Nel Canone disposto dal Concilio di Trento (1566) e nelle edizioni della
Vulgata latina, la prima delle lettere di san Paolo. Composta
probabilmente a Corinto nel 57-58, è indirizzata alla comunità
cristiana di Roma, la quale in quel periodo iniziava ad assumere un ruolo di
grande importanza. Si tratta di un testo in cui la complessità dei temi
è espressa in uno stile di grande efficacia e di notevole grazia; il
genere letterario è quello della diatriba (caratteristico dell'epoca e
reso popolare dalla trattatistica cinico-stoica), cioè di un dialogo fra
il protagonista, che sostiene una tesi, e un interlocutore immaginario, al quale
spetta il compito di sollevare obiezioni e interrogativi, immediatamente risolti
dalle risposte del narratore. Tale articolazione conferisce andamento vivace e
chiarezza concettuale alla lettera, che si prefigge lo scopo di dimostrare che
Gesù «realizza i disegni della misericordia di Dio
sull'umanità». San Paolo inizia l'esposizione dal presupposto che il
Vangelo manifesta la giustizia di Dio, il quale mantiene la sua promessa di
salvezza data all'uomo e testimoniata nel Vecchio Testamento. Tutti gli uomini,
trovandosi nel peccato, hanno bisogno della salvezza; sia i pagani, che furono
abbandonati da Dio e, pur dotati di intelligenza, non concepirono un Dio
spirituale ma deificarono addirittura i propri vizi, sia i Giudei. Anzi, costoro
versano in una condizione ancor più grave perché, a differenza dei
pagani, ebbero da Dio la Legge e non la rispettarono. Nessun uomo può
quindi dirsi giusto davanti a Dio, il quale però, attraverso il martirio
del figlio Gesù Cristo, volle concedere il condono delle colpe, che
è quindi un atto di grazia divina e non dipende dall'azione umana: unico
compito dell'individuo è credere con fede piena. Segue un'obiezione, alla
quale san Paolo risponde richiamandosi alla Bibbia, ricordando come da Adamo (il
primo uomo) derivò il peccato originale e universale: la morte e la
risurrezione di Cristo, nuovo Adamo, hanno liberato l'umanità da questa
condanna, e perciò spetta al giusto seguire Cristo. Il rinnovamento
dell'uomo non avviene però per sua volontà, ma grazie
all'intervento di una forza, lo Spirito di Dio, che consente di spezzare i lacci
del peccato. Infatti, il rinnovamento non fu possibile con la filosofia dei
pagani, né con la sola Legge degli Ebrei: quest'ultima rendeva sì
possibile la conoscenza precisa del peccato, ma si limitava a condannare i
trasgressori, senza elargire né perdono, né vita. Del resto, la
consapevolezza di ciò che è male non basta per evitare di
commetterlo, in quanto la natura umana è debole e in realtà tutti
gli individui sono dominati dal peccato: la parte spirituale dell'uomo, pur
desiderando il bene è sempre sconfitta dalla parte materiale, che
soggiace alla legge del peccato. Pertanto, solo lo Spirito di Dio, ottenuto per
l'intercessione di Cristo, morto per salvare l'umanità, può dare
la forza di vincere la lotta. Per il suo intervento l'uomo può rivolgersi
a Dio con la preghiera, può dirsi rinnovato come creatura di Dio, che
può chiamare Padre. Ma la nuova vita non è solo per gli uomini,
bensì per l'intero creato, quasi personificato da san Paolo e ritratto
nell'attesa dolorosa della propria liberazione dal male. Lo svolgimento
concettuale termina con un'esaltazione del legame dell'amore di Cristo, che
nulla potrà mai sciogliere. Segue quindi una parte in cui san Paolo si
rammarica per l'incredulità degli Ebrei, individuando in un
imperscrutabile disegno divino il motivo di tale incredulità, e
rianimandosi al pensiero della futura conversione di Israele, che costituisce
pur sempre la «radice santa» del Cristianesimo. La lettera si conclude
con una serie di esortazioni morali, in particolare con il richiamo
all'obbedienza nei confronti dell'autorità civile e con il riconoscimento
dell'autorità di Roma, «ordinata da Dio». Quantunque nel XIX
sec. taluni critici avessero sollevato dubbi sulla paternità paolina
della lettera, la sua autenticità è oggi universalmente
riconosciuta; qualche interrogativo suscitano ancora gli ultimi due capitoli (15
e 16), che alcuni studiosi ritengono aggiunti posteriormente all'epistola.