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Ricàsoli, Bettino, barone.

Uomo politico italiano. Discendente di una delle più antiche famiglie della nobiltà toscana, studiò a Prato e a Firenze, per poi compiere tra il 1824 e il 1827 numerosi viaggi di istruzione in Italia e Germania. Di nuovo a Firenze, nel 1834 divenne membro della Società dei Georgofili, ma nel 1838 si ritirò nel castello di Brolio per dedicarsi all'amministrazione dei propri possedimenti: uomo profondamente religioso (professava una rigorosa religione di stampo giansenista, ereditata dal padre), iniziò in quegli anni un'ammirevole opera di educazione religiosa dei contadini. La sua attività politica cominciò nel 1846 quando, insieme a V. Salvagnoli e R. Lambruschini, presentò al granduca Leopoldo un memoriale nel quale veniva auspicato l'avvio di una politica di riforme. Nel luglio 1847 fondò con Lambruschini e Salvagnoli il giornale "La Patria", che intendeva diffondere idee liberali e contemporaneamente sostenere l'indipendenza dell'Italia: già nel novembre 1848, però, le pubblicazioni cessarono. Deputato all'Assemblea toscana nel giugno 1848 e incaricato per due volte di formare il Governo, dopo lo scoppio della rivoluzione avversò il Governo presieduto da F.D. Guerrazzi, favorendo il ritorno del granduca, che nel frattempo si era rifugiato a Gaeta. Non ne approvò, tuttavia, la politica repressiva condotta con l'appoggio dell'esercito austriaco e, in segno di protesta, restituì le decorazioni che gli erano state conferite negli anni precedenti, ritirandosi nuovamente nel castello di Brolio. In quel periodo, R. si dedicò al miglioramento della produttività delle sue terre: acquistò la tenuta di Barbatella in prossimità di Grosseto (1855) e accarezzò l'ipotesi di una bonifica della Maremma. Il suo rientro in politica risale al 1859, quando, fuggito il granduca a seguito dei moti insurrezionali fiorentini, accettò di far parte, come ministro dell'Interno, del Governo provvisorio presieduto da C. Boncompagni; dopo l'armistizio di Villafranca, assunse di fatto poteri dittatoriali, riuscendo a far proclamare l'annessione della Toscana al Regno di Vittorio Emanuele II, annessione successivamente sancita dal plebiscito del marzo 1860. Eletto al Parlamento italiano nel gennaio 1861 e nominato a giugno primo ministro del nuovo Regno d'Italia dopo l'improvvisa morte di Cavour, si impegnò a combattere il brigantaggio e a risolvere pacificamente la questione romana, ma si scontrò con M. Minghetti, suo ministro dell'Interno, del quale non condivideva il progetto regionalista. Le dimissioni di Minghetti prelusero a quelle di R.: nel marzo 1862, infatti, osteggiato dai conservatori, R. cedette la poltrona di primo ministro a U. Rattazzi. Nuovamente presidente del Consiglio nel giugno 1866, tentò di avviare una politica di pacificazione con la Chiesa e di affermare il principio "libera Chiesa in libero Stato", ma entrò in conflitto con l'intransigenza delle ali estreme del Parlamento; nell'aprile 1867, di fronte a risultati elettorali che sancivano l'impossibilità di formare una maggioranza che fosse disposta a sorreggerlo, R. si dimise e per quattro anni uscì dalla scena politica. Vi rientrò quando in Parlamento iniziò la discussione sul progetto di legge "delle guarentigie", con la quale lo Stato italiano si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale: in quei frangenti, la sua mediazione fu decisiva per l'approvazione della legge (1871). Fu quella l'ultima sua azione politica di rilievo: si ritirò, infatti, nel castello di Brolio e diradò sempre più le sue apparizioni alla Camera, mantenendosi al di sopra delle parti anche in occasione dei contrasti che dilaniarono la Destra storica e che nel 1876 ne determinarono la caduta (Firenze 1809 - Brolio, Siena 1880).