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Rshi.

Termine sanscrito: veggente, asceta. A proposito dell'etimologia non vi è concordanza di giudizio tra gli studiosi, tuttavia l'ipotesi più accreditata è quella della derivazione del vocabolo da una forma arcaica e desueta della radice verbale che significa “vedere”, indicante perciò colui che è destinatario di una rivelazione o visione. L'appellativo r. ebbe una prima diffusione in epoca vedica (V. VEDA), quando era riferito a quei personaggi, membri di illustri famiglie sacerdotali, cui era attribuita la composizione sia degli inni vedici sia dell'intera s'ruti, cioè del corpus sacro di scritti rivelati. Il Rigveda menziona il maggior numero di r., ma è l'Atharvaveda a fornire il “canone” dei cosiddetti saptarshi, i sette r. che, con la loro potenza ascetica (tapas), contribuirono addirittura alla creazione del mondo e che, in seguito, furono identificati con le stelle dell'Orsa maggiore. La mitologia e la letteratura postvediche (in particolare quella dei Purāna e quella epica del Mahābhārata e del Rāmāyana), mentre concedono il titolo di r. in generale a qualsiasi figura ascetica, distinguono ulteriori categorie di veggenti: si hanno così i maharshi, cioè gli antenati primordiali delle classi sacerdotali; i rājarshi e i brahmarshi, rispettivamente veggenti di stirpe regale e sacerdotale; ed infine i devarshi, cioè personaggi che raggiunsero una tale potenza ascetica da guadagnarsi uno status pari a quello delle divinità (che nella concezione vedica e brahmanica non è che uno dei possibili livelli dell'esistenza). I r. vedici, tuttavia, sono i protagonisti privilegiati, nella produzione letteraria in sanscrito del periodo epico e classico, di una miriade di episodi, tra cui spiccano le gesta di Agastya, Cyavana, Vasishtha e molti altri.