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Rosmini Serbati, Antònio.

Filosofo italiano. Di nobile famiglia, studiò Teologia a Padova e fu ordinato sacerdote nel 1821. Trasferitosi a Milano nel 1826 lavorò presso la Biblioteca Ambrosiana ed entrò in contatto con i maggiori rappresentanti della cultura lombarda dell'epoca. Ritiratosi nell'eremitaggio del Calvario di Domodossola, si dedicò alla stesura del Nuovo Saggio sull'origine delle idee, pubblicato anonimamente nel 1830 e con il suo nome nel 1836. A Domodossola fondò l'Istituto della Carità (detto anche dei Rosminiani) e un istituto di suore della Provvidenza; si dedicò, inoltre, a varie attività caritative e agli studi filosofici. Animato da un vivo sentimento patriottico, nel 1823 aveva scritto un Panegirico di Pio VII, pubblicato nel 1831, e nel 1848 cooperò attivamente ai tentativi di attuazione del programma neoguelfo. Per i suoi atteggiamenti innovatori e il suo liberalismo politico, il pensiero del R. suscitò violente opposizioni nel mondo cattolico. Nel 1849, per ragioni politiche, furono condannate all'indice due sue opere: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale. Nel 1851 Pio IX nominò una commissione incaricata di esaminare tutte le sue opere e il verdetto emesso nel 1856 fu favorevole a R. Le polemiche si riaccesero dopo la sua morte e nel 1888 un decreto della Congregazione del Sant'Uffizio proibì 40 proposizioni tratte dalle sue opere postume. La condanna con cui la Chiesa colpì alcune sue opere si spiega in parte con la concezione antitemporalista di R. che, in quanto spirito profondamente religioso, auspicava il ritorno alla semplicità e alla povertà del Cristianesimo primitivo, respingendo ogni forma di falsa religiosità. Il pensiero di R. è una delle manifestazioni più cospicue dello Spiritualismo e di quel Cattolicesimo liberale che prevalse in Italia nella prima metà dell'Ottocento. Nella sua opposizione contro il Sensimo e l'Utilitarismo dominanti all'inizio del secolo, egli volle riaffermare il valore oggettivo dei principi tradizionali agostiniano-platonici, tenendo conto dei risultati ai quali era giunta la filosofia moderna, in particolare la critica kantiana. Pertanto, egli considerò la propria dottrina come un superamento del kantismo e il suo sistema si sviluppò tutto a partire da una fondamentale intuizione: l'idea dell'Essere. Tale idea si attua attraverso tre diversi ordini di determinazioni: l'Essere ideale, cioè l'essere come oggetto di pensiero, ossia Dio considerato come principio della nostra conoscenza; l'Essere reale, cioè l'essere come cosa in sé, universale e assoluto, ossia Dio considerato come principio delle cose create; l'Essere morale, cioè l'essere come adesione perfetta tra il suo pensiero e la sua realtà, ossia Dio considerato come supremo fine di ogni umana aspirazione. Se, attraverso un complesso processo di analisi, si sottrae da qualsiasi immagine, da qualsiasi concetto, l'intero suo contenuto, sino a ridurlo a uno schema vuoto, rimarrà sempre un elemento ineliminabile: l'idea indeterminata dell'essere come pura possibilità. Tale idea, nell'ambito del conoscere, si sostituisce alla kantiana sintesi a priori e si pone come fondamento e condizione necessaria al formarsi di tutte le altre: diventa così idea prima, anteriore alle altre e generatrice delle stesse tramite associazioni con il sentimento. Rendendo possibile la sintesi tra la coscienza e i contenuti sensoriali, l'idea dell'essere spiega il costituirsi delle forme superiori del conoscere, ossia della percezione intellettiva e del giudizio. Proseguendo nello sviluppo della propria dottrina, R. si discosta decisamente da Kant. Infatti, ciò che Kant considera possesso originario dello spirito, viene considerato da R. un semplice riflesso dell'infinita luce divina. Pertanto, egli considera l'umano conoscere come l'attività che realizza una progressiva rivelazione all'uomo di un ordine preesistente, che ha in Dio il suo supremo principio. Dio è la causa prima del reale, ma è anche principio della moralità come bene supremo e come fondamento della legge etica. Questo principio universale, che si esprime mediante un imperativo di valore assoluto, è presente anche nella concezione kantiana; tuttavia, mentre Kant lo pone nell'autonomia della ragione, R. lo pone in una realtà trascendente, ossia in Dio. Egli considera come unica, vera morale quella cristiana dell'amore e crede che solo Dio possa appagare interamente il desiderio umano di beatitudine. In campo politico R. tende a limitare i poteri dello Stato così da dare la possibilità all'uomo di esplicare in piena libertà i propri diritti. Secondo lui, infatti, la società civile non può togliere i diritti degli individui, ma deve invece limitarsi a coordinarli, evitando che si impediscano reciprocamente. Lo Stato, allora, si ritrova a dover garantire il bene comune, il bene dei singoli individui che ne compongono il corpo sociale e che sono soggetti di diritti, mentre il bene pubblico è il bene del corpo sociale preso nella sua totalità. Al bene comune spetta la giustizia, mentre il bene pubblico si deve occupare dell'utilità, di pertinenza dello Stato solo se subordinata al bene stesso: unico giudice in questo caso è l'autorità divina, e, di riflesso, la sua rappresentante terrena, la Chiesa. Tra le numerose opere di R., oltre a quelle citate, ricordiamo: Principi della scienza morale (1831), Il rinnovamento della filosofia in Italia (1836), Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale (1837), Filosofia della politica (1839), Filosofia del diritto (1841-45), Teodicea (1845), Psicologia (1846-50), Introduzione alla filosofia (1850), Logica (1854). Tra le opere postume ricordiamo: Teosofia (1859-74), Antropologia soprannaturale (1884), Epistolario completo (1887-94) (Rovereto, Trento 1797 - Stresa, Verbania 1855).