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Retòrica.

Arte del discorso persuasivo, comunicazione linguistica che il parlante o lo scrivente rivolge a un destinatario (reale o fittizio) avvalendosi di particolari strumenti espressivi: un discorso costruito secondo le regole della r. È detta anche oratoria. ║ Spreg. - Detto di forme espressive troppo ornate e ampollose, prive di autentica partecipazione emotiva o di sincero impegno intellettuale, civile e morale. ║ Per estens. - Complesso di espressioni, atteggiamenti o gesti formali inerenti a un particolare argomento o valore: r. patriottica. • St. - La r. fu esercitata in origine in ambito giudiziario, nella Siracusa del V sec. a.C. dopo la caduta della tirannide. Tra i primi maestri di r. si contano Corace e il suo discepolo Tisia, che per primi enunciarono i fondamenti dell'arte e ne stabilirono una prima partizione. La r. si sviluppò in seguito soprattutto in Atene: qui fu rielaborata da Protagora e Gorgia in base al principio dell'opinabilità del reale e della relatività della conoscenza. Per i due sofisti, più importante dell'argomento è il modo in cui è espresso: criterio dell'inventio e della elocutio è l'opportunità (kairós), affinché il discorso sia adeguato alle circostanze. A Protagora risale il metodo dell'antilogia, cioè l'arte di considerare un medesimo problema da due opposti punti di vista e di trarne due ragionamenti opposti e ugualmente convincenti; Gorgia portò l'assunto alle sue logiche conseguenze, facendo della r. una tecnica di suggestione e persuasione, tanto più efficace quanto più chi la eserciti sia padrone della lingua e degli strumenti stilistici (figure di pensiero, di parola, di suono) che ne esaltano la capacità psicagogica. Isocrate, allievo di Gorgia, distinse per primo la r. in due categorie, giudiziale e deliberativa, e differenti generi (consiglio, lode, accusa, difesa, biasimo, ecc.), variamente caratterizzati secondo materia, metodo, scopo, ecc. Nel IV sec., Platone criticò nei suoi dialoghi (Eutidemo e Gorgia) la r. di tipo sofista, che si basa sulle apparenze e sugli artifici ed è indifferente alla verità, ma ammette la funzione educativa della parola, che aiuta la mente nella comprensione della verità filosofica. Valore assai più alto fu invece attribuito alla r. da Aristotele che, nel suo trattato, ne fornì un'analisi sistematica e una limitazione di competenza: oggetto della filosofia sono le verità dimostrabili, oggetto della r. il verosimile, il probabile, l'opinione (doxa). Tre, per Aristotele, sono i generi retorici (giudiziale, deliberativo, epidittico), impostati di volta in volta secondo una strategia etica, passionale o logica; ogni discorso prevede quattro fasi (inventio, dispositio, elocutio, actio; ad esse i latini aggiunsero la memoria). Al peripatetico Teofrasto si deve la dottrina dei tre stili (alto, medio e tenue) e delle quattro qualità (correttezza linguistica, chiarezza, opportunità, ornato) del discorso. Nel II sec. a.C., Ermagora introdusse una distinzione degli argomenti in théseis, cioè di interesse teorico e generale, e upothéseis, cioè definiti e inerenti le cause stesse del discorso. La r. greca si continuò in quella latina: al I sec. a.C. risalgono la Rhetorica ad Herennium e il ciceroniano De inventione, che latinizzarono il lessico tecnico dei retori greci. Cicerone, pur considerando le théseis non pertinenti alla r., riteneva necessaria al buon oratore non solo la tecnica ma anche una vasta cultura filosofica, come mostra la sua produzione: De oratore, Brutus e Orator. Una volta divenuta però materia di insegnamento nelle scuole, la r. decadde a pura tecnica declamatoria, comprensiva di ogni genere di discorso. Quintiliano, sotto i Flavi, compendiò sia la storia sia la prassi normativa della r. nel trattato per noi più autorevole l'Institutio oratoria. In età tardo antica, la r. si configurava ormai come un genere letterario raffinato ma scolastico, preposto con la grammatica alla correttezza dell'espressione: da ciò la sua inclusione, in età medioevale, tra le arti liberali del trivium: grammatica, dialettica e r. In ambito bizantino la r. continuò direttamente quella greca, secondo la mediazione della tradizione romana: vi prevalse l'eredità dell'asianismo, teorizzato da Niceforo Cumno e attestata nel codice Escorial, silloge di discorsi, lettere, ecc. del XII sec. In Occidente il Cristianesimo si avvalse della r., dapprima in funzione apologetica, poi nella predicazione: la riformarono in tal senso Agostino, Boezio e Cassiodoro. Tra il V e l'VIII sec. la r. fiorì in Gallia (Sidonio Apollinare), Spagna (Isidoro di Siviglia, che distinse tra figure di parola e figure di pensiero), Irlanda (Beda il Venerabile, che analizzò le figure retoriche nella Bibbia). In epoca carolingia, Alcuino e Anselmo di Besate perseguirono un uso della r. in ambito civile e laico, mentre nel IX sec. Rabano Mauro la rivendicò per la predicazione e la teologia. Intorno all'anno 1000, la r. fu parte imprescindibile dell'educazione scolastica, ma ridotta a mera tecnica finalizzata alle artes poeticae, dictandi e sermocinandi, mal distinguendosi da esse. Nel XII sec. la Scolastica diffuse la speculazione filosofica e la dialettica: nella disputatio la r. non regolava più la scelta degli argomenti, ma solo la disposizione e lo stile elocutivo (assonanza, ripetizione, ecc.): Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino sancirono anche la separazione tra oralità e scrittura. La r. divenne strumentale alla poesia (Marbodo di Rennes) e all'insegnamento scolastico (Pietro Elia e Alessandro di Villedieu), cui vari eruditi consacrarono intere sezioni delle loro enciclopedie. Brunetto Latini nel 1262 tradusse il De inventione (Retorica) e vi affiancò un commento di grande importanza e novità, per il quale la r. non era più solo la scienza del dire, ma anche del dettare (ovvero dello scrivere), occasione di larga applicazione dei precetti ciceroniani, in vista di una prosa sobria e misurata, da affiancare a quella tulliana, ricca di figure, o alla ritmata isidoriana. Di tale prosa d'arte si trova esempio nelle opere di G. Fava (Gemma purpurea e Parlamenta et Epistole) e ancor più di Guittone d'Arezzo, che la modellò sugli esempi latini. Anche l'Umanesimo si adoperò per un recupero della r. classica, considerata premessa e fondamento di ogni altra attività intellettuale: numerosi furono i compendi e i trattati sistematici (De composizione di G. Barzizza, Rhetorica di G. da Trebisonda, Elegantiae di L. Valla). Presto la r. fu considerata indispensabile alla formazione dell'uomo di corte, come attesta il celebre Cortegiano di B. Castiglione. Nel Cinquecento, J.L. Vives indicò nella sola elocutio l'oggetto della r. La r. in quanto pura tecnica formale, disciplina dell'ornatus, risultava dunque applicabile indifferentemente alla prosa storica, alla poesia, alla letteratura, ecc.: come tale fu descritta da S. Speroni nel suo Dialogo della retorica (1542) e da F. Patrizi nei dieci dialoghi Della retorica (1562). Per tutto il XVI sec. furono composti trattati sull'elocutio, quali il Demetrio (1562) di P. Vettori e Il predicatore di F. Panigarola, cui si ispirò anche F. Robortello nella sua pubblicazione del Sublime dello Pseudo-Longino. In età barocca la r. riacquistò importanza, in quanto arte dell'ingegno che mira sia a persuadere sia a stupire. La letteratura barocca perseguì tali obiettivi mediante una sovrabbondanza di figure di parola (metafore, similitudini, antitesi, chiasmi, parallelismi, ecc.) e di suono (assonanze, allitterazioni, ecc.), e con processi di associazioni e intuizioni inconsuete dette concetti o arguzie. Proprio il Concettismo (V.), con l'uso ostentato ma eccessivo e fine a se stesso della disciplina retorica, ne segnò un nuovo declino, quando la temperie culturale illuminista, identificando l'arte del dire con la dimensione irrazionale e sensuale dell'espressione umana, la oppose alla logica e alla scienza. A una prima reazione agli abusi dell'ornato (Traité des tropes, 1730, C.-Ch. du Marsais), seguì tuttavia una parziale rivalutazione della r. come momento di espressione delle passioni di un soggetto mediante adeguate figure di stile, che ne diventano il segno (Elements of criticism, 1762, H. Home; Lectures on rhetoric and belle lettres, 1783, H. Blair; Les figures du discours, 1827, P. Fontanier). Diretta conseguenza del concetto romantico di poesia come spontanea effusione dell'anima fu la svalutazione ottocentesca della r., identificata con l'artificiosità dell'ornatus e della elocutio: da questa operazione culturale dipende l'accezione a tutt'oggi negativa del vocabolo. Croce e il Neoidealismo italiano condussero un'aspra critica alla r.; tuttavia nel corso del XX sec. si registrarono studi di argomento retorico su basi totalmente nuove. Negli anni Trenta, il Positivismo statunitense perseguì un'analisi su basi scientifiche del funzionamento logico e simbolico del linguaggio: l'imponente sviluppo dei media e le necessità della comunicazione di massa (in quanto formazione del consenso e arte della persuasione) riproposero come attuali i problemi inerenti all'oralità della comunicazione stessa. Le partizioni della r. antica si mostrarono ancora adeguate, purché inquadrate nelle relazioni complesse produttore-fruitore e condizioni di produzione e di fruizione. Esistenzialismo e Scuola fenomenologica, affermando la scissione tra vero e probabile e la relatività di ogni acquisizione cognitiva, riproposero la r. come analisi del discorso argomentativo (L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l'argumentation, 1958). In sede storiografica, diversi studiosi resero evidente la presenza costante delle categorie retoriche nei testi letterari attraverso i secoli (fondamentale il lavoro di A. Schiafini Tradizione e poesia, 1934). Lo Strutturalismo, infine, ha evidenziato l'uso, anche involontario, da parte degli autori di strutture formali, tropi, figure di parola e di pensiero cui si deve la natura di costruzioni complesse delle opere letterarie: esemplare di questa corrente lo studio di R. Barthes La retorica antica (1972). Fra gli indirizzi più recenti sono degni di nota la New rhetoric statunitense, nata dall'interazione di differenti discipline con la teoria dei mezzi di comunicazione di massa e le teorie cognitiviste, per cui la r. rappresenta l'uso traslato del linguaggio quotidiano. La teoria delle comunicazioni di massa e della pubblicità, infatti, costituisce il campo privilegiato dell'applicazione moderna di una disciplina tanto antica.