(o
Ruzante). Pseudonimo di
Angelo
Beolco. Autore e attore teatrale italiano. Non si hanno notizie precise
circa la sua nascita, forse da anticipare di qualche anno rispetto alla data
tradizionalmente accettata. Figlio naturale di Giovanni Francesco, ricco medico
e rettore della facoltà di Medicina e Farmacia dell'ateneo di Padova,
R. non ricevette un'istruzione regolare, ma poté comunque formarsi
in un ambiente colto e agiato. Nel 1524, alla morte del padre, fu incaricato dai
fratelli di amministrare i beni fondiari familiari e non è da escludere
che abbia esercitato in qualche modo l'usura rurale. Questi dati biografici,
uniti alla notizia del suo matrimonio con la figlia di un ricco giurista,
consentono di ritenere fittizie sia l'immagine di artista povero, geniale e
disordinato che gli fu attribuita, sia la tradizione di un'esistenza tormentata
e avventurosa, che peraltro
R. stesso alimentò. Contrasta con tale
leggenda anche il dato più documentato della sua vita, il duraturo e
profondo rapporto d'amicizia intrattenuto con il patrizio veneziano Alvise
Cornaro, della cui protezione
R. godette e per il quale esercitò
incarichi amministrativi. Nella residenza padovana di questo mecenate, eclettica
figura di umanista e di uomo d'affari,
R. entrò in
familiarità con un ambiente dotto e raffinato, disponibile però ad
accogliere anche gli stimoli provenienti dalla tradizione contadina. In tale
atmosfera
R. maturò la propria formazione culturale e
iniziò, intorno al 1519, a comporre e a recitare opere teatrali
d'intonazione comico-burlesca. Inoltre, le mansioni amministrative che gli
furono affidate lo portarono a frequenti contatti con il mondo contadino locale,
ed ebbe così modo di conoscere e di apprezzare la ricchezza del dialetto
pavano (o padovano rustico), che impiegò nelle sue opere e da cui trasse
pure il soprannome di
R., il villico padovano personaggio di molte sue
opere. Insieme ad alcuni nobili amici di Padova,
R. formò una
compagnia teatrale - una delle prime che si conoscano - con la quale
allestì numerosi spettacoli teatrali sia a Venezia, negli anni 1520-26,
sia presso la corte ferrarese - con la collaborazione di L. Ariosto - nel
periodo 1526-32, sia soprattutto a Padova, nella residenza stessa di Alvise
Cornaro. La morte lo colse improvvisamente nel 1542, alla vigilia del suo
debutto come attore tragico, mentre preparava la messa in scena della tragedia
Canace di S. Speroni per conto dell'Accademia degli Infiammati
. La
sua produzione artistica - della quale restano cinque commedie in prosa e due in
versi, due orazioni, tre “dialoghi”, due monologhi e alcune lettere
- si può suddividere sommariamente in tre fasi, nelle quali è
possibile riconoscere le linee generali di sviluppo del teatro italiano del
Cinquecento. Il primo periodo (1519-27) comprende la
Pastoral (1519 o
1520), commedia d'esordio in cui scene di tono elevato in volgare toscano si
intrecciano ad azioni parodistiche e popolari in dialetto pavano e bergamasco;
la
Lettera giocosa (1522); infine, la
Betia (1522-25), nel cui
prologo appare una prima enunciazione della poetica della
naturalité, e in cui ha inizio la caratterizzazione del
personaggio
R. In questa commedia, che riprende e amplia lo schema del
mariazo (farsa in versi di argomento matrimoniale), l'autore contrappone
infatti la sana “naturalità” del mondo contadino alle
affettazioni dei letterati classicheggianti, con i quali polemizza sul piano
delle tematiche (con la parodia giullaresca delle teorie sull'amore) e
soprattutto sul piano linguistico, accentuando la freschezza e la
spontaneità del dialetto. Di tono più grave e grottesco sono
invece le opere della seconda fase (1528-31), in cui il verso è
abbandonato a favore della prosa: gli atti unici conosciuti come
Dialoghi
(
Il Parlamento - noto anche come
Il Reduce -,
Bilora e
Menego, 1528-29); le commedie la
Moschetta (1529) e la
Fiorina (1529-31). Tema centrale dei
Dialoghi è l'analisi,
drammatica e spietata insieme, delle reazioni psicologiche e sociali che il
contadino, costretto all'inurbamento, manifesta al contatto con la realtà
e con le imposizioni del mondo cittadino: la guerra, colta nei suoi drammatici
risvolti di fame, paura e miseria è l'argomento del
Parlamento,
mentre in
Bilora - forse il capolavoro di
R. - ai ricorrenti temi
della fame e della povertà si aggiunge quello dell'umiliazione e della
schiavitù sessuale, che spingono il protagonista fino al limite estremo
dell'omicidio. Oltre che nel terzo dialogo, il
Menego, le
difficoltà dei contadini inurbati riaffiorano anche nella
Moschetta, commedia in cinque atti in cui sono ripresi e drammatizzati
motivi tipici del repertorio cinquecentesco quali giochi scenici, inganni,
equivoci, travestimenti e temi boccacceschi. Nella
Fiorina, anch'essa
ambientata nella campagna padovana,
R. riesce ad armonizzare tradizione
letteraria e retaggio popolare, mantenendo il suo estro inventivo e la sua vena
poetica, adeguandoli però alla più ricca esperienza del teatro
rinascimentale. Un cenno a parte meritano le due
Orazioni, la prima del
1521 e la seconda del 1529, nelle quali
R. espone lucidamente i motivi
ideologici della sua poetica e della sua polemica artistica. La terza e ultima
fase della sua produzione comprende infine
La Piovana e
La Vaccaria
(1532-33), con le quali
R. si volge al teatro d'imitazione classica,
prova quasi obbligata per gli autori teatrali del Cinquecento. Entrambe le
commedie sono infatti una libera interpretazione di due commedie di Plauto, ma
la loro versione - frutto della contaminazione fra testo classico e ispirazione
“rusticana” - è originale e potente, e costituisce l'esito
più alto conseguito dal teatro italiano in quest'ambito. Nella
Piovana, ambientata in un villaggio di pescatori presso Chioggia, si
assiste a un processo di “dialettizzazione” completa della lingua
latina, mentre
La Vaccaria presenta un intreccio più articolato,
sia sul piano tematico, sia su quello linguistico, in quanto i personaggi sono
differenziati nel loro stato sociale anche dall'impiego del dialetto o
dell'italiano letterario. In quest'ultima fase,
R. tende a dare
un'organizzazione normativa al suo stile; fissa quella deformazione
mimico-verbale del personaggio, oramai sul punto di convertirsi in vera e
propria maschera. Ciò è evidente soprattutto nell'
Anconitana
- commedia di difficile collocazione cronologica, da datare forse al 1534 -,
in cui all'alternanza di parti serie e di parti comiche si aggiunge il
contrappunto farsesco tra il servo furbo (Ruzante) e il vecchio signore (Ser
Tomao), che anticipa un modulo fisso della commedia dell'arte, e i cui
protagonisti prefigurano una coppia di maschere (Arlecchino e Pantalone) che
diventeranno popolari nei decenni successivi. Un'ultima menzione merita infine
la
Lettera all'Alvarotto del 1536, in cui il poeta esprime, nella
finzione di una visione onirica, il proprio senso della vita, aperto agli svaghi
della natura e dell'arte, che egli stesso idealizzò nella figura di
Madonna Allegrezza: sentimento pieno e vitalistico dell'esistenza, ma non
disgiunto da una vena di profonda malinconia. Divenuto molto famoso in vita e
nel periodo successivo alla sua morte,
R. fu poi dimenticato dalla storia
letteraria: solo in tempi recenti la sua opera è stata rivalutata e si
è riconosciuto che la sua esperienza artistica costituisce un momento fra
i più rilevanti ed originali della storia del teatro, non soltanto
italiano, del Cinquecento. Caduto l'equivoco di un
R. poeta istintivo,
rozzo, popolare, si è riconosciuto nelle sue commedie il risultato della
maturità artistica di un vero scrittore. La sua è un'autentica
esperienza intellettuale, in cui gli schemi letterari vengono sovvertiti
dall'interno, nel momento stesso in cui si applicano a una realtà affatto
nuova come il mondo contadino: da qui la poetica del “naturale”, lo
spessore dialettale della lingua, il realismo espressivo dei personaggi, mai
astrattamente isolati, ma sempre in preda ai più disordinati istinti, al
sesso, alla fame, alla devastazione della guerra, alla violenza degli uomini e
delle leggi (Padova 1496 circa - 1542).