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Relativismo.

Filos. - Concezione filosofica secondo la quale la conoscenza e l'insieme dei giudizi etici sul comportamento di individui o gruppi hanno sempre un valore relativo, mai un valore assoluto. Iniziatore del R. conoscitivo fu Protagora, la cui visione dell'uomo come misura di tutte le cose sottolineò l'importanza dell'opinione nei giudizi etici, ed ebbe come conseguenza l'affermazione che non esistono cose giuste o sbagliate in sé, ma solo in relazione alle situazioni e alle finalità perseguite. Il R. della conoscenza venne sviluppato dai filosofi scettici, in particolare da Enesidemo, che elaborò in dieci argomenti (tropi) i motivi per cui si deve dubitare di ogni giudizio. Ben diverso il R. medioevale, animato dalla volontà di contrapporre alla provvisorietà delle verità scientifiche le certezze assolute derivanti dalla fede. Il R. permeò in vario modo il pensiero moderno, a cominciare da Montaigne che, sulla scia dei grandi mutamenti del sapere e dell'ampliamento degli orizzonti seguito alle grandi scoperte geografiche, teorizzò da un lato la decadenza di quelli che un tempo erano considerati principi assoluti, dall'altro l'impossibilità di dare giudizi definitivi sulle nuove popolazioni che si iniziavano appena a conoscere. Più prettamente orientato a finalità scientifiche fu il R. di Bacone, visto come critica dei pregiudizi che ostacolano i processi conoscitivi della mente umana, primo passo verso l'organizzazione del sapere mediante l'analisi degli esperimenti via via condotti. L'intero impianto su cui si fondò la filosofia positivista si incentrò sul R., inteso come rinuncia a individuare la causa dei fenomeni, concentrandosi invece sulle loro modalità di svolgimento. Un R. che mettesse in discussione anche le certezze della fede si sviluppò solo a fine Ottocento, all'interno della corrente dello Storicismo. In particolare, W. Dilthey si oppose alla validità assoluta di ogni sistema di valori basato su principi filosofici o religiosi, riconducendolo all'interno di una dimensione storica. O. Spengler radicalizzò questa posizione, giungendo a concepire ogni singola cultura come un organismo vivente, in cui sono riconoscibili una nascita, uno stadio di maturità e uno di decadenza, fino ad arrivare ad una vera e propria morte, con il conseguente annullamento dei principi etici e comportamentali alla base del sistema di valori di tale cultura. Esauritasi la corrente storicista, il R. trovò nel Novecento nuovi spunti in ambito sociologico e all'interno della filosofia della scienza. Nella sociologia della conoscenza importanti sono le tesi di K. Mannheim, secondo il quale è il discorso conoscitivo stesso a subire l'influenza dei condizionamenti storici e sociali, ponendosi dunque come relativo, mai come assoluto, e di T. Kuhn, secondo il quale ogni epoca è caratterizzata da criteri e metodologie conoscitive proprie. Nella seconda metà del XX sec. la filosofia della scienza vide la nascita di un ampio dibattito con figure di spicco come K. Popper e W.V.O. Quine. • Ling. - Il r. vede una delle sue espressioni più interessanti nella teoria Sapir-Whorf, secondo la quale il sistema linguistico condiziona le modalità cognitive dei parlanti che vi appartengono; come conseguenza, a lingue diverse corrisponderebbero diverse concezioni del mondo e della realtà. • Antropol. - Si parla di r. culturale in relazione alle teorie di R. Benedict e M.J. Herskovits, secondo i quali lo studio delle diverse culture non deve tendere all'individuazione di principi comuni a tutte le società, ma concentrarsi su ogni singola cultura come sistema autonomo da analizzare in ogni sua componente.