimo
di alla presenza di: p. la madre. ║ Al plurale, con valore
sostantivato, indica chi si trova in un luogo o prende parte a un fatto:
prender nota dei p. ║ Fig. - Esclusi i p.: frase di
cortesia con cui si escludono da una considerazione negativa gli
astanti. ║ P. alle bandiere: durante il secondo conflitto
mondiale, espressione riferita ai militari morti in guerra o dichiarati
dispersi; ai familiari era riconosciuta un'indennità aggiuntiva, oltre
alla pensione. ║ La p. lettera o semplicemente la p.:
formula epistolare, impiegata soprattutto nel linguaggio commerciale e
burocratico, per indicare la lettera che si sta scrivendo o che il
destinatario sta leggendo: con la p., comunichiamo che... ║ Fig.
- Che è ben impresso nell'animo: il suo sorriso è sempre p. nella mia
mente. ║ Fig. - Aver p. qualcuno, qualche cosa: ricordare
bene. ║ Fig. - Far p. qualcosa a qualcuno: proporre
all'attenzione, far notare. ║ Fig. - Tener p. qualcosa o
qualcuno: tenere conto di un fatto o di una persona nel formulare un
giudizio o nel prendere una decisione. ║ Fig. - Essere p. a se stesso:
avere sempre la perfetta padronanza delle proprie facoltà, essere
consapevole dei propri pensieri, delle proprie azioni e reazioni. ║ Che
fa parte del tempo attuale, in opposizione al tempo passato o al futuro:
la p. generazione. ║ Come sostantivo, il tempo, l'epoca, il
momento attuale e gli avvenimenti che lo accompagnano: i problemi del
p. ║ Fig. - Al p.: attualmente.
• Gramm. e Ling. - Tempo p. o semplicemente p.: categoria
verbale che indica il compiersi di un'azione o di un avvenimento nel
momento stesso in cui si svolge la stessa comunicazione linguistica.
Accanto alla connotazione temporale il p. può esprimere un valore
d'aspetto, sottolineare cioè la qualità di non compiutezza dell'azione
stessa. Tutte le lingue con flessione verbale esprimono il tempo p.,
che ha forme proprie in tutti i modi finiti del verbo. In quanto tema
temporale costituisce, nelle lingue indoeuropee e nella maggior parte di
quelle europee moderne, i tempi imperfetto, futuro e varie forme
nominali, quali l'infinito, il participio presente, il gerundio, il
gerundivo. ║ P. storico o p. narrativo: per scelta
stilistica è talvolta utilizzato in testi narrativi ad esprimere
un'azione perfettiva, momentanea o complessiva, conferendo maggior
incisività al racconto. ║ P. atemporale: enuncia verità
considerate sempre valide.
Riflessivo.
Concernente la riflessione: facoltà r. ║ Che impone una
riflessione: pausa r. ║ Con riferimento a persona, che riflette,
che ha l'abitudine di meditare su ciò che dice o fa. ║ Per estens. -
Giudizioso, assennato.
• Gramm. - verbo r.:
verbo transitivo che indica un'azione
compiuta dal soggetto che si riflette sul soggetto stesso, rappresentato
dalle particelle pronominali mi, ti, si, ci,
vi: mi lavo. ║ Forma r. apparente: forma verbale
presente quando le particelle nominali non rappresentano il complemento
oggetto del verbo, ma quello di termine:
mi (a me) preparo la colazione. ║ Forma r. reciproca:
forma verbale che esprime l'azione che due o più soggetti si scambiano
reciprocamente, diventando così ognuno l'oggetto dell'altro: si
incontravano ogni giorno. ║ Pronomi r.: pronomi che svolgono
il compito di riportare l'azione sul soggetto che la svolge. Sono sempre
r. i pronomi sé e si (egli pensa a sé); sono
r. solo in determinati contesti me, mi, te,
ti, ecc. (mi è r. in mi lavo, ma non in
mi sente).
• Mat. - Proprietà r.: proprietà fondamentale delle relazioni di
equivalenza, per la quale in un insieme I di elementi a,
b, c, ... vale, per un elemento generico, la relazione
a ∼ a.
Sémplice.
Composto di un solo elemento. ║ Facile da risolvere, comprensibile, per
nulla complicato. ║ Privo di ornamenti esteriori, elegante ed
essenziale. ║ Di persona il cui comportamento è fedele alla sua intima
natura, schietto; in alcuni casi, tuttavia, il termine viene usato con
un'inflessione negativa, a indicare persona estremamente ingenua. ║
Carta s.: non bollata. ║ Soldato s.: soldato privo di grado.
• Mat. - Condizione s.: condizione dipendente da parametri
variabili con continuità e traducibile in una sola equazione di detti
parametri. ║ Integrale s.: quello di una funzione a variabile
singola; si contrappone all'integrale multiplo. ║ Curva s.:
che non interseca se stessa. ║ Punto s.: data una curva che si
sviluppi in un piano, punto tale che una generica retta passante per
esso intersechi la curva in un solo punto. • Fon. - Consonante s.:
non raddoppiata.
• Gramm. - Tempo s.: nella coniugazione verbale, tempo che si
coniuga senza il verbo ausiliare.
• Bot. - Perianzio s.: perigonio con unico verticillo.
• Arald. - Pezza i cui bordi non siano stati modificati.
• Dir. - Bene s.: ogni bene che sia giuridicamente visto come un
complesso unitario.
• Rel. - Beneficio ecclesiastico s.: quello che non comporta cura
di anime. ║ Rito s.: nella liturgia cattolica fino al XVI sec.,
il grado base e più solenne; in seguito, grado riservato all'ufficio
feriale e alla celebrazione di santi minori. Esso è stato soppresso dal
Calendario romano generale.
Sintagma.
(dal greco sýntagma: composizione, ordinamento). Ling. - Termine
introdotto da F. de Saussure per indicare la combinazione di due o più
unità linguistiche dotata di valore sintattico compiuto. ║ S.
nominale: s. costituito da un nome e dagli elementi che
gravitano intorno ad esso (articoli, aggettivi, apposizioni, frasi
relative, ecc.): un uomo elegante. ║ S. verbale: s.
formato da un verbo e dagli elementi che
hanno la funzione di completare la descrizione dello stato o dell'azione
enunciata dal verbo stesso (avverbi,
complementi). Per esempio la frase: l'erba del prato è cresciuta a
dismisura è formata dal s. nominale l'erba del prato e
dal s. verbale è cresciuta a dismisura. ║ S.
cristallizzato: s. fissato stabilmente in una determinata
forma nella lingua, usato automaticamente da chi scrive o parla:
essere a metà dell'opera. Viene denominato anche stereotipo.
Soggettivo.
Relativo al soggetto. ║ Che deriva dal modo di sentire, pensare e
giudicare proprio dell'individuo in quanto tale: la mia è un'opinione
s.
• Gramm. - Proposizione s.: proposizione subordinata che funge da
soggetto rispetto al verbo della
proposizione reggente; può avere forma esplicita, e in tal caso è
introdotta dalle congiunzioni che o come (che tu mi
pensi così intensamente è bello), oppure forma implicita, con il
verbo all'infinito (viaggiare è
stimolante). ║ Genitivo s.: quello che esprime un rapporto di
soggetto rispetto al sostantivo reggente; nella lingua italiana è detto
anche complemento di specificazione soggettiva (l'amore del
marito verso la moglie).
• Filos. - Che concerne il soggetto in quanto realtà pensante.
• Psicol. - Ciò che interessa un solo individuo cosciente, in
contrapposizione a ciò che è condiviso da tutti gli individui. ║
Metodo s.: metodo di osservazione che si fonda sull'introspezione.
• Dir. - Detto in relazione a un bene o a un fine, rispetto al quale
l'ordinamento giuridico riconosce particolari facoltà al titolare e
impone obblighi agli altri soggetti e all'autorità affinché ne assicuri
l'esercizio.
• Med. - Di sensazioni o stimoli che vengono avvertiti unicamente
dall'individuo e non oggettivabili mediante l'esame clinico o altri
mezzi strumentali.
Suppletivo.
(dal latino medioevale suppletivus, der. di supplere:
supplire). Che costituisce un supplemento, che serve a integrare o
sostituire.
• Bot. - Di gemma sovrapposta che spunta al di sopra o al di sotto della
gemma principale; è sinonimo di sostitutivo.
• Dir. - Norme s. o integrative: norme applicate
per ovviare a eventuali mancanze dei singoli nel determinare le proprie
volontà. Nel caso della comunione dei beni, ad esempio, qualora manchino
precise disposizioni degli interessati, la proprietà dei beni si intende
condivisa in parti uguali. Pur rientrando tra le norme dispositive, le
norme s. ne costituiscono un caso particolare, in quanto la loro
funzione non è quella di derogare un regolamento esistente, ma di
colmare lacune.
• Ling. - Temi s. o forme s.: temi e forme che, pur avendo
etimi diversi tra loro, costituiscono insieme il paradigma di un
verbo (definito, a sua volta,
paradigma s. o eteroclito). Un esempio di tema s. è
costituto dai due temi del verbo andare
(tema di vado, vai, va, ecc.; tema di andiamo, andate, ecc.).
• Mil. - Truppe s.: unità combattenti in forza all'armata e al
corpo d'armata, che svolgono un'azione integrativa rispetto a quella
svolta dalle grandi unità dipendenti (tra le truppe s. rientrano,
ad esempio, le unità del genio).
• Ord. scol. - Sessione s. d'esami: sessione supplementare
organizzata a beneficio dei candidati che non abbiano potuto sostenere
gli esami nel corso della sessione normale, per ragioni di salute o per
altri gravi impedimenti. ║ Corsi s.: con funzione integrativa nei
confronti di altri corsi.
Transitivo.
Gramm. - verbo t.: il
verbo che esprime un'azione che passa,
cioè transita, dal soggetto al complemento oggetto: amare,
odiare, fare. Si contrappone a intransitivo (V.).
Quando il verbo t. assume forma
passiva, l'oggetto logico diventa formalmente il soggetto della frase.
• Filos. - Causa t.: determina un'azione che si esercita
su un oggetto diverso dall'agente. L'espressione è stata usata a partire
dalla filosofia scolastica in senso metafisico in contrapposizione a
causa immanente (che rimane nel soggetto).
• Mat. - Proprietà t.: proprietà della relazione di uguaglianza
per cui dalle ipotesi a = b e b = c si deduce, come
conseguenza, che a = c. ║ Gruppo t.: gruppo costituito da
corrispondenze biunivoche tra un insieme e se stesso tali che, presi due
elementi x e y dell'insieme, esiste sempre nel gruppo una
corrispondenza biunivoca che a x associa y.
Trapassato.
Gramm. - Nome di due tempi verbali che indicano un'azione avvenuta
precedentemente rispetto a un'altra già passata. ║ T. prossimo:
tempo formato dal participio passato del verbo
cui si aggiunge l'imperfetto di quello ausiliare: aveva
lavorato. ║ T. remoto: tempo composto dal participio passato
del verbo con il passato remoto
dell'ausiliare: ebbe lavorato.
Verbale.
(dal tardo latino verbalis, der. di verbum: parola). Di
parole, formato da parole: comunicazione v., attuata con mezzi
linguistici, in contrapposizione a comunicazione non v., attuata
con altri mezzi. ║ Eseguito a voce: disposizioni v.
• Gramm. - Del verbo, relativo alla
categoria del verbo. ║ Forma v.: le varie forme che assume la
coniugazione di un verbo. ║ Voce v.: lo stesso che voce del
verbo (V.
verbo). ║ Flessione v.: la coniugazione, cioè l'insieme
delle forme di un verbo, formato da un
tema (tema v., radice v.), che indica un'azione, e da una
desinenza (desinenza v.), che indica il tempo e il modo
dell'azione, la persona soggetto dell'azione e il numero (singolare,
plurale). ║ Predicato v.: V. PREDICATO. ║ Frase v.: frase
contenente un predicato v., contrapposta a frase nominale.
║ Aggettivo v.: nella grammatica scolastica greca, categoria
nominale che comprende due forme aggettivali delle quali una corrisponde
per etimologia e significato al participio passato passivo latino in -tus
e l'altra al gerundivo latino. ║ Nome v.: nella lingua latina,
designazione complessiva dei nomina actionis, agentis, e
rei actae, cioè dei nomi d'azione, d'agente e del fatto compiuto.
• Dir. - Processo v.: il documento dove, in forma sintetica ma
compiuta, sono descritti fatti e riportate dichiarazioni, che restano
così attestati con presunzione di veridicità: v. di un
interrogatorio.
• Contab. - V. di cassa: documento che attesta la
situazione di cassa in un dato momento o i movimenti di cassa in un dato
periodo.
• Mar. - V. di perdita: documento compilato dal comandante
di una nave per rilevare e motivare la perdita o il deterioramento di
beni in dotazione alla nave stessa.
• Sport - V. di gara: documento redatto alla fine di ogni
competizione, da trasmettersi alle autorità sportive competenti.
Figure retoriche
Sicuramente ti sarà capitato di definire un tuo amico velocissimo “un fulmine”,
oppure di dire, di una persona che ci vede poco, che è “cieca come una talpa”.
Stai usando due figure retoriche.
Le figure retoriche sono un procedimento stilistico che permette di esprimere
un’idea, un concetto, un’emozione o un oggetto in maniera diversa da come questa
idea, concetto, emozione o oggetto sarebbe espresso nella lingua quotidiana.
Ecco quali sono le figure retoriche più comuni e frequenti.
LA SIMILITUDINE
La similitudine è la figura retorica con la quale si confronta qualcosa a
qualcos’altro usando avverbi o locuzioni avverbiali di paragone (“come”,
“così... come”, “simile a”). A volte il secondo termine di paragone è introdotto
da verbi quali “sembra”, “pare”, “somiglia”. Quando dici “Giorgio è furbo come
una volpe”, oppure “Maria sembra uno spaventapasseri”, stai usando una
similitudine.
In poesia, un esempio di similitudine sono alcuni versi di Giuseppe Ungaretti,
tratti da Natale, nei quali il poeta paragona se stesso a un oggetto:
“Lasciatemi così / come una / cosa posata / in un angolo / e dimenticata”. In
questi versi tratti dalla poesia In Carnia, invece, Giosue Carducci paragona una
montagna a un tappeto verde: “Un tappeto di smeraldo / sotto al cielo, il monte
par”.
LA METAFORA
La metafora è una sorta di similitudine abbreviata, cioè una similitudine senza
l’elemento connettivo (l’avverbio o le locuzioni avverbiali “come”, “così...
come”, “simile a”; il verbo “sembra”, “pare”, “somiglia a”). Questo significa
che, anziché paragonare una cosa a un’altra, la si descrive come se fosse
davvero l’altra cosa. Quando dici “Giovanni è un fulmine” per indicare che è
molto veloce, oppure “Giulia è una volpe” per sottolinearne la furbizia, stai
usando una metafora.
In questi versi tratti dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, le spade
sono paragonate a lampi, tuoni e fulmini. È un esempio di uso poetico della
metafora: “Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono, / fulmini nel ferir le spade
sono”.
LA METONIMIA E LA SINEDDOCHE
La metonimia (termine che deriva dal greco e significa scambio di nome) è una
figura retorica che consiste nel trasferire un significato da una parola a
un’altra che abbia un rapporto di contiguità con la prima. Si può usare:
– il contenuto per il contenente: ad esempio, si può dire “passami l’acqua”
intendendo dire “passami la bottiglia dell’acqua”;
– l’autore per l’opera: ad esempio, si può dire “sto leggendo Calvino”,
intendendo “sto leggendo un romanzo di Calvino”;
– il luogo per le persone che vi si trovano: ad esempio, si può dire “il
Quirinale non ha rilasciato dichiarazioni”, intendendo che “il Presidente della
Repubblica non ha rilasciato dichiarazioni”.
In questo verso, tratto da Il passero solitario di Giacomo Leopardi, trovi un
esempio di uso della metonimia: “Tutta vestita a festa / la gioventù del loco /
lascia le case, e per le vie si spande”. Il poeta usa il termine astratto (“la
gioventù”) per indicare il concreto (“i giovani”).
La sineddoche è una figura retorica simile alla metonimia. Consiste nel
trasferire un significato da una parola a un’altra che abbia un rapporto di
quantità con la prima. In genere si usa la parte per indicare il tutto: ad
esempio si può dire “vedo una vela all’orizzonte” per indicare che si vede una
nave all’orizzonte.
L’ASSONANZA
L’assonanza è una forma di rima imperfetta. Essa si produce quando due o più
versi successivi terminano con parole che hanno vocali uguali, ma consonanti
diverse, anche se spesso di suono simile. Esempi di assonanza sono
'amore/morte', 'fame/pane'.
Un esempio di assonanza in poesia è offerto da questi versi di Eugenio Montale,
tratti da La casa dei doganieri: “Ripullula il frangente / ancora sulla balza
che scoscende…”.
L’ALLITTERAZIONE
Quando all’inizio o all’interno di due o più parole vicine vengono ripetuti gli
stessi suoni (lettere o sillabe) si ha la figura retorica chiamata
allitterazione.
Un esempio di allitterazione è il seguente verso tratto dal Canzoniere di
Francesco Petrarca: “di me medesmo meco mi vergogno”.
L’ONOMATOPEA
Quando imitiamo un suono naturale per mezzo di un segno linguistico usiamo una
figura retorica chiamata onomatopea. Ad esempio, il “tic-tac” dell’orologio è
una onomatopea, perché richiama il ticchettìo delle lancette.
Un bell’esempio di onomatopea si trova in questi versi tratti da L’onda di
Gabriele d’Annunzio: “Sciacqua, sciaborda, / scroscia, schiocca, schianta, /
romba, ride, canta...”. In essi le sillabe “scia” e “schi” rievocano il rumore
dell’onda che si frange contro uno scoglio.
Ideogrammi
Supponi di dover uscire all’improvviso e di voler lasciare un messaggio alla
mamma per avvisarla. Che cosa fai? Ovviamente prendi carta e penna e scrivi, ad
esempio: “sono andato a casa di Paolo in bicicletta”. In questo caso ti sei
servito della scrittura alfabetica o fonetica, che rappresenta i suoni delle
parole. Ma potresti anche fare un disegno, e ritrarre te stesso mentre ti dirigi
in bicicletta a casa del tuo amico. Così facendo, al posto del suono delle
parole avresti rappresentato direttamente gli oggetti, le idee e le azioni che
esse indicano: avresti cioè usato gli ideogrammi.
La scrittura ideografica è molto più antica di quella fonetica, ed è usata
ancora oggi dai cinesi e dai giapponesi. Anche intorno a te, però, puoi vedere
un tipo di comunicazione ideografica molto diffusa e importante: i cartelli
stradali!
I PITTOGRAMMI E LA SCRITTURA GEROGLIFICA
Lo stadio più antico della scrittura ideografica è costituito dai pittogrammi,
cioè dai disegni degli oggetti concreti.
Un tipo di scrittura che si serviva dei pittogrammi era la scrittura
geroglifica, la più antica usata dagli egizi. Il sistema geroglifico si sviluppò
intorno al 3000 a.C. e restò in uso presso gli egizi fino al V secolo d.C. Date
le sue caratteristiche pittoriche, gli egizi usavano la scrittura geroglifica
anche con funzione decorativa, ad esempio nelle tombe dei faraoni. I disegni in
uso presso gli egizi erano circa 3.000, e raffiguravano, tra le altre cose,
animali, uomini e attrezzi. Questa scrittura, oltre a esprimere un’idea, aveva
un corrispondente “sonoro”.
Tra i popoli che svilupparono una scrittura di tipo geroglifico vi furono anche
i maya, gli antichi abitanti del Messico e dell’America centrale.
I pittogrammi, però, hanno il limite di poter rappresentare solo gli oggetti:
non possono fissare con chiarezza un pensiero, un sentimento o un’emozione. Ad
esempio, non è possibile disegnare concetti astratti come il tempo e la
felicità.
DAI PITTOGRAMMI AGLI IDEOGRAMMI
Gradualmente, attraverso diverse fasi, la scrittura evolse dai semplici
pittogrammi verso forme di espressione più universali.
La prima tappa fu il passaggio dal pittogramma all’ideogramma, grazie al quale è
possibile esprimere anche le idee. I segni della scrittura ideografica sono
anzitutto più stilizzati: una linea sinuosa può indicare l’acqua, un cerchio il
Sole. Inoltre, il segno non indica più un unico oggetto, ma tutto l’universo di
cose e idee che gli ruota attorno. Ad esempio, il disegno di un piede può
indicare il piede stesso, ma anche l’azione dell’alzarsi in piedi, di camminare
e così via. Presso gli egiziani, il disegno della pianta di una casa con accanto
dei piedi indicava il verbo “uscire”.
DAGLI IDEOGRAMMI AI FONOGRAMMI
Un’ulteriore evoluzione nell’uso dell’ideogramma avvenne quando il segno non si
limitò più a indicare soltanto i concetti correlati, ma il suono della parola.
Ad esempio, per scrivere il nome del faraone Nar-mr, gli egizi accostavano due
disegni: il primo raffigurante un pesce siluro, il cui nome in egiziano è “nar”,
e il secondo raffigurante uno scalpello, “mr”. In questo modo, il segno non
rimandava più agli oggetti, ma al suono con il quale se ne pronunciavano i nomi.
I segni di questo tipo sono chiamati fonogrammi: essi rappresentano soltanto i
suoni, e non hanno alcuna relazione con la parola che compongono.
LA SCRITTURA CINESE
In Cina l’uso degli ideogrammi risale al XIV secolo a.C. In origine, anche la
scrittura cinese era pittografica, basata cioè sulla rappresentazione pittorica
degli oggetti. Evolse poi verso l’uso degli ideogrammi: a ciascun segno viene
attribuito un valore concettuale di base, e attraverso la combinazione di
diversi caratteri è possibile rappresentare efficacemente anche le idee
astratte. Oggi il numero di ideogrammi in uso presso i cinesi ammonta a oltre
47.000. Quelli di uso comune sono circa 5.000, ma un cinese di media cultura
deve saperne riconoscere almeno 30.000!
Un problema rappresentato da questo tipo di scrittura è dato dalle possibili
confusioni nell’interpretazione dei simboli grafici. Anche per questo motivo, in
Cina la calligrafia è molto importante ed è considerata una forma d’arte al pari
della pittura.
Poesia
Una poesia è un componimento, lungo o breve, in versi. Esistono due tipi
principali di componimento poetico: il poema narrativo e il poema lirico.
Il poema narrativo è un poema che racconta una storia ed è di solito piuttosto
lungo. Ne sono esempio i poemi epici, le ballate e i poemi allegorici. poemi
epici, ballate.
Il poema lirico è un poema più breve che ruota attorno a un pensiero o a
un’emozione molto intensi. La poesia lirica comprende un’estrema varietà di
versi poetici, inclusi le canzoni, le odi, gli inni, i sonetti e persino le
ninne-nanne.
IL POEMA EPICO
Il più antico tipo di poema è una forma di poesia narrativa chiamata epica. I
poemi epici hanno come tema le avventure di dei ed eroi, e inizialmente erano
tramandati oralmente. Gli aedi nell’antica Grecia e i bardi presso i popoli
celtici recitavano i poemi epici come forma di intrattenimento per il pubblico,
e li trasmettevano ad altri aedi o bardi, che vi introducevano cambiamenti o
aggiunte. I poemi epici furono trascritti solo a partire dal Medioevo, e grazie
a queste trascrizioni sono giunti fino a noi.
Tra i poemi epici ricordiamo l’Epopea di Gilgamesh, un lungo poema sumero che
risale al 2000 a.C. circa, l’Iliade e l’Odissea nell’antica Grecia, l’Eneide tra
le opere in lingua latina, il Mahabharata e il Ramayana in India, la Chanson de
Roland in Francia, Beowulf nella cultura anglosassone, il Canto dei Nibelunghi
in Germania e Edda in Islanda.
IL POEMA ALLEGORICO: LA DIVINA COMMEDIA
Il poema allegorico è un racconto immaginario, attraverso il quale il poeta
vuole dare insegnamenti e precetti morali. Il poema allegorico per eccellenza
della letteratura italiana e mondiale è la Divina Commedia di Dante Alighieri.
In questo lungo poema, scritto all’inizio del Trecento, Dante immagina di
compiere un viaggio nel mondo dell’oltretomba, dall’Inferno al Paradiso passando
per il Prgatorio. Nelle intenzioni dell’autore, l’opera avrebbe dovuto insegnare
all’umanità la via da percorrere per liberarsi dal peccato. La Commedia conobbe
una fortuna enorme sin dalla sua prima apparizione, e fu subito molto
apprezzata, tanto che Giovanni Boccaccio, già nel Trecento, le attribuì
l’appellativo di divina con cui ancora oggi ci riferiamo a essa. I versi con cui
si apre la Divina Commedia sono tra i più celebri della nostra letteratura:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
LA BALLATA
Un’altra forma di poema narrativo, che nacque in Francia nel tardo Medioevo e si
diffuse in tutta Europa, è la ballata. La sua struttura metrica comprende un
ritornello (o ripresa), che espone in breve il motivo conduttore e si ripete fra
una stanza e l’altra, e un numero variabile di strofe o stanze.
Le ballate erano in origine canzoni popolari che raccontavano storie d’amore e
di avventure. In Italia la ballata fu un genere molto usato da Dante, dai poeti
stilnovisti, da Petrarca e dai poeti umanisti. I versi che seguono sono tratti
da una ballata del poeta rinascimentale Angelo Poliziano:
Ben venga maggio
e ’l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera
che vuol l’uom s’innamori;
e voi donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arboscelli.
LA CANZONE
La canzone è una delle più importanti forme metriche della lirica italiana. Di
origine provenzale, fu rielaborata dai poeti della scuola siciliana (intorno
alla metà del Duecento) e perfezionata da Dante e Petrarca. La sua struttura
tradizionale comprende un numero variabile di strofe o stanze (da due a nove),
divise al loro interno in due parti: la prima è detta “fronte”, la seconda è
detta “sirma”. L’ultima stanza (detta “commiato” o “congedo”) è spesso più breve
e di struttura metrica varia.
Tra le canzoni più celebri della poesia italiana vi sono quelle scritte da
Francesco Petrarca nel Trecento e da Giacomo Leopardi nell’Ottocento. Le canzoni
di Leopardi sono molto più libere nei versi e nelle rime. Confronta questi versi
tratti da Italia mia di Petrarca:
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
con i seguenti versi tratti dall’Ultimo canto di Saffo di Leopardi:
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo.
L’ODE E L’ELEGIA
Odi ed elegie sono tra le forme più antiche di poesia lirica. Entrambi i generi
risalgono all’epoca classica e furono molto popolari sia tra i poeti greci sia
tra quelli latini. In origine erano declamati con l’accompagnamento musicale
della lira (ecco perché la poesia viene anche detta “lirica”).
Un’ode è un poema composto per celebrare una persona, un evento o una cosa. Ad
esempio, nell’ode intitolata Il cinque maggio (di cui puoi leggere, di seguito,
i primi versi) Alessandro Manzoni volle rendere omaggio a Napoleone Bonaparte:
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
L’elegia è un tipo di poema che in origine fu concepito come lamento per la
morte di qualcuno e che in seguito passò a trattare anche temi amorosi, politici
e civili. Gli antichi poeti greci e latini composero anche versi brevi che
venivano iscritti su tombe oppure statue e che furono chiamati epigrammi.
SONETTO
Un sonetto è una poesia lirica composta da 14 versi che seguono un preciso
schema dal punto di vista della rima. I due più importanti tipi di sonetto sono
quello italiano e quello inglese, detto anche “sonetto shakesperiano”.
Il sonetto italiano si sviluppò a partire dalle canzoni popolari del tardo
Medioevo, che in origine erano accompagnate dal suono del mandolino o del liuto.
In esso i versi sono disposti in due stanze chiamate quartine (cioè di quattro
versi) e in altre due stanze chiamate terzine (cioè di tre versi). È una delle
più importanti forme metriche della poesia italiana e fu usato da moltissimi
poeti in epoche diverse. Nel Canzoniere di Francesco Petrarca, scritto nel
Quattrocento, ben 317 componimenti su 366 sono sonetti. Nell’Ottocento un
celebre autore di sonetti fu il poeta Ugo Foscolo, di cui puoi leggere Alla
sera:
Forse perché della fatal quiete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
Il sonetto inglese è composto di tre stanze di quattro versi ciascuna (ovvero
tre quartine), più una coppia finale di versi che rimano tra di loro. È detto
anche sonetto shakesperiano poiché il drammaturgo inglese William Shakespeare lo
usò spesso nella composizione delle proprie poesie d’amore.
HAIKU
L’haiku è una forma di breve poema lirico che si sviluppò in Giappone a partire
dal Cinquecento. Una poesia haiku è composta di tre versi sciolti,
rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe. Questi poemi, composti con
grande cura, mirano a evocare nella nostra mente un’immagine vivida e a
suscitare un’emozione intensa. Ecco un haiku composto dal poeta e pittore
giapponese Buson (1716-1784):
Sugli iris
lento planare
di un nibbio.
LIMERICK
Il limerick, assai diffuso nella cultura di lingua inglese, è un componimento
poetico molto breve che ha lo scopo di divertire. Si compone sempre di cinque
versi e la struttura della rima è facilmente riconoscibile. Ecco un esempio di
limerick in italiano:
C’era un cane di Salerno
che odiava tanto l’inverno
ma un anno sfortunato
lui rimase congelato
quel freddoloso cane di Salerno.
POESIA MODERNA
Molti poeti moderni hanno dato grande importanza al modo in cui una poesia
appare quando è stampata sulla pagina di un libro.
La disposizione grafica delle parole della poesia La Colombe Poignardée del
poeta francese Guillaume Apollinaire ricorda una fontana. Nel poema “parolibero”
Zang, Tumb Tumb l’italiano Filippo Tommaso Marinetti mette in atto (con la
collaborazione del tipografo) le teorie espresse nel “Manifesto tecnico della
letteratura futurista”: sintassi disarticolata, verbo all’infinito, uso dei
segni matematici, utilizzo di caratteri diversi e di varia grandezza.
Nel verso con cui si apre un poema dell’americano e.e. cummings le lettere della
parola grasshopper (in inglese, cavalletta) sono usate per riprodurre
visivamente il continuo saltare avanti e indietro dell’insetto:
“r-p-o-p-h-e-s-s-a-g-r”.
Traduzione in inglese
verbo = verb
maschile grammatica verb