(dal latino
realitas, der. di
realis: reale). In senso astratto,
la qualità di ciò che ha un'esistenza reale. ║
In r.:
realmente, veramente, davvero. ║ Ciò che è reale, che esiste
o è esistito veramente. ║
R. esterna: tutto ciò che
ci circonda. ║
R. sociale: il complesso dei fatti interumani.
║
Mancare di contatto con la r.: essere estraneo alla vita
concreta. • Filos. - Il concetto filosofico di
r. è molto
controverso. Nello sforzo della prima filosofia greca di trovare la
r.
primaria di cui tutto ciò che esiste non è che manifestazione, il
problema della speculazione eraclitea risiede nel tentativo di conciliare
l'affermazione dell'unità della natura con l'esperienza dell'opposizione
e della molteplicità. Per far ciò, Eraclito elabora la teoria
dell'unità dei contrari quale legge segreta del mondo: in base ad essa,
ciò che a prima vista appare disordine sottende una sua interiore
razionalità, consistente nel fatto che gli opposti, benché lottino
fra loro (poiché «L'uno vive la morte dell'altro, come l'altro muore
la vita del primo»), non possono fare a meno l'uno dell'altro, vivendo solo
l'uno in virtù dell'altro (ad esempio, la vita della morte, la gioia
dell'infelicità, ecc.). Da queste premesse discende la dottrina del
divenire quale carattere essenziale di un mondo che il filosofo concepisce come
un flusso perenne, in cui tutte le cose sono soggette al tempo e alla
trasformazione, anche quelle che apparentemente si trovano in stato di quiete.
Contro Eraclito prende posizione Parmenide che etichetta come dualistica,
cioè tale da introdurre il non-essere, ogni dottrina del divenire.
L'essere del filosofo di Elea è unico, ingenerato, imperituro, eterno,
immutabile, immobile e necessario e tale appare a tutti coloro che imboccano la
via della verità, che è quella della ragione; solo percorrendo il
sentiero dell'errore, basato sui sensi, si può sostenere il contrario.
Per i sofisti, e in particolare per Protagora, tutto ciò che si afferma o
si nega intorno alla
r. presuppone sempre l'uomo come centro di
riferimento («L'uomo è la misura di tutte le cose, delle cose che
sono in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono»).
Conseguentemente non si ha mai a che fare con la
r. in se stessa, ma con
il fenomeno, ossia con la
r. così come appare all'uomo; oltre a
ciò, non esiste una verità assoluta, poiché ogni
verità va sempre posta in relazione a chi giudica. Secondo il filosofo,
nel vuoto più totale di certezze, il principio dell'utilità delle
credenze appare l'unico criterio a cui appellarsi; ciò nondimeno neppure
la nozione di utilità può essere stabilita una volta per tutte e
in modo oggettivo. La posizione di Protagora viene ulteriormente estremizzata da
Gorgia, il quale sostiene che, qualunque siano i caratteri della
r., essi
non possono essere conosciuti, né comunicati, poiché ciò
che l'uomo pensa o dice non rispecchia necessariamente la
r. In Gorgia,
inoltre, è assente qualunque criterio di verità; l'unica cosa che
conta è la potenza del linguaggio che «riesce a calmare la paura e a
eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà».
Da ciò la celebrazione della retorica. Platone distingue due gradi
fondamentali di conoscenza, che sono l'opinione e la scienza (dualismo
gnoseologico): la prima, mutevole e imperfetta rispecchia il mondo delle cose,
altrettanto mutevole e imperfetto; la seconda, immutabile e perfetta, rispecchia
il mondo delle Idee, che costituiscono le
r. ultime, universali e
permanenti, sul cui modello sono state plasmate le cose sensibili (dualismo
ontologico). Da questo punto di vista, le Idee sono criteri di giudizio delle
cose (ad esempio, due azioni si dicono giuste in base all'Idea di Giustizia) e
causa delle cose (ad esempio, le
r. che reputiamo belle sono tali in
quanto imitano o partecipano dell'Idea di Bellezza). Aristotele concorda con
Platone nell'affermare che solo l'universale e il necessario costituiscono
l'oggetto proprio della scienza; a differenza di Platone, tuttavia, egli ritiene
che il principio delle cose non possa che risiedere nelle cose stesse e non
nelle Idee, viste come paradigmi trascendenti delle cose. Il filosofo di
Stagira, più precisamente, concepisce la
r. come un insieme di
sostanze, ciascuna delle quali è un sinolo, cioè un'unione
indissolubile di due elementi: materia, forma. Per Aristotele la materia
è l'elemento passivo e mutevole ed equivale semplicemente a ciò di
cui una cosa è fatta; la forma, invece, è l'elemento attivo,
immutabile e universale del sinolo e corrisponde all'essenza di una cosa, a
ciò senza di cui la cosa non sarebbe quella che è. La forma,
dunque, benché sia inconcepibile separatamente dalla materia, può
essere colta astraendo da essa e costituire, come tale, l'oggetto proprio della
«scienza dell'essere in quanto essere», cioè della metafisica.
La Scolastica medioevale sviluppa la teoria aristotelica della sostanza,
tentando di operare un accordo con la concezione platonica dei gradi della
r. Nella filosofia araba di Avicenna, in particolare, il mondo risulta
disposto in modo tale per cui ogni grado di
r. procede da quello
superiore, predisponendo al tempo stesso quello inferiore. Anche G. di Occam
riprende la trattazione del problema della
r., negando l'esistenza di una
r. universale e affermando, al contrario, la coincidenza di
r. e
individualità: «nessuna cosa esterna all'anima né di per
sé né per altra cosa reale o semplicemente razionale che le sia
aggiunta, né comunque la si consideri o la si intenda, è
universale». Secondo il filosofo, tuttavia, è l'evidenza stessa a
garantire una sorta di regolarità o uniformità causale nella
struttura della
r. Anche la vita spirituale dell'uomo è reale
quando rientra nel dominio dell'esperienza sensibile; viceversa l'anima, in
quanto immateriale e incorruttibile, non è oggetto d'esperienza: la sua
r., dunque, non può essere scientificamente fondata. Cartesio si
pone il problema della
r. come problema dell'esistenza del mondo esterno.
Il filosofo, infatti, ritiene che non vi sia nessun grado di conoscenza capace
di sottrarsi al dubbio: bisogna dubitare delle conoscenze sensibili, sia
perché i sensi qualche volta ci ingannano, sia perché nei sogni si
hanno conoscenze simili a quelle della veglia, senza che ci sia alcun criterio
certo di distinzione delle une dalle altre. Nel tentativo di superare il dubbio
iperbolico cui lo conduce il suo scetticismo, Cartesio procede a un'analisi di
ciò che costituisce il solo oggetto di conoscenza: le idee. Di qui il
problema della corrispondenza fra idee e cose, che il filosofo risolve
ricorrendo all'idea di Dio: Dio, essendo perfetto, non può ingannare
l'uomo; conseguentemente, tutto ciò che appare chiaro e distinto deve
essere vero perché Dio lo garantisce come tale. Con l'appello a Dio,
dunque, Cartesio può stabilire la reale esistenza della
res
extensa; essa si contrappone alla
res cogitans come ciò che
è esteso e divisibile all'infinito (corpo) si contrappone a ciò
che è inesteso e del tutto indivisibile (spirito). N. Malebranche,
facendo propria la svalutazione critica cartesiana dell'esperienza sensibile,
considera immagini e sensazioni non come proprietà della
r., ma
come modificazioni dell'anima; solo l'intelletto puro consente all'uomo di
uscire da se stesso entrando in contatto con i vari oggetti della conoscenza.
Per B. Spinoza vi è una sola
r., che egli concepisce come
«ciò che è in sé e per sé si concepisce, ossia
come ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa da
cui debba essere formato». Si tratta di una
r. autosufficiente e
autosussistente, sia dal punto di vista ontologico (poiché non
presuppone, ma è presupposta da ogni altra
r.), sia dal punto di
vista gnoseologico (poiché il concetto di essa non presuppone, ma
è presupposto da ogni altro concetto). Questa
r. increata, eterna,
infinita e unica non può essere che Dio; tutto il resto si riduce
semplicemente ad attributo o modo di Dio. Alla concezione monistica di Spinoza
si contrappone quella pluralistica di G.W. Leibniz, che concepisce la
r.
come composta da monadi, ovvero atomi metafisici costituenti ciascuno un
distinto punto di vista dell'universo. Fondamento della
r. è
l'armonia prestabilita che Dio stabilisce
ab aeterno affinché si
realizzi il migliore dei mondi possibili: in base a tale teoria, ciascuna monade
segue un proprio processo di sviluppo interno, predeterminato da Dio al momento
della creazione e, in quanto tale, in rapporto armonico con quello delle altre
monadi. L'empirismo inglese, con D. Hume, riduce tutta la
r. nel
molteplice delle sensazioni attuali; di qui la negazione della necessità
oggettiva del rapporto tra causa ed effetto (si tratta solo di una successione
temporale tra due eventi, che l'abitudine ci porta a considerare necessariamente
uniti fra loro) e la critica della categoria di sostanza (sono la coerenza e la
costanza di certe impressioni che conducono a credere nell'esistenza continua e
oggettiva delle cose, anche nel caso in cui tutti gli uomini fossero assenti).
La riflessione di Hume sta alla base del pensiero di I. Kant, il quale tuttavia
vuole superare lo scetticismo del filosofo inglese, dimostrando
l'universalità e la necessità della conoscenza umana. Kant ritiene
che la conoscenza possa definirsi tale purché abbia un contenuto
d'esperienza e si fondi su forme pure o
a priori, dette categorie, con
cui l'intelletto pensa e organizza il molteplice sensibile. Le categorie sono
indispensabili alla fondazione dell'esperienza: pur essendo, infatti, modi di
pensare del soggetto, hanno una validità necessaria rispetto all'oggetto,
perché sono trascendentali, cioè condizioni della
possibilità del suo costituirsi. In altri termini, la
r.
può divenire
r. per l'uomo solo sottostando e obbedendo alle
categorie. Ne consegue che in Kant la conoscenza è limitata al fenomeno,
ossia alla cosa per noi, poiché la cosa in sé o noumeno, per
definizione, non può divenire oggetto d'esperienza. Per J.G. Fichte la
r. originaria coincide con l'Io quale attività pura, spontanea e
libera dello spirito umano. Abbandonando la prospettiva kantiana, critica,
metodologica e formale, e volendo dar conto non solo della forma, ma anche del
contenuto del sapere, Fichte parla di un Io non semplicemente legislatore,
bensì creatore: il dato non viene postulato, né si impone al
soggetto, ma viene giustificato da un atto che lo pone. Quest'Io puro che crea
il dato non è l'Io del singolo uomo empirico, ma la soggettività
in quanto tale, l'egoità. L'Io, in quanto
r. originaria, non
rinvia ad altro: «l'Io è perché si fa», ovvero è
il risultato della sua azione e della sua libertà, è insieme
attività agente e prodotto dell'azione stessa. G.W.F. Hegel considera la
r. come razionalità e la identifica nel moto stesso dell'Idea, che
non è, si badi, un'astratta interiorità del mondo, ma l'insieme
concreto delle sue manifestazioni. La formula hegeliana «tutto ciò
che è razionale è reale» esprime, dunque, un immanentismo
razionalistico, definito poi come panlogismo. Se B. Croce deriva dall'Idealismo
hegeliano i due principi fondamentali che la
r. è Spirito e che
questo si attua mediante un processo dialettico, l'Idealismo inglese, che ha il
suo massimo rappresentante in J. Royce, trae da Kant la convinzione che la
r. non sia altro che il risultato dell'attività della coscienza;
ciò nondimeno, mentre Kant ammette l'esistenza di una
r.
antecedente alla coscienza, gli idealisti tendono a risolvere l'intera
r.
nella coscienza. K. Marx critica duramente la concezione hegeliana della
r.: a suo parere, Hegel ha soffocato il metodo dialettico nel rigore
dogmatico di un sistema immobile e chiuso, prescindendo dal processo dialettico
della
r., che risulta confinato in una dimensione astratta. Pur mutuando
dal suo predecessore il metodo dialettico, dunque, Marx cerca di superare la
frattura fra mondo concreto, reale e umano, da un lato, e mondo spirituale e
astratto, dall'altro. Conseguentemente, trasferisce il metodo dialettico dal
terreno metafisico a quello reale, dal campo astratto dell'ideologia al campo
concreto della
r. umana, costituita da uomini concreti che svolgono
attività e avvertono bisogni altrettanto concreti. La
r.,
così, appare come un continuo divenire attraverso un successivo sviluppo,
in cui ogni stadio determina le condizioni e le contraddizioni che porteranno al
suo superamento. H. Bergson concepisce la
r. come un flusso perpetuo, o
slancio vitale, che non segue una linea di evoluzione unica e semplice, ma si
sviluppa come un «fascio di steli» fra i quali si divide lo slancio
originario. La vita, che è sempre creazione, imprevedibilità e, al
tempo stesso, conservazione dell'intero passato, non può essere misurata
dal tempo della scienza, bensì dal tempo della vita che si identifica con
la durata: quest'ultima, infatti, non coglie semplicemente i vari stadi
successivi della
r., ma anche il suo profondo mutarsi e il suo continuo
ricrearsi. La dissoluzione di ogni astratto razionalismo che riduce la r. a
concetto si ha nell'Esistenzialismo, che rivaluta la concretezza, la
singolarità e l'irripetibilità dell'esperienza umana. Nella
filosofia contemporanea, infine, si possono enucleare due fondamentali
concezioni della
r.: una realistica e una positivistica. La prima ammette
l'esistenza di una
r. indipendente dal soggetto conoscente e irriducibile
alle sue funzioni conoscitive (che pure restano le uniche vie d'accesso ad
essa); la seconda etichetta come insensata o metafisica e dunque come
pseudo-problema, ogni proposizione generale sulla
r., in particolare
sulla sua esistenza; reale è solo tutto ciò su cui è
possibile formulare un enunciato empiricamente verificabile, cioè
riconducibile ad asserzioni ultime che esprimono osservazioni o percezioni
(è il cosiddetto criterio di verificazione. • Psicol. -
R.
psichica: pur mutuando dalle scienze naturali la distinzione tra fenomeni
esterni, reali, e fenomeni mentali, la psicoanalisi considera reali anche le
immagini della mente. Conseguentemente, essa parla di due regni della
r.,
uno esterno e oggettivo, l'altro interno e soggettivo, e utilizza il termine
reale per indicare sia ciò che è oggettivamente presente,
sia ciò che è soggettivamente importante. La
r. psichica fu
una scoperta che condusse Freud alla psicoanalisi, rappresentando da allora
l'area di indagine peculiare di tale scienza. Seguendo i suoi pazienti, infatti,
e rendendosi conto di quanto considerassero reali le loro fantasie, Freud
postulò l'esistenza di due mondi reciprocamente dipendenti: quello della
r. esterna e quello della
r. interna, quest'ultimo popolato da
immagini, pensieri, fantasie, sentimenti e regolato da leggi ben specifiche,
diverse da quelle vigenti nella
r. esterna. Secondo Freud, ogni individuo
possiede una propria
r. psichica e ciò che differenzia le
r. psichiche di ciascuno non è ciò che è in esse
contenuto, ma il rapporto che il soggetto instaura con tale contenuto. La salute
consiste nel riconoscimento della
r. psichica; dal mancato riconoscimento
derivano, invece, vari disturbi mentali, che portano il soggetto a pensare la
r. psichica come qualcosa di estraneo anziché come una sua
costruzione. L'assunto della
r. interna, pur essendo una finzione,
consente a Freud di trattare i pensieri al pari dei fenomeni esterni (ossia come
oggetti reali) e alla psicoanalisi di proporsi come scienza naturale e non come
scienza morale. In espressioni come esame di
r., adattamento alla
r., principio di
r. il riferimento è sempre alla
r.
esterna; viceversa, il riferimento è alla
r. psichica nel caso del
processo di derealizzazione (ossia di perdita della
r. o del senso della
r.), per cui l'individuo che ne soffre percepisce il mondo circostante in
modo corretto, ma avverte in esso l'assenza di significato e, in questo senso,
anche di
r. ║
Esame di r.: nel
Supplemento
metapsicologico alla teoria del sogno (1917) Freud annovera l'esame di
r. «fra le grandi istituzioni dell'Io» e parla di esso come di
una «capacità» che è in grado di determinare il rapporto
di ogni individuo con il mondo esterno. La funzione fondamentale che Freud
assegna all'esame di
r. consiste nel distinguere e confrontare fra loro
percezioni e immagini mentali, in modo tale da ridurre la deformazione operata
su queste ultime dalla fantasia. Più precisamente, se la percezione
scompare in seguito a «un'azione motoria», allora è reale;
viceversa, se permane, proviene da eccitazioni interne e, dunque, non è
reale. Secondo la teoria psicoanalitica, il bambino, nella prima infanzia, manca
di qualsiasi capacità di fare un esame della
r.; così pure,
i deliri e le allucinazioni che si hanno nelle psicosi sono il risultato di un
fallimento dell'esame di
r. ║
Principio di r.: secondo la
concezione freudiana, l'attività mentale è retta da due principi,
il principio del piacere e il principio di
r. Il primo consente di
scaricare la tensione istintuale mediante l'esaudimento allucinatorio del
desiderio insoddisfatto; il secondo regola l'adattamento al mondo esterno e
permette di sottrarsi al dominio della fantasia sviluppando la funzione del
pensiero. Appellandosi al principio di
r., in altri termini, l'individuo
acquista facoltà di attenzione, memoria e giudizio e impara a valutare la
r., distinguendo tra vero e falso, bene e male, utile e dannoso, e a
decidere di volta in volta se una determinata pulsione va soddisfatta, differita
oppure repressa perché pericolosa o in contrasto con gli ideali e i
valori dell'Io. Secondo Freud, mentre il principio del piacere è innato e
primitivo, il principio di
r. è acquisito e, come tale, si
apprende nel corso dello sviluppo; esso succederebbe al principio del piacere,
modificandolo in senso adattivo. A differenza di Freud, il pensiero
psicoanalitico successivo ritiene, invece, che il principio di
r. sia
presente fin dalla nascita e interagisca immediatamente con il principio del
piacere; anche i successori di Freud, tuttavia, sono concordi nell'attribuire la
priorità assoluta al principio del piacere nei primi anni di vita. La
riflessione sui due principi ha costituito l'oggetto di attenta analisi da parte
di H. Marcuse, principalmente nello scritto
Eros e civiltà (1955).
A suo parere, il passaggio dal primo al secondo principio non solo comporta una
trasformazione fondamentale nella natura umana, ma conferma anche una triste
verità: la storia dell'uomo coincide con la storia della sua repressione.
Marcuse, infatti, ritiene che il principio del piacere entri irrimediabilmente
in conflitto con l'ambiente, costringendo l'individuo ad accorgersi in modo
traumatico dell'impossibilità di una soddisfazione piena e indolore dei
propri desideri. La repressione dall'esterno «è coadiuvata dalla
repressione dall'interno: l'individuo non libero introietta i propri padroni e
le imposizioni di questi ultimi nel proprio apparato psichico. La lotta contro
la libertà si riproduce nella psiche dell'uomo come autorepressione
dell'individuo represso e la sua autorepressione a sua volta sostiene il padrone
e le sue istituzioni».