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Regìa.

(dal francese régie, der. di régir: reggere). Monopolio fiscale in cui uno Stato ha l'esclusiva nella produzione o nella messa in commercio di un dato prodotto, o nella gestione di una data attività, così da ricavarne utili. In Italia, si ha monopolio del tabacco per la fabbricazione e la vendita di prodotti finiti (non più dal 1976 per l'importazione dei prodotti finiti provenienti dai Paesi della CEE) e del gioco del lotto. ║ Opera di coordinamento generale e di direzione artistica di uno spettacolo teatrale, cinematografico, televisivo. ║ Complesso delle scelte e delle azioni di un singolo o di un gruppo volto alla buona riuscita di manifestazioni, congressi, riunioni, ecc. • Teat. - Insieme delle attività che hanno come fine la rappresentazione scenica di un testo drammatico. Vi concorrono molteplici elementi: recitazione, scene, costumi, arredi, luci, ecc. Poiché il testo è antecedente alla sua messa in scena, la r. è stata caratterizzata, nelle varie epoche, dal suo rapporto con il testo. Nel teatro greco, l'attore era anche autore del testo, che metteva in scena in teatri circolari, in cui la scena dapprima era una semplice tenda (dietro la quale l'attore si cambiava) e poi iniziò a rappresentare uno sfondo. L'adesione alle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, per cui l'azione, incentrata su un unico fatto importante, doveva svolgersi in un breve arco di tempo e nel medesimo luogo, accanto alla concezione mistico-religiosa dello spettacolo, fece sì che il teatro greco si mantenesse semplice e decoroso nelle rappresentazioni, malgrado l'invenzione di molte strutture e meccanismi (piattaforma girevole, botole). Presso il mondo romano la rappresentazione teatrale, svincolata da riferimenti religiosi, venne concepita come puro spettacolo. Il palcoscenico aveva ampiezza maggiore, poiché agli spettatori si riservava solo metà del cerchio; all'inizio dello spettacolo si abbassava un sipario, tra il palcoscenico e l'orchestra, che si alzava al termine dell'opera. A differenza degli attori greci, istruiti volta per volta, gli attori romani facevano parte di compagnie di professionisti. Nonostante la presenza di un direttore di scena, il choragus, la rappresentazione non raggiunse, se si eccettuano i casi dei famosi mimi, esiti artistici di rilievo, spesso a causa dell'inserimento di scene scurrili. Il mondo orientale vide, generalmente, il prevalere dell'attore sul regista: in Persia, Cina e Giappone la buona riuscita di uno spettacolo era infatti incentrata sulle capacità espressive del protagonista. In Giappone, in particolare, l'attore era contemporaneamente atleta, acrobata e mimo. Gli attori giapponesi e cinesi erano provvisti di abiti molto curati e ricercati, che contribuivano a delineare la classe sociale di appartenenza di ogni personaggio. Il Medioevo europeo vide il diffondersi delle sacre rappresentazioni, spettacoli per lo più incentrati su temi religiosi; questi lavori, spesso recitati da attori dilettanti, richiedevano l'uso di diversi fondali, così che gli spettatori vedevano gli attori spostarsi da una scena a quella successiva. Accanto alle sacre rappresentazioni si diffusero presto i drammi misti, recitati in latino e in volgare, i quali ebbero come palcoscenico, in un primo tempo, l'interno delle chiese e successivamente sagrati e piazze. Nel Rinascimento gli spettacoli si avvalsero di scenografie molto elaborate, che consentirono la massima espressione del virtuosismo degli scenografi (Brunelleschi). Nel tardo Rinascimento, con il recupero delle unità aristoteliche, la scenografia si impoverì molto, assumendo forme statiche. Nella seconda metà del Cinquecento e nel secolo successivo, tuttavia, un rinnovato desiderio di vivacità portò alla nascita della Commedia dell'Arte, in cui gli attori, sotto la direzione del corago, che era di norma il primo attore, si accordavano sulle parti prima di andare in scena, lasciando poi che l'azione e la recitazione si sviluppassero liberamente, senza seguire un testo prestabilito. Con la nascita della prospettiva, inoltre, gli spettacoli vennero recitati in luoghi chiusi, dove l'impiego di fiaccole e candele creava effetti ottici di grande suggestione. Nel periodo del Romanticismo un rinnovato interesse per le capacità espressive della parola fece sì che proprio su questa si incentrassero le rappresentazioni drammatiche. Il Naturalismo spinse alle estreme conseguenze le teorizzazioni romantiche, propugnando una totale adesione alla realtà storica, con l'impiego, a volte, di scenografie squallide, che ben rappresentavano l'ambiente di vita delle classi più povere. Questo movimento di idee, che in Italia ebbe come precursore G. Modena, trovò piena espressione nelle formulazioni del duca G. Meiningen, che teorizzò per la rappresentazione teatrale una rigorosa fedeltà storica e l'impiego di tutti gli elementi espressivi possibili. Sulle sue orme si mossero A. Antoine in Francia, secondo cui l'attore doveva recitare come se stesse realmente parlando e come se il pubblico in sala non lo influenzasse (e fosse anzi separato da lui da una "quarta parete") e K.S. Stanislavskij in Russia, che si mosse alla ricerca di un fondamento psicologico alla base della recitazione del singolo attore. Fautori di una forte reazione alle teorie naturaliste furono, agli inizi del Novecento, V.E. Majerchol'd, che privò la scena di ogni elemento ornamentale, lo svizzero A. Appia, che restituì centralità alla figura dell'attore, per il quale ideò un palcoscenico mosso da scale e da una pavimentazione irregolare, così da sottolinearne il movimento, e l'inglese G. Craig, secondo cui il testo era un semplice canovaccio che il regista poteva adattare liberamente alle sue esigenze. Mentre nel resto d'Europa la r. rivendicò a sé la possibilità di dare una propria impronta a tutto lo spettacolo, in Italia, se si eccettua V. Talli, creatore, fra altri spettacoli, de La figlia di Iorio di G. D'Annunzio (1904), il regista rimase vincolato al ruolo primario ancora ricoperto dal grande attore. Lo stesso termine regista venne coniato dal linguista B. Migliorini solo nel 1932, anche se Pirandello già da tempo teorizzava l'assoluta responsabilità della r. sulla messinscena (nella stessa direzione si muovevano il suo assistente G. Salvini e A.G. Bragaglia). Nel panorama europeo degli anni 1920-30, E. Piscator propose una forma di teatro proletario; grande importanza ebbero inoltre le teorizzazioni di B. Brecht, secondo cui la scena era il luogo in cui si rappresentavano le contraddizioni intime della realtà, che spettava non all'attore, ma allo spettatore analizzare e risolvere (il teatro allora produceva un effetto di "straniamento" dello spettatore), e di A. Antal, secondo cui, invece, proprio il teatro era il luogo deputato a ricucire la dualità dell'uomo contemporaneo, costretto dalla vita di tutti i giorni a limitare le reazioni del proprio inconscio e a sottoporle al prepotente dominio della razionalità. Nel secondo dopoguerra, il Living Theatre negli Stati Uniti d'America e P. Brook in Inghilterra riproposero le teorie di Artaud, presentando, il primo una pratica scenica collettiva, il secondo spettacoli di forte crudeltà. In Polonia G. Grotowski teorizzò il "teatro povero", mentre in Svezia il regista cinematografico I. Bergman diede origine a spettacoli di grande rilievo. In Italia operarono in quel periodo O. Costa, F. Giannini, G. Strehler, L. Visconti, che, puntando sull'importanza della r. come concertazione di tutti gli elementi della messinscena, portarono al superamento della concezione dell'attore come elemento centrale dello spettacolo. Dagli anni Sessanta si ebbe una vera e propria figura di regista-demiurgo, rappresentato soprattutto da L. Ronconi con l'Orlando furioso (1969), M. Missiroli, G. Cobelli. Al contrario, G. De Lullo teorizzò una più rigorosa fedeltà al testo. Il panorama non cambiò sostanzialmente negli anni Ottanta e Novanta, anche se, se da un lato si poté assistere a un ripensamento critico sul ruolo della r., dall'altro si ebbe una rivalutazione della figura dell'attore, per cui solo nei teatri stabili il regista conservò la sua totale centralità nell'organizzazione scenica. ║ La messinscena dell'opera lirica si differenzia da quella di un'opera teatrale, in quanto maggiormente legata all'elemento musicale. Il primo teorizzatore della r. è A. Appia, che si dedicò soprattutto ai drammi musicali wagneriani. In Italia una vera r. iniziò solo negli anni Cinquanta, con L. Visconti, molto attento al valore drammatico delle parole. • Cin. - La r. cinematografica non deve confrontarsi con un testo che la precede, dunque è molto più legata all'immagine che alle parole; il regista, inoltre, si pone come autore dell'opera. La r. comprende tutte le operazioni necessarie alla creazione di un film: dall'ideazione alle riprese, passando per il controllo dei costumi, dell'operato degli attori, della fotografia e dell'ampiezza delle inquadrature, fino all'edizione, con il montaggio delle scene, l'introduzione del sonoro e di eventuali effetti speciali. Nei primi tempi la r. si identificò con la semplice ripresa delle scene, e la figura del regista coincise con quella dell'operatore. In seguito, grazie a registi come D.W. Griffith, il regista rivendicò un proprio ruolo, diventando sempre più importante. Con l'introduzione del sonoro la r. dovette occuparsi anche dei dialoghi, parte integrante dello svolgimento dei film. • Spett. - La r. televisiva è costituita dall'insieme delle attività che portano alla produzione di programmi di informazione o di intrattenimento. A differenza della r. cinematografica, la r. televisiva dispone di un limitato numero di riprese, montate in tempi piuttosto brevi, quando non vengano realizzate contemporaneamente all'avvenimento (ripresa in diretta). Il ruolo della r. appare strettamente limitato dalle esigenze del singolo programma, e, in ultima analisi, dal palinsesto della trasmissione.