IL NATURALISMO RINASCIMENTALE
«Fioriscono
gli studi, esplodono gli spiriti, è un piacere vivere!»: l'umanista
tedesco Ulrich von Hutten (1488-1523) esprimeva così il senso di
liberazione e di gioia che nei letterati europei accompagnò per un gran
tratto (e almeno finché le lotte di religione non travolsero tutti in un
vortice di morte e di follia) quella straordinaria esperienza culturale che
siamo soliti designare come «Rinascimento». Se non il nome, almeno il
concetto di «Rinascimento» era presente già nella coscienza di
quelli che ne sono stati i protagonisti, fin troppo consapevoli di assistere al
felice risveglio delle arti, delle scienze, delle humanae litterae (e
cioè degli studi classici, da cui i termini «Umanesimo» e
«umanista»), dopo i difficili e oscuri tempi «di
mezzo».
Queste «età di mezzo» (un millennio pieno)
frapposte tra i moderni e gli antichi erano state in verità assai meno
oscure di quanto non pretendessero gli orgogliosi umanisti del Quattro e del
Cinquecento. Il mondo classico non era mai stato dimenticato nel Medio Evo, ed
anzi nell'ultimo mezzo millennio tutte le energie intellettuali dell'Europa
erano state impegnate nel recupero del patrimonio scientifico e letterario
dell'antichità andato perduto nel mezzo millennio precedente. È
vero tuttavia che quel recupero era stato affannoso, approssimativo, totalmente
privo di distacco critico e che, soprattutto, si era svolto all'insegna di un
Cristianesimo come sempre assai poco rispettoso dell'identità altrui e
perciò capace soltanto di appropriarsi senza scrupoli dell'eredità
classica cristianizzandola, ossia snaturandola, oppure di condannarla come
ciarpame profano e di farne scempio. Quel che c'era di nuovo nell'umanesimo
rinascimentale nei confronti della Scolastica non era l'amore per il mondo
antico, ma, semmai, il rispetto.
Il primo frutto di questo nuovo
atteggiamento di rispetto fu la rilettura sugli originali delle grandi opere
della cultura antica, particolarmente di quelle in lingua greca. L'effetto di
questa rilettura, amplificato dalla recente invenzione della stampa, che metteva
a disposizione degli studiosi ottime ed economiche edizioni di testi, ebbe una
portata innovativa che è difficile sopravvalutare. A questa svolta della
cultura europea aveva contribuito indirettamente il declino dell'impero
bizantino, che doveva concludersi nel 1453 con la conquista turca di
Costantinopoli. Assediato dai Turchi e sul punto di soccombere, il mondo
ortodosso aveva cercato (inutilmente) appoggi nella cristianità
occidentale e aveva ristabilito un contatto con Roma. L'Italia ebbe così
l'opportunità di accogliere un buon numero di dotti bizantini, che non
solo diffusero la conoscenza del greco, ma portarono con sé un modo di
considerare la cultura della Grecia classica che in Occidente, dove essa era
conosciuta principalmente per il tramite degli Arabi, risultava insolito ed
eccitante. Si scopriva ad esempio che il primato di Aristotele nella filosofia
era tutto da discutere, che il pensiero di Platone era ben più ricco
dell'immagine stereotipata che se ne dava nelle scuole, che oltre ad Aristotele
e a Platone c'era una quantità di pensatori le cui idee meritavano di
essere rimesse in circolazione e seriamente discusse.
Fu un dotto
bizantino, Giorgio Gemisto Pletone (c. 1355 - c. 1452), autore di un'aspra
polemica contro i sostenitori di Aristotele, a lanciare in Italia la moda di
Platone, e a indurre Cosimo de' Medici a fondare in Firenze un'Accademia
platonica novecento anni dopo la chiusura da parte di Giustiniano di quella di
Atene. Animatore dell'Accademia fu Marsilio Ficino (1463-1499), a cui Cosimo
assicurò i mezzi necessari per condurre in porto una straordinaria
impresa letteraria: la traduzione integrale in latino dell'opera di Platone,
prima di allora nota soltanto attraverso le traduzioni arabe. Legato
all'Accademia fiorentina era anche Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494),
che però puntava non a contrapporre, ma a conciliare Platone ed
Aristotele, nel quadro di un sincretismo filosofico che non escludeva neppure i
filosofi scolastici, da lui coraggiosamente difesi contro il disprezzo che tra
gli umanisti era ormai consuetudine riversare su di loro.
In verità,
di platonico nell'Accademia platonica c'era poco; si sentiva di più,
molto di più, l'influenza di Plotino e dei neoplatonici, delle cui opere
Ficino curò la traduzione. Il sincretismo di Pico della Mirandola, poi,
esprimeva l'aspirazione (abbastanza diffusa negli ambienti umanistici, ma che,
naturalmente, non aveva nulla a che fare con il pensiero classico) a superare
gli antagonismi delle grandi religioni monoteistiche, Ebraismo, Cristianesimo e
Islam, in nome delle loro radici comuni. Così, però, si tornava a
pescare nell'oscuro fondo delle correnti mistiche di ispirazione
orientaleggiante, nello gnosticismo e nell'ermetismo. Ficino, in effetti,
affiancò a quelle di Platone e dei neoplatonici la traduzione di scritti
ermetici (di cui accreditò la leggendaria antichità) e Pico della
Mirandola non mancò di inserire nel suo progetto sincretistico la
tradizione ebraica della cabala.
Sotto l'insegna di Platone, insomma,
tornava in circolazione un po' di tutto, ermetismo, gnosticismo, neoplatonismo,
cabala, e naturalmente si riaffacciavano le suggestioni dell'astrologia, della
magia, degli antichi culti solari. Pico della Mirandola e Ficino hanno
effettivamente elaborato una sorta di filosofia della luce. Dopo di loro
l'entusiasmo per la luce e per il Sole tornò a manifestarsi in una
quantità di pensatori. Bernardino Telesio (1509-1588), per esempio,
vedeva il mondo come teatro della lotta tra due forze opposte, una solare,
calda, luminosa, espansiva e l'altra fredda, terrestre, contrattiva: una
reminiscenza delle antiche religioni persiane, ma anche di certe dottrine
presocratiche e in particolare di quella dell'opposizione Amore/Odio formulata
da Empedocle. Ancora più tardi, le fantasiose immaginazioni cosmologiche
del mistico tedesco Jakob Böhme (1575 -1624), che riprendeva
insistentemente temi manichei, erano piene di luci, di fuochi e di lampi.
Nell'esaltazione del Sole Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella
(1568-1639, autore, tra l'altro, di un'utopia politica significativamente
intitolata Città del Sole) non furono da meno.
È quasi
inutile aggiungere, a questo punto, che il misticismo solare non fu estraneo
alla rivoluzione eliocentrica di Copernico e poi alla battaglia copernicana di
Keplero. Vale invece la pena di ricordare che in campo medico-anatomico
l'assimilazione cuore-Sole (il Sole cuore dell'universo, il cuore Sole del
corpo) contribuì potentemente allo studio della circolazione del sangue e
quindi alla nascita dell'anatomia e della fisiologia moderne. La scienza
sperimentale, a quanto pare, ha qualche obbligo verso il misticismo dei
pensatori rinascimentali e l'esoterismo delle scienze occulte.
Misticismo
vuol dire qui naturalismo panteistico: le filosofie di Pico della Mirandola, di
Ficino, di Telesio, di Bruno (e bisognerebbe aggiungere almeno Nicola Cusano, c.
1401-1464, che è il primo e il più grande dei neoplatonici
rinascimentali), per quanto diversissime fra loro, concordavano nella visione di
un mondo in cui l'uomo, Dio, la natura collaboravano insieme e costituivano
un'indissolubile unità vivente; un mondo in cui la materia stessa era
viva, intelligente, divina, alla maniera dell'ilozoismo presocratico. Bruno
rivendicava una sorta di primato della materia e polemizzava con quanti
l'avevano concepita come principio meramente inerte, passivo: ma proprio per
questo il suo «materialismo» era quanto di più lontano si possa
immaginare dal materialismo meccanicistico della scienza
moderna.
Schopenhauer ha detto che il panteismo è spesso nient'altro
che un modo cortese per fare a meno di Dio. Il naturalismo rinascimentale era
coraggiosamente panteistico e suscitò giustificati allarmi nella Chiesa.
Ma non si può davvero vedere in esso una forma di razionalizzazione della
concezione del mondo: semmai era un ritorno in grande stile alle scienze
occulte, ad una visione magica della realtà dove non c'era più
posto per il sovrannaturale e il miracoloso, solo perché la natura stessa
era considerata una sorta di miracolo permanente.
ASTROLOGIA
L'astrologia è la dottrina (e l'arte)
che pretende di interpretare il destino degli uomini e di prevedere ciò
che accadrà sulla Terra basandosi sullo studio delle posizioni e del
movimento degli astri. L'assunto fondamentale dell'astrologia è che
l'universo sia dominato da una necessità a cui nessuno può
sottrarsi: è questa necessità che viene letta nei fenomeni celesti
e che permette la previsione del futuro. Sorta nelle antiche civiltà del
Medio Oriente, e coltivata particolarmente in Babilonia, l'astrologia si diffuse
in Occidente in età classica. Alle antiche escogitazioni babilonesi (lo
zodiaco, per esempio) i Greci aggiunsero alcune nozioni fondamentali come gli
aspetti (le distanze angolari tra corpi celesti). Al tempo di Tolomeo, almeno
nell'essenziale, la costruzione della dottrina astrologica era conclusa. Con
l'avvento del Cristianesimo si pose con tutta evidenza l'incompatibilità
del suo assoluto determinismo con la nozione di libero arbitrio. Il tardo Medio
Evo e poi il Rinascimento riserbarono un'accoglienza controversa alla scienza
astrologica, che nel frattempo si era arricchita di nuovi apporti indiani,
persiani e arabi: alcuni tentarono di scagionarla dall'addebito di negare la
libertà dell'uomo (gli astri dicevano-inclinano, ma non determinano),
altri invece (e tra questi Pico della Mirandola) confermarono l'accusa.
L'abbandono del sistema tolemaico dell'universo e soprattutto l'affermazione nel
Seicento di una concezione del sapere fondata sul principio della
verificabilità delle cosiddette «leggi» della natura, anche se
non hanno segnato la morte dell'astrologia, che ha tuttora i suoi cultori,
l'hanno però privata di qualsiasi legittimazione scientifica,
relegandola, come innumerevoli altre pratiche superstiziose, tra i fenomeni del
folclore.
PARACELSO
Paracelso è il nome che Philipp
Theophrast Bombast von Hohenheim volle darsi, forse in omaggio a Aulo Cornelio
Celso, uno dei grandi medici dell'antichità. Nato a Einsiedeln, in
Svizzera, nel 1493, morì a Salisburgo nel 1541 dopo aver vagabondato a
lungo per l'Europa. Caso abbastanza raro tra i dotti del tempo, scrisse in
tedesco, e le sue opere furono tradotte in latino solo più tardi dai suoi
seguaci. Forse la cosa è in qualche rapporto con il grande rispetto,
anch'esso insolito nell'ambiente accademico, che Paracelso nutriva per il sapere
popolare: pare che spiasse i rimedi che i vetturini adoperavano per curare i
loro cavalli e che cercasse di carpire dalle donnette i segreti dei loro
domestici intrugli di erbe.
Medico, alchimista, mago, astrologo e
ciarlatano, Paracelso, che considerava l'uomo supremo «tutore» del
creato e cioè partecipava dell'esaltazione, comune nei naturalisti del
Rinascimento, per la potenza dell'uomo, era un sostenitore della pratica
sperimentale, ma in un senso alquanto diverso da quello moderno: la considerava,
infatti, una tecnica rivolta ad afferrare i significati mistici delle cose (nel
linguaggio corrente si parla ancora dei «segreti della natura», a
ricordo dell'antica concezione magica ed ermetica della scienza). Ai tre agenti
alchemici, zolfo, mercurio e sale, Paracelso ne aggiungeva un quarto, il
principio di vita, che chiamava Archeus nel microcosmo, e Vulcanus nel
macrocosmo: affine al mercurio (lo chiamava anche mercurius vitae), questo
spirito vitale era la quintessenza di tutte le cose: la luce nel mondo, l'oro
nei metalli, la salute nel corpo.
Paracelso ha esercitato un vasto influsso
sulla medicina del suo tempo, dove, tra l'altro, in aspro contrasto con la
scuola galenica, che li riteneva dannosi per l'organismo, ha introdotto l'uso
dei medicinali minerali. Questi medicamenti, sicuramente pericolosi per la
salute dei pazienti, sono i lontani progenitori della farmacopea moderna:
avevano la funzione, secondo Paracelso, di correggere gli squilibri tra zolfo,
mercurio e sale, che sarebbero la causa di tutte le malattie.
ANATOMIA E FISIOLOGIA
L'anatomia moderna oltre che dagli studi di
medici e chirurghi è nata dalle osservazioni degli artisti, molti dei
quali praticavano la dissezione (per tutti valga l'esempio di Leonardo da Vinci,
1452-1519, e di Michelangelo Buonarroti, 1475-1564). Il passaggio dall'anatomia
tradizionale a quella moderna può dirsi che sia segnato dalla
pubblicazione dell'opera di Andrea Vesalio (1514-1564) De humani corporis
fabrica (Su/la costituzione del corpo umano), uscita a Padova (dove Vesalio
insegnava) nel 1543, lo stesso anno in cui Copernico pubblicando il De
revolutionibus orbium coelestium proponeva ufficialmente l'ipotesi del moto
della Terra.
Vesalio aveva trovato il coraggio di sfidare l'autorità
di Galeno in uno dei punti più delicati dell'intera costruzione della
medicina tradizionale: l'anatomia del cuore e la fisiologia del sangue. Secondo
Galeno il sangue sarebbe passato direttamente dal ventricolo destro a quello
sinistro (cioè dalle vene alle arterie) attraverso presunti pori nel
setto divisorio. Nessuno però aveva mai visto questi pori; Vesalio si
limitava a constatarlo e ad osservare che, dato lo spessore e la natura del
setto, era assai improbabile che potessero esservene. Occorreva perciò
trovare per quale altra via quel passaggio avvenisse. Cominciò di qui la
serie degli studi che nel giro di alcuni decenni portarono alla scoperta della
circolazione del sangue.
Nella tradizione tipica e fisiologia erano
praticamente confuse. È in questa epoca, e soprattutto in relazione alle
ricerche sulla circolazione del sangue, che hanno cominciato a separarsi, l'una
come studio specifico delle strutture, l'altra come studio delle funzioni degli
organismi. Il termine «fisiologia» (dal greco physis =
«natura») è stato usato per la prima volta nel 1542 dal medico
parigino Jean Fernel (1497-1558) in un suo trattato di medicina nel senso
moderno di «studio della natura dell'uomo sano, delle sue forze e delle sue
funzioni». Fernel considerava la fisiologia strettamente legata
all'anatomia e alla psicologia, ma distinta da entrambe e soprattutto distinta
dalla patologia (dal greco pathos = «patimento, affezione»: studio
delle cause e dell'evoluzione delle malattie) e dalla medicina in senso stretto
(alla quale nel trattato di Fernel faceva da introduzione).
LIBRI E COSE
Teologi e filosofi scolastici erano abituati
a disputare. Si può dire, anzi, che non facessero altro: i platonici
polemizzavano con gli aristotelici, i francescani con i domenicani e così
via. Ma tutte queste dispute non portavano a nulla e producevano soprattutto un
gran fiume di parole; o almeno così pareva, visto che ciascuno restava
della sua opinione. A qualunque scuola appartenessero, tomisti o scotisti,
mistici o razionalisti, gli Scolastici derivavano la propria dottrina dai libri
e il loro sapere si manifestava nella produzione di nuovi libri, che per lo
più ripetevano vecchi libri.
Gli artigiani, invece, generalmente
illetterati e spesso analfabeti, derivavano le proprie conoscenze non dai libri
ma dall'esperienza, e non producevano parole, ma cose: e proprio per questo, a
differenza dei filosofi, realizzavano evidenti progressi nelle loro
attività. La concorrenza e l'emulazione li spingeva a perfezionare i
metodi di lavoro, a migliorare le prestazioni di macchine e strumenti, a
escogitare nuovi prodotti e cioè ad accrescere costantemente il comune
patrimonio di conoscenze. I dotti tradizionali avevano sempre giudicato priva di
interesse scientifico l'esperienza dei tecnici e degli artigiani e il termine
«meccanico» come sinonimo di lavoratore manuale era quasi un insulto:
nel linguaggio comune equivaleva a uomo ignorante, rozzo, di poco conto.
Senonché, come doveva constatare agli inizi del Seicento Francesco
Bacone,
... Le arti meccaniche progrediscono ogni giorno di
più sulla via della perfezione, come se fossero animate da uno spirito di
vita. La filosofia, al contrario, come una statua, viene adorata e celebrata, ma
non riesce a muoversi...
La ragione di questa paralisi filosofica
stava nel principio di autorità proprio delle scuole, ossia in quella
forma di «servilismo», come lo chiamava Bacone, in forza del quale gli
studiosi, scelto un Maestro, si affaticavano a illustrarne, a interpretarne e a
difenderne la dottrina, senza azzardarsi a compiere per proprio conto nuove
esperienze e nuove ricerche.
... La filosofia - continuava Bacone, -
quando viene separata dalle sue radici che affondano nell'esperienza, dalla
quale in origine è germogliata e cresciuta, diventa subito una cosa
morta...
Francesco Bacone era un dotto, quello che oggi chiameremmo
un «intellettuale». Ma anche tra gli artigiani (o almeno tra quelli
che erano dotati di una certa cultura) era diffusa la coscienza della
superiorità del sapere tecnico-pratico su quello libresco dei filosofi
ufficiali. Un vasaio di genio, il francese Bernard Palissy (1510-1589), che
aveva compiuto importanti scoperte nel settore della fabbricazione del vetro e
della ceramica, era anche un appassionato raccoglitore di oggetti
naturali:
... dagli oggetti esposti in questa mia raccolta - diceva
con orgoglio - si può imparare in un sol giorno molto di più di
quanto non si impari in cinquanta anni di intenso studio delle teorie degli
antichi filosofi...
Le esperienze dei tecnici e degli artigiani si
dimostravano più utili, più concrete più credibili (in una
parola più vitali) di tutte le dottrine insegnate nelle scuole. Queste
esperienze, anzi, si dimostravano capaci, almeno in certi casi, di smentire le
teorie professate dai dotti e addirittura di mettere in crisi tutt'intera la
loro scienza. Era il caso, tra gli altri, di un vecchio problema che l'impiego
sempre più frequente dell'artiglieria negli eserciti e nelle armate
navali aveva reso di pressante attualità: quello del moto dei proiettili.
Secondo la dottrina aristotelica il moto dei proiettili verso l'alto era un moto
violento, cioè contro natura. La loro caduta verso il basso era invece un
moto naturale, cioè conforme alla loro natura di corpi pesanti. In quanto
opposti, il moto violento e quello naturale si escludevano a vicenda e non
potevano combinarsi insieme: la gravità cominciava ad agire solo quando
cessava l'effetto della spinta. Così, il proiettile avrebbe seguito
dapprima una traiettoria rettilinea verso l'alto (moto di proiezione) e poi una
traiettoria rettilinea verso il basso (moto di caduta) descrivendo un angolo
acuto.
Abbastanza presto gli artiglieri si erano convinti che i proiettili
non seguivano affatto una traiettoria rettilinea, ma curva (Galilei
dimostrò più tardi che si trattava di un arco di parabola). Come
spiegò Niccolò Tartaglia in un suo libro di balistica e tattica
militare pubblicato nel 1546, questa traiettoria curva poteva essere spiegata
solo come effetto della combinazione dei due moti.
Ammettendo però
che i due moti si combinassero, ammettendo cioè che la forza di
proiezione e quella di gravità agissero contemporaneamente (e non
successivamente) sul proiettile, si era costretti a rifiutare tutta l'antica
teoria del moto e in particolare la presunta opposizione dei moti naturali e
violenti.
Dal mondo del lavoro e soprattutto dal gruppo dei grandi
ingegneri-matematici (come Leonardo o Tartaglia) e degli artigiani colti (come
Palissy), veniva una precisa indicazione: confrontare in dispute interminabili
una teoria con un'altra teoria, l'opinione di un filosofo con l'opinione di un
altro filosofo, un libro con un altro libro non serviva a nulla; occorreva
confrontare le teorie con i fatti, le opinioni con l'esperienza, le parole con
le cose.
Era quello che faceva, tra gli altri, William Gilbert (1540-1603),
autore del De Magnete una vasta ricerca che segna l'inizia della scienza moderna
del magnetismo; nel momento di pubblicare i risultati dei suoi esperimenti, egli
dedicava il volume non ai dotti tradizionali, ma «ai veri amici della
filosofia che ricercano con zelo la verità non solo nei libri ma nelle
cose stesse». Il grande medico inglese William Harvey (1578-1657), cui si
deve la scoperta della circolazione del sangue, avrebbe usato pressappoco le
stesse parole per indicare il «nuovo e arduo cammino» della scienza:
«trarre il sapere non dalle opinioni dei filosofi, sfogliando dei libri, ma
dalle cose stesse, osservando la natura».
Questo invito a spostare
l'attenzione dai libri alle cose, dalle opinioni dei filosofi ai fenomeni della
natura ha avuto una celebre formulazione da parte di Galileo Galilei in una
pagina del Saggiatore, uno scritto polemico del 1623 diretto contro un gesuita,
Orazio Grassi, noto anche con lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Orazio Grassi (o
Lotario Sarsi) era un buon matematico e un ottimo architetto, che faceva parte
di un folto gruppo di studiosi gesuiti attivamente impegnati in esperienze e
osservazioni naturali. In filosofia questo gruppo cercava di mantenere una
posizione intermedia tra i conservatori, seguaci di Aristotele, e gli
innovatori, o galileisti, sostenitori dell'indirizzo sperimentale: seguiva con
interesse l'opera di questi ultimi, ma era spaventato dalla loro imprudenza. Il
principio di autorità, sostenevano gli scienziati gesuiti, non poteva
essere espunto totalmente dalla filosofia, perché qualsiasi teoria
avrebbe dovuto rispettare almeno i dettami della Chiesa. Ma la stessa filosofia
delle scuole (che era la filosofia ufficiale della Compagnia di Gesù),
anche se faceva ormai acqua da tutte le parti, come molti gesuiti riconoscevano,
almeno in privato (e tra questi c'era Orazio Grassi), non meritava il disprezzo
di cui era fatta segno da parte degli innovatori.
Gli scienziati gesuiti
non vedevano che cosa ci fosse di male nell'appoggiarsi, filosofando, anche (non
esclusivamente!) all'autorità di Aristotele e perché mai non si
potesse tentare di conciliare i risultati delle nuove esperienze scientifiche
con le dottrine tradizionalmente accettate nelle scuole.
Insomma, mentre si
stava compiendo in Europa una grande rivoluzione intellettuale, che nel giro di
una generazione avrebbe sconvolto la nozione stessa di scienza, Orazio Grassi e
i suoi colleghi della Compagnia di Gesù proponevano un'impossibile
riforma, fatta di moderazione e di opportunismo, di silenzi, di mezze
verità, di doppi sensi, di riserve mentali, di finto ossequio alla
tradizione. Contro questo indirizzo «riformistico» Galilei volle
riaffermare a chiare lettere nel Saggiatore il proprio credo scientifico e qui
appunto gli venne fatto di usare la bella immagine del «libro
dell'Universo», il solo libro che, a parere di Galilei, i filosofi fossero
davvero tenuti a decifrare.
... Parmi [...] di scorgere nel Sarsi
ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinioni di
qualche celebre autore, sicché la mente nostra, quando non si maritasse
col discorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e
forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come
l'Illiade e l'Orlando Furioso, libri nei quali la meno importante cosa è
che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non
istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo
libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo ma
non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e
conoscer i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in
lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure
geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente
parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro
labirinto...
A proposito di quegli Aristotelici (o Peripatetici, come
anche si chiamavano) che, sconfitti da esperienze e da osservazioni rigorose, si
difendevano richiamandosi semplicemente all'autorità di Aristotele,
Galilei fa raccontare a Sagredo, nel Dialogo sopra i due Massimi Sistemi, questo
episodio:
[...] Mi trovai un giorno in casa di un medico molto
stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità,
convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno
veramente non men dotto che diligente e pratico notomista.
Ed accadde quel
giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che
è famosa controversia tra i medici Galenisti ed i Peripatetici; e
mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il
grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e
diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo [...] arrivava
al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico,
[...] gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine dei nervi
venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo [...] rispose: - Voi mi
avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo
d'Aristotele non fusse in contrario, che apertamente dice i nervi nascer dal
cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera -...
I promotori
dell'indirizzo sperimentale consideravano indispensabile al progresso della
filosofia l'esperienza dei tecnici e degli artigiani. Galilei aveva frequentato
l'Arsenale di Venezia ed aveva tratto gran frutto dalle conversazioni con gli
artigiani che vi lavoravano. Nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a
due nuove scienze Galilei fa pronunciare a Salviati e a Sagredo, interlocutori
dei Discorsi, le lodi di questo stabilimento e dei suoi
tecnici:
[...]
Salviati:
Largo campo di filosofare a
gl'intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso
arsenale di voi, Signori veneziani, ed in particolare di quella parte che
mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina viene
continuamente posta in opera da numero grande d'artefici, tra i quali, e per
l'osservazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di propria
avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne
siano dei peritissimi e di finissimo discorso.
Sagredo:
Vostra
Signoria non s'inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio
diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa
preminenza che tengono sopra il resto della maestranza, domandiamo proti; la
conferenza dei quali mi ha più volte aiutato nell'investigazione della
ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi
inopinabili...
LA CRISI DELL'ASTRONOMIA TRADIZIONALE
Il sistema di Tolomeo era un'ammirevole
sintesi delle conoscenze astronomiche dell'antichità. Non tutti i
problemi si potevano dire risolti e l'accordo tra i dati della teoria e quelli
dell'osservazione era tutt'altro che perfetto. Era lecito però attendersi
che con migliori rilevazioni e con il perfezionamento del modello matematico le
difficoltà che ancora restavano sarebbero state superate. Senonché
l'accumularsi di osservazioni sempre più precise aveva, se possibile,
peggiorato la situazione e sul finire del Medio Evo ci si era abituati a
considerare pressoché ineliminabile una certa discrepanza tra esperienza
e teoria. Nel tentativo di diminuire il divario era sempre possibile aggiungere
o togliere qualche sfera o introdurre nel modello qualche nuovo dispositivo, sul
genere degli epicicli e degli eccentrici. Ma a forza di ritocchi più o
meno ingegnosi il modello tolemaico (ammesso che si potesse ormai parlare di un
modello tolemaico, giacché in circolazione ce ne era una dozzina) era
diventato un groviglio di cerchi e, se non altro per ragioni di eleganza,
qualsiasi sforzo per migliorarlo avrebbe dovuto muoversi nella direzione di una
sua drastica semplificazione.
Al principio del Cinquecento l'astronomo
polacco Nicolò Copernico (1473-1543) ebbe l'idea di cercare una soluzione
nell'abbandono dell'assunto fondamentale da cui tutti finora (ad eccezione di
Aristarco di Samo e, prima di lui, dei Pitagorici) erano partiti:
l'immobilità della Terra al centro dell'universo. In particolare,
osservava Copernico, ai commentatori e correttori di Tolomeo era accaduto
... quel che accade ad un pittore che prenda mani, piedi, testa e le
altre membra da modelli differenti, e che le disegni in maniera eccellente, ma
non in funzione di un singolo corpo e, poiché tutte queste parti non
armonizzano assolutamente fra loro, ne vien fuori un essere mostruoso invece che
un uomo...
Il che, aggiungeva Copernico, non sarebbe avvenuto se
l'ipotesi su cui si erano basati non fosse stata sbagliata. Copernico non si
staccava del tutto dalle concezioni cosmologiche tradizionali, di cui conservava
sia la complicata architettura fatta di sfere, eccentrici ed epicicli sia
l'immagine di un universo finito (anche se assai più grande di quello
tradizionale) racchiuso dalla sfera delle stelle fisse. Ma la sua teoria era
infinitamente più elegante di quelle tradizionali, non lasciava spazio ad
assunti arbitrari, dava immediatamente ragione delle differenze rilevabili tra i
moti apparenti dei pianeti interni (Mercurio e Venere) e di quelli esterni (che
nel sistema tolemaico richiedevano faticose spiegazioni), sostituiva in ogni
parte del cosmo, come Copernico non mancò di rilevare,
un'«ammirevole simmetria» alle incongruenze ed alle
«mostruosità» dei sistemi geocentrici.
Copernico non si
preoccupava molto e forse non si rendeva neanche esattamente conto dell'effetto
rivoluzionario che avrebbe avuto nella cultura europea (anche fuori dell'ambito
astronomico) riproporre dopo circa diciotto secoli le teorie di Aristarco di
Samo, che già al loro tempo erano state condannate per il loro contenuto
ateistico e sovversivo: mettere al centro dell'universo il Sole invece della
Terra significava stravolgere concezioni profondamente radicate relative ai
rapporti tra Terra e Cielo, Uomo e Dio, astronomia e religione. Altri si
accorsero subito di questo aspetto della proposta di Copernico: prima ancora
della pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium, e non appena
trapelarono in pubblico in forma di sunti o di anticipazioni, le sue teorie
furono attaccate da studiosi tradizionalisti e da uomini di Chiesa, cattolici e
protestanti, che agli antichi argomenti contro l'ipotesi eliocentrica si
affrettarono ad aggiungere quello della sua inconciliabilità con il
dettato della Bibbia. Anche per questo, nel 1543, quando si decise a
pubblicarlo, Copernico (che del resto era un ecclesiastico) finì per
dedicare il De Revolutionibus proprio al papa.
Appena otto anni dopo la
pubblicazione del libro un astronomo tedesco, Erasmus Reinhold, nel compilare
una nuova serie di tavole astronomiche, pur senza aderire alla tesi
eliocentrica, assunse il sistema di Copernico a base dei suoi calcoli. Le tavole
astronomiche allora in uso risalivano ad oltre tre secoli addietro ed erano
largamente scorrette. Quelle assai più precise di Reinhold (note col nome
di Tabulae Prutenicae, perché dedicate al duca di Prussia) venivano
dunque incontro ad un bisogno sentito dagli astronomi e la loro fortuna
contribuì potentemente (anche se indirettamente) al prestigio di
Copernico. Anche gli studiosi che lavorarono alla riforma del calendario
promulgata nel 1582 da papa Gregorio XIII utilizzarono il modello copernicano,
senza per questo impegnarsi minimamente a favore della sua verità fisica.
Per oltre mezzo secolo la teoria di Copernico ebbe la singolare sorte di essere
lodata per l'eleganza, l'ingegnosità e l'utilità delle sue
costruzioni matematiche e insieme condannata (e derisa) per l'assurdità e
la pericolosità dei suoi assunti fisici. Quel che però importa, ai
fini del suo successo finale, è che nessun astronomo poteva permettersi
di ignorarla.
Tra quelli che furono costretti a fare i conti con le teorie
di Copernico ci fu il danese Tycho Brahe, il massimo esponente dell'osservazione
astronomica prima dell'invenzione del cannocchiale. Brahe sosteneva
l'impossibilità di eseguire delle buone osservazioni senza l'ausilio di
un buon modello del mondo. Dal punto di vista matematico il modello copernicano
era senza dubbio migliore di quello tolemaico, ma Brahe era convinto che dal
punto di vista fisico il moto della Terra fosse altamente improbabile e non
aveva alcuna intenzione di impegolarsi in difficili questioni teologiche.
Elaborò allora un modello tutto suo, che conservava almeno in parte i
vantaggi del sistema copernicano, ma dove la Terra restava doverosamente
immobile al centro dell'universo: la Luna e il Sole continuavano a orbitarle
intorno, mentre gli altri pianeti orbitavano intorno al Sole. Era una soluzione
di compromesso, che suscitò gli entusiasmi di quanti, convinti
dell'insostenibilità del sistema tolemaico, erano ancor più
convinti dell'opportunità di non mettere in discussione l'autorità
della Bibbia.
Molti gesuiti erano favorevoli ad accettare il nuovo sistema,
e la Compagnia di Gesù finì con l'adottare ufficialmente nelle sue
scuole il sistema ticonico, che svolse onorevolmente la sua funzione fino a
quando non fu irrimediabilmente superato dal modello newtoniano
dell'universo.
Sebbene volesse essere solo quel che si dice una «mezza
riforma», il sistema ticonico ebbe almeno una conseguenza rivoluzionaria.
Da Aristotele in poi le sfere con cui Eudosso aveva cercato di interpretare i
moti celesti erano state considerate non mere costruzioni geometriche, ma
realtà fisicamente esistenti.
Per quanto dal punto di vista fisico
questo sistema di sfere solide contrastasse con le più banali
osservazioni, e dal punto di vista matematico fosse stato sostituito sin
dall'antichità con espedienti più efficaci, era rimasto una specie
di ideale per tutti gli astronomi, Copernico compreso.
Il sistema ticonico
era invece incompatibile con l'esistenza di sfere solide, a cui del resto lo
stesso Tycho Brahe diede un colpo mortale quando dimostrò che la cometa
apparsa nel 1577 non era, come credeva Aristotele, un fenomeno atmosferico, ma
un fenomeno celeste e che pertanto nel suo percorso aveva attraversato la
regione dove avrebbero dovuto trovarsi le sfere.
Fu un discepolo di Tycho
Brahe, Johannes Kepler (italianizzato in Keplero, 1571-1630), che, utilizzando i
dati raccolti dal maestro, ma in nome dell'eliocentrismo, sottopose a revisione
anche la tesi della circolarità delle orbite terrestri, che Copernico
aveva mantenuto.
I moti dei pianeti, e specialmente quelli di Marte e di
Venere, mostravano piccole ma sensibili deviazioni del percorso circolare e la
loro velocità non era perfettamente uniforme.
Dopo ripetuti
tentativi (ad esempio Keplero provò dapprima a mantenere la forma
circolare, spostando leggermente il Sole dal centro del cerchio), trovò
infine una soluzione pienamente soddisfacente, che sintetizzò in tre
enunciati, noti come le tre leggi di Keplero.
I) Le orbite descritte dai
pianeti sono ellissi, di cui il Sole occupa uno dei fuochi.
II) Le
aree descritte dal raggio che congiunge il Sole con un pianeta sono
proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle.
III) I quadrati dei
tempi di rivoluzione di due pianeti sono proporzionali ai cubi dei semiassi
maggiori delle rispettive orbite.
All'inizio del Seicento
l'invenzione del cannocchiale (o telescopio) chiuse l'epoca dell'osservazione a
occhio nudo.
Galilei non fu propriamente l'inventore di questo strumento
ma, nel 1609, avendo sentito parlare delle proprietà di certi
«perspicilli» (come allora si chiamavano, dal latino perspicere =
«vedere attraverso») costruiti dagli occhialai olandesi, che
permettevano di vedere da lontano, aveva progettato e realizzato uno strumento
simile e soprattutto aveva avuto l'idea di puntarlo verso il cielo.
Quello
che vide lo pubblicò nel 1610 nel suo Sidereus Nuncius: la Via Lattea era
un ammasso di stelle, sulla Luna c'erano valli e montagne proprio come sulla
Terra, intorno a Giove giravano quattro satelliti (a cui Galilei diede il nome
di «pianeti medicei» in onore del granduca di Toscana). Più
tardi il cannocchiale gli permise di osservare la forma singolare di Saturno
(determinata dagli anelli, che però non si riuscivano a distinguere con
lo strumento, ancora piuttosto debole, di Galilei), le fasi di Venere, le
macchie del Sole.
Questa massa di sorprendenti informazioni sancivano la
fine delle concezioni astronomiche tradizionali. L'aspetto della Luna dimostrava
che i corpi celesti non sono affatto diversi dalla Terra. Lo stesso aspetto
della Luna e la presenza di macchie sulla superficie del Sole dimostravano che
il cielo non era così perfetto come pretendevano gli antichi.
Contro
la teoria copernicana era stato fatto osservare che, se fosse stata vera, Venere
avrebbe dovuto presentare delle fasi simili a quelle della Luna; ora queste fasi
si vedevano benissimo col cannocchiale. Era stato anche sostenuto che
nell'universo non poteva esserci più di un centro di rotazione e che,
poiché la Luna girava sicuramente intorno alla Terra, anche gli altri
corpi celesti dovevano fare lo stesso: ora il cannocchiale dimostrava
l'esistenza di almeno un altro centro di rotazione, Giove, che con i suoi
quattro satelliti appariva una sorta di sistema solare in miniatura. Si era
infine sempre creduto (ed era una delle obiezioni più consistenti contro
il sistema copernicano) che la Terra non potesse muoversi nel cielo
perché la quiete era propria della sua natura: ora si scopriva che la
«natura terrestre» della Luna, messa in evidenza dal cannocchiale, non
le impediva affatto di muoversi nel cielo.
UN ANEDDOTO
A proposito di Copernico Martin Lutero, nel
1539, quando il De Revolutionibus non era stato ancora pubblicato, conversando a
tavola con amici e discepoli, ebbe a dire:
... La gente sta dando
ascolto a un astrologo da quattro soldi, il quale s'è dato da fare per
dimostrare che è la Terra che gira e non i cieli, il firmamento, il Sole,
la Luna [...] Questo insensato vuole sovvertire tutta la scienza astronomica, ma
la Sacra Scrittura ci dice che Giosué ordinò al Sole di fermarsi,
non alla Terra...
Lutero è stato il più grande
riformatore religioso del Cinquecento, il primo a ribellarsi apertamente al papa
di Roma. Ma non sempre i rivoluzionari hanno simpatia per le rivoluzioni
altrui.
NATURA E SACRA SCRITTURA
Può sembrare che la correzione di
questo o quel punto delle antiche dottrine e il loro adattamento ai risultati
recenti dell'esperienza non dovesse costituire un grosso problema. La scienza
moderna opera continuamente questo genere di correzioni. Ma le dottrine
scolastiche (che nella versione più comune erano una forma di
aristotelismo adattata alle esigenze del cristianesimo) non erano suscettibili
di correzioni importanti. Dopo un'elaborazione di secoli, avevano finito col
costituire dei sistemi compatti e la loro forza di persuasione stava proprio in
questa coerenza che legava indissolubilmente la parte al tutto. Mutare un
particolare poteva significare far crollare l'intero edificio.
Non era solo
per stupidità che i filosofi conservatori pur di non abbandonare teorie
convalidate dalla tradizione si inducevano a rifiutare la testimonianza
dell'esperienza o a negare l'evidenza stessa dei fatti. La formula ipse dixit
(con cui gli Aristotelici si appellavano, come un tempo avevano fatto i
Pitagorici, all'autorità del Maestro) è diventata proverbiale per
indicare la mancanza di spirito critico e l'attaccamento servile ad una dottrina
non più conforme all'esperienza. È comprensibile tuttavia che per
molti risultasse difficile abbandonare d'un tratto un sistema filosofico che
(come quello aristotelico) era parso perfettamente convincente ad innumerevoli
generazioni di studiosi e che risultava tuttora conforme ai comuni modi di
pensare. Quel sistema, poi, era legato a valori (come il rispetto
dell'autorità), certezze (i dogmi della Chiesa in primo luogo), e
comportamenti (lo spirito di corpo, per esempio, sempre assai forte all'interno
delle scuole e degli ordini religiosi), che erano oggetto di scelte
eminentemente pratiche, non scientifiche.
I sistemi dottrinali accettati
nelle scuole erano dunque legati non solo a certi modi di pensare, ma anche a
certi modi di vivere. In qualche misura questo è vero per ogni filosofia:
la scienza non è mai politicamente o moralmente «neutrale».
Nella filosofia scolastica, però, questo era vero in un senso tutto
particolare: la scienza non aveva soltanto il compito di spiegare i fenomeni
naturali (questo era anzi un compito secondario), ma doveva offrire una
soluzione razionale e coerente ai problemi più diversi, da quelli
politici a quelli morali, a quelli teologici.
Il problema più
grosso, anzi, era proprio il problema di Dio, della sua esistenza, dei suoi
attributi, dei suoi rapporti con il creato. In tal mondo ogni altro ramo del
sapere ed ogni altro settore di ricerca finiva con l'essere subordinato alla
teologia. Ciò spiega perché anche problemi apparentemente
secondari e strettamente tecnici (come quello della traiettoria dei proiettili)
potessero sollevare polemiche infuocate e alla lunga suscitare giustificate
preoccupazioni in chi (come il papa, ad esempio) riteneva di essere il
depositario della verità: l'accettazione di una nuova teoria fisica
poteva avere gravi ripercussioni in campo teologico.
Riprendiamo l'esempio
della traiettoria dei proiettili: se l'antica distinzione tra moti naturali e
moti violenti risultava falsa, falsa doveva essere anche l'opposizione, che ad
essa si legava, tra Cielo e Terra. Proprio a questa conclusione sembrava
condurre l'osservazione degli astri fatta per mezzo di quell'altra curiosa
invenzione che era il cannocchiale. Ma se tra Cielo e Terra non esisteva quella
contrapposizione che gli antichi avevano ipotizzato, allora non era più
necessario che la Terra stesse ferma al centro dell'universo ed era anche
possibile che avesse ragione quel «pazzo» di Copernico (come lo aveva
definito Lutero). Ma se la teoria copernicana era vera, in che modo si sarebbero
potuti spiegare i ripetuti accenni delle Sacre Scritture al moto del Sole
intorno alla Terra? Era ammissibile che Dio, che aveva ispirato le Sacre
Scritture, si fosse sbagliato nel descrivere quell'universo che egli stesso
aveva creato?
GALILEO GALILEI
Proprio questo problema si pose, e in modo
drammatico, a Galileo. Galileo si riteneva un buon cattolico e tentò tra
il 1610 circa e il 1633 (quando venne definitivamente condannato
dall'Inquisizione) di far accogliere dalla Chiesa una soluzione che gli sembrava
accettabile per tutti. Secondo Galileo la Sacra Scrittura e la Natura derivavano
entrambe da Dio «quella come dettatura dello Spirito Santo e questa come
osservantissima esecutrice degli ordini di Dio». Senonché la Bibbia
era scritta in parole umane, spesso imprecise, ambigue, oscure. Anche la natura,
come abbiamo visto, era un sorta di «libro», che però Dio aveva
scritto da solo, senza intermediari, e usando un linguaggio inequivocabile:
quello della matematica. «Inesorabile e immutabile» nelle sue leggi,
il libro della natura era suscettibile di una «lettura» rigorosa
mediante «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni».
E siccome la verità non poteva essere che una sola, in caso di contrasto
tra le conclusioni «certe» della scienza naturale e le asserzioni
sempre opinabili della Bibbia pareva a Galilei che i teologi dovessero
affrettarsi ad aggiornare l'interpretazione della Bibbia per adattarla ai
risultati della ricerca scientifica.
... Anzi essendo [...] che le
Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, [...] ammettono in molti luoghi
esposizioni lontane dal suono letterale e, di più non potendo noi con
certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati divinamente,
crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno
l'impegnar i luoghi della Scrittura e obbligarli in certo modo a dover sostenere
per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le
ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il
contrario...
Galilei si illudeva circa la possibilità che la
Chiesa accettasse una soluzione del genere, che in pratica avrebbe sancito la
preminenza dello scienziato sul teologo e la priorità della ragione sulla
fede. Nel febbraio del 1616 la Chiesa condannò formalmente la teoria
copernicana e nel giugno del 1633, a seguito della pubblicazione, avvenuta
l'anno precedente, del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico
e copernicano in cui Galilei aveva presentato, sia pure tra mille cautele, nuovi
argomenti, favore del copernicanesimo, lo stesso Galilei fu incarcerato,
condannato e costretto ad abiurare. Gli era andata bene. L'enorme prestigio di
cui godeva in tutta Europa e le solidarietà su cui poteva contare nel
mondo cattolico ed anche in molti ambienti ecclesiastici gli avevano fatto da
scudo. Trentatré anni prima un altro copernicano di genio, Giordano
Bruno, le cui proposte teoriche erano assai più fumose di quelle di
Galileo (e quindi, tutto sommato, meno provocatorie per la Chiesa) era finito
sul rogo.
FEDE E SCIENZA
Il processo e la condanna di Galilei non fu
un episodio increscioso attribuibile all'oscurità dei tempi (che non
erano affatto oscuri). La Chiesa ha finito con l'ammettere (sia pure con due
secoli di ritardo) che la Terra non sta ferma al centro dell'universo, ma che
gira intorno al Sole, come appunto diceva Galilei; e, proprio come suggeriva
Galilei, ha trovato un modo qualsiasi per metter d'accordo questa sua nuova
convinzione con le affermazioni contrarie della Sacra Scrittura. Ma alla
proposta galileiana di subordinare la teologia alla scienza in tutte le
questioni riguardanti il mondo fisico la Chiesa cattolica ha opposto e continua
ad opporre un netto rifiuto: a metà del secolo scorso, quando si era
appena riconciliata con il sistema copernicano, ha intrapreso una nuova
crociata, che ancora dura, contro la più importante teoria scientifica
del momento, il darwinismo. Nel 1950 Pio XII nell'enciclica Humani Generis ha
ribadito che in questa come in ogni altra questione l'ultima parola spetta ai
teologi, non agli scienziati:
... Il Magistero della Chiesa non
proibisce che, in conformità dell'attuale stato delle scienze e della
teologia, sia oggetto di ricerche e di discussione da parte dei competenti in
tutt'e due i campi la dottrina dell'evoluzione, in quanto essa fa ricerche
sull'origine del corpo umano che proverrebbe da materia organica preesistente
(la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime invece siano state
immediatamente create da Dio). Però questo deve esser fatto in modo tale
che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella
contraria all'evoluzione, siano ponderate e giudicate con la necessaria
serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a
sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di
interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della
fede.
Molti si sono scandalizzati di queste (o di simili) prese di
posizione e le hanno accusate, per altro giustamente, di
«oscurantismo» (una parola nata nel XVIII secolo insieme a
«illuminismo» e come suo contrario: indica genericamente la diffidenza
verso la ragione e verso le innovazioni che la ragione suggerisce in campo
politico morale o scientifico). Non si vede però perché mai la
Chiesa cattolica (o qualsiasi altra Chiesa al suo posto) dovrebbe comportarsi
diversamente. È compito delle Chiese stabilire quel che i propri fedeli
devono credere o non credere ed è evidente che se i fedeli credessero
solo a cose ragionevoli non avrebbero agli occhi della loro Chiesa alcun merito
speciale. Non c'è proprio nulla da stupirsi o da scandalizzarsi:
l'oscurantismo ha tanto diritto ad esistere quanto l'illuminismo. Quel che conta
è che nessuno sia costretto (come avveniva ai tempi di Galileo e come
è avvenuto anche dopo: a Roma, per esempio, fino al 20 settembre 1870) ad
appartenere a una Chiesa e a dimostrarle la propria
obbedienza.
GIORDANO BRUNO
Nato a Nola nel 1548, Giordano Bruno
morì a Roma arso vivo come eretico il 17 febbraio del 1600.
Figlio
di Giovanni, soldato di professione, e di Fraulissa Savolino, d'una famiglia di
piccoli possidenti locali, trascorse un'infanzia libera, a contatto con la
natura. A 14 anni fu mandato a Napoli a continuare gli studi di umanità e
conobbe le violenze, i raggiri e il turpiloquio della grande città
affollata e caotica. Di quel mondo avrebbe poi delineato un quadro spregiudicato
e beffardo nella commedia Il Candelaio (1582). Forse spinto da necessità
economiche, nel giugno 1565, pur con tiepida vocazione religiosa, vestì
nel convento di S. Domenico Maggiore l'abito di novizio domenicano. Promosso al
sacerdozio nel 1572, dottore in teologia tre anni dopo, si nutrì di vaste
e libere letture, con particolare interesse per la mnemotecnica, la magia, e la
cabala. Processato ai primi del 1576 per aver difeso in pubbliche dispute talune
tesi di scrittori eretici scelse la fuga e si portò a Roma, dove, invece,
fu subito coinvolto in un oscuro processo per l'omicidio di un confratello.
Scelse allora l'apostasia, gettò l'abito e iniziò un lungo e
irrequieto vagabondaggio attraverso l'Europa in cerca di un approdo definitivo,
di una cattedra rispettata e, soprattutto, di ascolto.
Nel 1576 trascorre
sei mesi a Noli a «insegnar la grammatica ai putti» per sfuggire la
peste dilagante e forse l'arresto; nel 1578 peregrina da Torino a Venezia, passa
l'inverno a Chambèry e ai primi del 1579 si spinge a Ginevra, dove
è indotto ad abbracciare il calvinismo, mentre si guadagna da vivere
facendo il correttore di stampe. Ma la diffusione di un foglio volante
denigratorio contro un professore di filosofia provoca il suo arresto e lo
costringe ad una ritrattazione umiliante. Sdegnato, lascia la città e si
porta a Tolosa, dove ottiene una pubblica lettura e si laurea in
«arti»: ma la sua irrequietezza non si placa e nel 1581 lo si ritrova
a Parigi, lettore straordinario, benvisto dal re, autore di tre trattatelli di
mnemotecnica, vicino al partito laicizzante e monarchico dei politiques, che
nella guerra civile tra cattolici e ugonotti che devastava la Francia era il
partito della conciliazione e della tolleranza.
Ma nella primavera del 1583
Bruno è a Oxford, impegnato in vivaci dispute pubbliche e oggetto di
fiera ostilità, che lo induce a venirsene a Londra, ospite
dell'ambasciatore francese Michel de Castelnau. In casa sua, con vaghe funzioni
di gentiluomo-segretario, dà l'ultima mano ai sei dialoghi che
pubblicherà tra il 1584 e 1585: La cena de le Ceneri, esaltazione
dell'ipotesi copernicana e sua apertura a conseguenze di immensa portata non
solo scientifica, ma politica e religiosa, il De l'infinito, universo e mondi,
prospettiva grandiosa di una nuova cosmologia che accolga la visione di un
universo infinito in armonia con la potenza infinita del Creatore il De la
causa, principio et uno, ripudio dell'antitesi tradizionale tra Dio e mondo e
identificazione di materia cosmica e anima mundi nell'unità divina, che
è presente in ogni punto del creato senza mai identificarsi con esso; lo
Spaccio della bestia trionfante, allegoria morale, che narra la detronizzazione
dal cielo delle antiche simbologie pagane, il cui luogo viene assegnato alle
virtù, e riconosce il carattere ciclico delle vicende del mondo, e quindi
anche di quelle delle religioni, non escluso il Cristianesimo; la Cabala del
cavallo pegaseo, oscura satira della presuntuosa ignoranza imperante; Degli
eroici furori, ripresa del tema della spiritualizzazione dell'amore terreno,
caro ai petrarchisti, che si trasforma in un inno all'intellettuale amore di Dio
e della verità.
Con il richiamo in Francia del Castelnau, nel 1585,
quella pausa di raccoglimento e di sicurezza viene stroncata; Bruno lo segue a
Parigi, accende vivaci polemiche contro l'aristotelismo imperante
nell'Università, e nel maggio dell'86, in una piccola disputa al Collegio
di Cambray, sostiene senza successo 120 articoli «sulla natura e il mondo
contro i Peripatetici».
Respinto e umiliato, decide di lasciare la
Francia e rivolge le sue speranze ad una qualche sistemazione nelle
Università tedesche. Insegnerà per due anni a Wittemberg,
tenterà la fortuna presso la corte imperiale di Praga e
l'Università di Tubinga, terrà un contrastato corso a Helmstadt,
finché nell'estate del 1590 lo troviamo a Francoforte per avviare la
stampa dei tre poemi latini cui ha consegnato quella che era destinata a
rimanere l'ultima formulazione della sua filosofia: il De immenso et
innumerabilibus, ardua rielaborazione della cosmologia metafisica; il De monade,
numero et figura, volto a decifrare l'essenza delle cose attraverso il
linguaggio segreto dei numeri e delle forme; il De triplici minimo et mensura,
ripensamento della concezione della materia. Venuti in luce nel 1591, furono
quelli gli ultimi scritti alla cui stampa il Bruno poté attendere in
libertà.
Chiamato insistentemente a Venezia dal patrizio Giovanni
Mocenigo, un frustrato di modesto ingegno che sperava di ottener prestigio
impadronendosi dell'arte della memoria, Bruno acconsentì a trasferirsi.
Forse lo attirarono nostalgia e curiosità dell'Italia, forse addirittura
la speranza di una cattedra a Padova. Dopo una sosta di studio in questa
città, prese stabile soggiorno a Venezia a casa dell'ambizioso patrizio,
che presto deluse coi mancati progressi ed irritò poi manifestando il
proposito di tornarsene in Germania. Per vendetta questi lo denunciò
all'Inquisizione, accusandolo di varie enunciazioni incaute e
blasfeme.
Arrestato il 23 maggio del 1592, Bruno subì un primo,
serrato processo a Venezia, per essere poi estradato verso il S. Uffizio romano,
dove giunse il 27 febbraio del 1593. A Roma l'inchiesta si protrasse,
lunghissima e snervante, tra interrogatori pressanti e lunghe pause inerti, per
ben sette anni. L'inquisito condusse abili schermaglie, negò, ammise
ciò che non era negabile, professò pentimento e sottomissione, ma
sempre in modo elusivo e con indomita energia intellettuale. Solo nel gennaio
1599, su proposta del consultore Roberto Bellarmino, il futuro santo, si decise
di sottoporre a Bruno otto proposizioni indiscutibilmente eretiche, invitandolo
ad abiurarle. Il recluso si dichiarò pronto all'ubbidienza, ma tosto
riaprì la discussione con un memoriale e il 10 settembre ricevette una
nuova intimidazione, cui tornò a sottomettersi, subito facendo seguire
una nuova scrittura in difesa della «nolana filosofia».
Il 21
dicembre al cospetto della Congregazione riunita, dichiarò di non volersi
pentire, di non avere di che pentirsi, di non sapere di che cosa avrebbe dovuto
pentirsi. Il 20 gennaio 1600 papa Clemente VIII decretò che l'inquisito,
quale eretico impenitente, venisse consegnato al braccio secolare; l'8 febbraio,
condotto per l'ultima volta al cospetto dei suoi giudici, ascoltò la
lettura pubblica del verdetto che condannava lui alla degradazione e alla pena
capitale, i suoi libri al fuoco. Impavido rispose: - Forse avete più
timore voi nel pronunciare la sentenza, che io nel riceverla -. Il 17 febbraio
venne condotto in Campo de' Fiori, con la lingua stretta in una morsa per
impedirgli di bestemmiare, e là, nudo, legato a un palo, venne arso
vivo.
BACONE
Contemporaneo di Keplero e Galilei e
propugnatore di un radicale rinnovamento filosofico, Francesco Bacone (nome
italianizzato di Francis Bacon, 1561-1626) non si accorse affatto del valore
rivoluzionario della battaglia che i due stavano dando a favore del
copernicanesimo. Considerava quella di Copernico una delle tante teorie
matematiche che tentavano di dare ragione dei moti planetari, ma erano incapaci
di penetrare la natura dei cieli; giudicava «un'ipotesi arbitraria» il
moto della Terra; diffidava dell'utilità «di quegli specchietti
inventati di recente» (come li chiamava), ossia del microscopio e del
telescopio, e non gli pareva che Galilei avesse tratto grandi risultati
dall'impiego del secondo come strumento di osservazione astronomica. Per uno
strano destino Bacone, il teorico dell'innovazione e del progresso,
ignorò o fraintese quasi tutto quello che di nuovo e di importante stava
succedendo nel mondo della scienza. Il che non gli impedì di avere piena
coscienza del fatto che l'Europa stava vivendo un'epoca di straordinaria
creatività intellettuale:
... Su venticinque secoli di storia
dei quali si ha memoria a mala pena se ne possono rintracciare cinque che siano
stati fruttiferi di utilità e di progressi per il sapere; ed anche questi
sono occupati per la maggior parte da altre scienze, diverse da quelle della
natura. In complesso si possono contare solo tre periodi o ritorni
nell'evoluzione del sapere: uno presso i Greci, un altro presso i Romani,
l'ultimo nei Paesi occidentali d'Europa; il resto della storia del mondo
è occupato da guerre e da studi diversi, ma, per quanto riguarda la
scienza, vi si trova solo sterilità e deserto...
L'età
che si apriva per l'Europa poteva rivaleggiare in magnificenza con l'età
classica. La grandezza degli antichi era fuori discussione, ma i moderni erano
in grado di sopravanzarla:
... Come ci aspettiamo una maggiore
esperienza umana ed una maggiore maturità di giudizio dal vecchio che non
dal giovane per il maggior numero di cose che il primo ha potuto vedere, udire,
pensare, così dalla nostra età (se essa conoscesse le sue forze e
volesse metterle alla prova) ci dovremmo aspettare di più che dalle
età antiche, come età del mondo più avanzata e
perciò arricchita ed accresciuta di infiniti esperimenti ed
osservazioni...
Bisognava però trovare il coraggio di
liberarsi dalla soggezione verso le dottrine stabilite, specialmente verso la
tradizione scolastica, da tempo isterilita, e di intraprendere la costruzione di
un nuovo sapere, affiatato con il mondo della tecnica e capace di dare
all'umanità l'effettiva padronanza della natura. Il primo passo per la
costruzione di questo nuovo sapere era, secondo Bacone, l'eliminazione dei
vecchi pregiudizi o, come li chiamava idola mentis (= «idoli della
mente»). Bacone ne distingueva quattro tipi:
1) gli idola tribus
(«della tribù») sono i pregiudizi antropocentrici, comuni a
tutto il genere umano, che nascono dalla naturale tendenza ad applicare alla
realtà schemi o criteri validi solo per l'uomo, e per esempio a trovare
significati, regolarità, simmetrie anche dove non ci sono. Di questo
tipo, dice Bacone, è il pregiudizio che vuole i moti celesti
perfettamente circolari.
2) gli idola specus («della spelonca»)
sono i pregiudizi personali di ogni uomo, che derivano dal fatto che ciascuno ha
particolari inclinazioni e interessi, e un proprio modo di ragionare, frutto
dell'educazione ricevuta, delle letture fatte, ecc. Per esempio «alcuni
ingegni sono più propensi a cogliere le differenze tra le cose, ed altri
le somiglianze»; oppure «alcuni sono presi dall'ammirazione
dell'antichità, ed altri dall'amore e dall'attrattiva della
novità». La spelonca è naturalmente il luogo simbolico
dell'errore, con evidente richiamo alla caverna di Platone (che però
stava a rappresentare la condizione umana in generale).
3) gli idola fori
(«della piazza» o «del mercato») sono le ambiguità e
le imprecisioni insite nel linguaggio (la piazza è il luogo simbolico
della comunicazione e del commercio tra gli uomini). «Gli uomini credono
che la loro ragione domini le parole, ma accade anche che le parole si prendano
la rivincita e riflettano la loro forza sull'intelletto, e questo rende
sofistiche e inattive la filosofia e le scienze». Così, «le
più grosse e gravi dispute dei dotti finiscono spesso in controversie
sulle parole e sui nomi», mentre bisognerebbe cominciare con l'esatta
definizione dei propri assunti, come fanno i matematici. Non basta però
definire le parole, «perché anche le definizioni sono fatte di
parole, e dalle parole non vengono che parole». Occorre dunque ritornare ai
fatti osservati e da questi risalire, seguendo procedure rigorose, alla
definizione degli assiomi.
4) gli idola theatri («del teatro»)
sono i pregiudizi che derivano dall'accettazione acritica dei vecchi sistemi
filosofici, come ad esempio l'aristotelismo o il tomismo insegnati nelle scuole,
i quali sono «favole», ossia rappresentazioni della realtà non
meno fantastiche e artificiose delle rappresentazioni teatrali.
...
Ma non intendiamo parlare soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle sette
filosofiche antiche, perché in effetti molte altre favole dello stesso
genere si potrebbero mettere insieme...
Il nuovo sapere dovrebbe
fondarsi, secondo Bacone, sul metodo induttivo, diverso però da quello di
Aristotele, che aveva il difetto di passare da pochi casi isolati a conclusioni
generalissime. La vera induzione deve essere un procedimento metodico, soggetto
a regole precise, e perciò controllabile. Sarà innanzi tutto
indispensabile operare un attento esame dei fenomeni compilando delle tabelle
che registrino 1) tutti i casi in cui un certo fenomeno, date certe condizioni,
si verifica («tavola delle presenze»); 2) tutti i casi in cui, in
condizioni analoghe alle precedenti, il fenomeno non si verifica («tavola
delle assenze»); 3) tutti i casi in cui il fenomeno si verifica con
maggiore o minore intensità («tavola dei gradi»).
Sulla
base di queste osservazioni sistematiche sarà possibile procedere ad una
prima «vendemmia», come la chiama Bacone, ossia alla formulazione di
una prima ipotesi capace di spiegare il fenomeno in studio. Tale ipotesi, non
deve essere un frutto arbitrario dell'immaginazione, ma rispondere a determinati
requisiti per esempio deve tener conto delle circostanze in cui il fenomeno si
presenta, per così dire, nella forma «più pura». Di
speciale interesse sono i casi che Bacone chiama «cruciali»
(instantiae crucis, che si trovano a un «crocevia» e perciò
obbligano a fare una scelta), nei quali si deve scegliere tra due o più
interpretazioni del fenomeno fra di loro incompatibili.
L'ipotesi
così formulata non è che un'ipotesi di lavoro provvisoria, che ha
la funzione di suggerire al ricercatore gli esperimenti atti a confermarla o a
smentirla o a consentirne una nuova formulazione. Questa nuova formulazione, a
sua volta, richiederà lo svolgimento di altri esperimenti e così
via sino alla determinazione esatta (sperimentalmente verificata), della
«forma» (causa o legge) del fenomeno studiato.
Un'immagine di Francesco Bacone
ESPERIMENTO E OSSERVAZIONE
Osservazione ed esperimento sono due forme
della conoscenza empirica (fondata cioè sull'esperienza) che vengono
spesso confuse, anche per le consuete ambiguità che le parole hanno nel
linguaggio comune e talvolta anche in quello filosofico.
C'è
semplice osservazione quando ci si limita a constatare fatti che accadono
spontaneamente, senza che l'osservatore possa o voglia intervenire nel loro
svolgimento. L'esperimento è invece un'osservazione provocata dal
ricercatore, il quale deve essere in grado di determinare le condizioni in cui i
fatti si svolgeranno.
C'è poi un tipo di osservazione metodica, come
ad esempio l'osservazione astronomica, che è affine all'esperimento
perché è intenzionale e programmata e può avvalersi di una
strumentazione più o meno complessa, ma che se ne distingue perché
l'osservatore non può né provocare né modificare lo
svolgimento dei fatti oggetto di studio (un astronomo non può provocare
un'eclissi, né modificarne il corso).
Osservazione metodica ed
esperimento sono sempre in funzione di una teoria: servono infatti a controllare
un'ipotesi formulata in precedenza (e cioè a sapere se è vera o
falsa) oppure a suggerire nuove idee, e formulare nuove
ipotesi.
SOCIETŔ E ACCADEMIE SCIENTIFICHE
Il Seicento è il secolo delle
società e delle accademie scientifiche, istituzioni destinate a
promuovere e a organizzare il lavoro degli studiosi fuori dagli schemi e dai
giochi di potere delle università tradizionali. Le prime società
del genere nacquero in Italia, che era ancora il Paese-guida nella vita
culturale europea. Proprio all'inizio del secolo il duca Federico Cesi aveva
fondato a Roma l'Accademia dei Lincei, di cui fece parte Galilei, ma che si
sciolse nel 1630 alla morte del suo protettore. Nel 1657 nacque a Firenze, con
la protezione del Granduca e di suo fratello, l'Accademia del Cimento
(«cimento» vuol dire esperimento, verifica, e il suo nome sottolineava
l'indirizzo prettamente sperimentale della società). Anche questa,
però si sciolse quando i suoi protettori non furono più in grado
di occuparsene. Le accademie più importanti, che potevano contare su
ingenti finanziamenti governativi e sul prestigio di grandi potenze come
l'Inghilterra e la Francia furono la Royal Society di Londra e l'Académie
des Sciences di Parigi.
La Royal Society era tutta baconiana, tratta dalla
History of the Royal Society di Thomas Sprat, pubblicata a Londra nel 1667.
Bacone era l'ispiratore della società e Carlo II il sovrano che nel 1662
diede riconoscimento ufficiale alla Società.
IL RUOLO DEGLI IDOLA
A proposito degli idola si può dire
che la ricerca scientifica non ne è mai totalmente esente. Qualche volta,
anzi, proprio gli idola forniscono agli studiosi la «spinta»
ideologica necessaria alla ricerca.
Di solito la storia della scienza viene
ricordata come un trionfale (e noioso) percorso da una scoperta all'altra, da
una verità a un'altra verità che è più vera della
precedente, e ci si dimentica delle contraddizioni, dei contrasti, dei vicoli
ciechi in cui i pensatori si sono cacciati (e si cacciano di continuo), del
carattere maniacale o delirante che spesso assume la ricerca teorica; ci si
stupisce quando si viene a sapere, per esempio, che Keplero e Galilei facevano
oroscopi per i prìncipi che li pagavano o che Newton (che era uno
studioso di ermetismo e considerava «sacra», alla maniera ermetica, la
legge della gravitazione) teneva in maggior conto la sue inutili elucubrazioni
teologiche che le leggi della sua meccanica.
Quel copernicanesimo di cui
Bacone non seppe apprezzare il valore innovativo (anche perché, forse,
aveva intuito di quanti «idoli» fosse gravato) è un buon
esempio del ruolo propulsivo che pregiudizi e strampalate immaginazioni possono
avere nella storia del pensiero. Copernico non sopportava le disarmonie e la
macchinosità dei sistemi tolemaici e riteneva il modello eliocentrico
migliore di quello geocentrico perché più bello, più
essenziale e insomma - se così si può dire «più
pulito»: una considerazione estetica che non ha evidentemente nulla a che
fare con la scienza e che tuttavia lo ha portato ad imboccare la strada giusta.
Analogamente Keplero era copernicano per amore della simmetria e perché
gli sembrava che l'universo di Copernico si conciliasse meglio di quello
tolemaico con la concezione, di derivazione pitagorico-platonica, di un Dio
grande geometra e grande matematico, «architetto» del mondo e garante
dell'armonia cosmica. Nella sua prima opera, Mysterium cosmographicum
(già il titolo la dice lunga sulla natura della speculazione kepleriana),
Keplero giustificava il suo copernicanesimo sfoggiando un'intera collezione di
quelli che Bacone chiamava «idoli della tribù»:
...
Perché il mondo fosse il migliore ed il più bello [...]
l'onnisciente Creatore ha ideato la grandezza e la quantità, di cui tutta
l'essenza è praticamente racchiusa nella distinzione dei due concetti di
retta e di curva. [...] Alla forma sferica, trattandosi di una quantità
affatto particolare, può attribuirsi solo il numero tre. Se dunque Dio,
nella creazione, avesse posto attenzione solo alla curva, nel nostro edificio
dell'Universo non vi sarebbe nient'altro che il Sole nel centro, immagine del
Padre, la sfera delle stelle fisse [...], immagine del Figlio, e l'etere celeste
che tutto riempie [...], immagine dello Spirito Santo. Ma poiché vi
è una quantità innumerevole di stelle fisse, mentre ve ne è
una ben determinata di pianeti, e poiché le singole orbite celesti sono
diverse per grandezza, noi dobbiamo necessariamente ricercare le cause di tutto
ciò nel concetto di retta. [...] Tra le quantità rette i corpi
sono le più perfette e constano di tre dimensioni. [...] Se fra i corpi
[consideriamo] solo quelli le cui superfici laterali sono equilatere ed
equiangole, ci rimangono solo quei cinque corpi regolari ai quali i Greci han
dato i nomi di cubo o esaedro, piramide o tetraedro, dodecaedro icosaedro e
ottaedro. [...] Non è qui il luogo di esaminare perché i pianeti
si muovano [...]. Posto però che i pianeti abbisognano del moto, ne segue
che, perché possano conservarlo, devono avere orbite rotonde. Giungiamo
quindi alle orbite circolari attraverso il moto, ed ai corpi attraverso il
numero e la grandezza. Cosa altro ci rimane da dire, se non ripetere con Platone
che Dio opera sempre geometricamente ed ha inscritto, nel costruire i pianeti, i
corpi ai cerchi e i cerchi ai corpi finché non c'era più un corpo
che non fosse corredato all'interno e all'esterno di cerchi mobili? [...] Se i
cinque corpi vengono incastrati gli uni negli altri e si appongono dei cerchi
sia tra un corpo e l'altro, sia all'esterno come chiusura, otteniamo esattamente
il numero di sei cerchi. [...] Ora Copernico postula proprio sei orbite di
questa specie, che stanno tra loro a due a due in rapporti tali che quei cinque
corpi vi si adattano in modo perfettissimo [...]. Perciò si deve dare
ascolto a Copernico...
In sostanza Keplero intendeva dire che gli
intervalli tra le sfere dei pianeti sono occupati dai solidi regolari e che,
poiché i solidi regolari sono solo cinque, i pianeti non possono essere
più di sei. Keplero immaginava che la sfera di Saturno fosse circoscritta
al cubo, il cubo alla sfera di Giove, la sfera di Giove al tetraedro, e
così via. Non si trattava di una fantasia giovanile: il Mysterium
cosmographicum pubblicato nel 1596 fu ripubblicato con poche varianti nel 1621;
d'altra parte una teoria molto simile compariva nell'Harmonices Mundi
(Dell'armonia del mondo) del 1619.
L'Harmonices Mundi è l'opera in
cui è enunciata la terza delle leggi sul moto planetario è
intitolata così perché Keplero riteneva che tale legge esprimesse
il rapporto «armonico» (non in senso metaforico, ma proprio in senso
tecnico, musicale) tra la velocità dei pianeti all'afelio e al perielio:
per Saturno si sarebbe trattato di terza maggiore, per Giove di terza minore, e
così via. Diciamo la verità: chi potrebbe ragionevolmente
rimproverare a Bacone di aver diffidato dei copernicani?
[Figura: Foglio di
un manoscritto autografo di Galilei. In alto è riprodotto l'aspetto della
luna vista al cannocchiale con montagne, crateri, valli ossia con tutte quelle
caratteristiche «terrestri» che stavano a dimostrare come la
diversità di natura ipotizzata dagli antichi tra la Terra e i corpi
celesti non avesse alcun fondamento. In basso è invece l'abbozzo di un
oroscopo che Galilei redisse con il Granduca. Fare oroscopi era tra i compiti
istituzionali dei matematici e degli astronomi di corte (anche Keplero ne
faceva) e per tutto il Seicento le predizioni degli astrologi continuarono ad
avere un notevole peso sulla vita politica, sociale e culturale]
Foglio di un manoscritto autografo di Galilei
L'UNIVERSO È UNA MACCHINA?
La filosofia, aveva detto Galileo, sta
scritta nel libro dell'universo. Ciò significava che le verità
naturali vanno ricercate nell'esperienza, non nelle elucubrazioni dei filosofi.
Il libro dell'universo, però, aveva precisato Galilei, non si può
intendere se non si intende la lingua in cui è scritto, che è
lingua matematica. Che cosa significava questa precisazione? Il mondo che ci
circonda non sembra per nulla fatto di triangoli, quadrati o cerchi, ma di cose
tutte diverse tra loro e non tutte esprimibili in numeri. Una pera è una
pera, non una figura geometrica; possiamo misurarne il volume o il peso, ma
ciò non ci dice nulla sul suo sapore. Di una pittura possiamo misurare
l'altezza e la larghezza e magari possiamo determinare la quantità di
colore impiegata per realizzarla, ma nessun calcolo potrà dirci se
è bella o brutta. Le determinazioni quantitative insomma, non riescono ad
esprimere gli oggetti con quella pienezza di caratteri con la quale essi ci
appaiono nell'esperienza.
In compenso le determinazioni quantitative non
danno adito a dubbi o incertezze. Sulla bontà della pera o sulla bellezza
della pittura, invece, ciascuno può dare valutazioni diverse
giacché non esistono criteri oggettivi per decidere in un senso o in un
altro. La lettura matematica dell'universo è allora innanzi tutto un modo
per distinguere nel complesso mondo della nostra esperienza ciò che
è oggetto indubitabile di conoscenza da ciò che è oggetto
soltanto di opinione e di valutazione soggettiva. Robert Boyle (1627-1691), uno
dei fondatori della chimica moderna, avrebbe chiamato primarie le qualità
suscettibili di misura e secondarie le altre.
Questa distinzione ricorda
molto da vicino quella che era stata tracciata duemila anni prima dagli antichi
atomisti, per i quali le sole differenze reali tra i corpi erano quelle
riguardanti la forma, la grandezza, la posizione nello spazio e nel tempo,
laddove le differenze relative agli odori, ai sapori, ecc. non potevano essere
attribuite che alla sensibilità di chi le avvertiva. Anche la visione
generale del mondo propria delle nuove correnti scientifiche era molto simile a
quella costruita dagli antichi atomisti. Negli anni Venti del Seicento Galileo
aveva trattato della materia come di un aggregato di corpuscoli e il francese
Pierre Gassendi (1592-1655) aveva apertamente rimesso in circolazione le
dottrine di Democrito e di Epicuro cercando (con qualche fatica) di depurarle di
tutti gli elementi che nel corso dei secoli le avevano associate all'ateismo.
Spogliata d'ogni determinazione non quantitativa, la realtà risultava
costituita soltanto da corpi materiali e da forze meccaniche, e l'Universo nel
suo complesso appariva come una grande macchina.
Nonostante le somiglianze,
però, tra il corpuscolarismo moderno e l'atomismo antico c'era una
sensibile differenza. Negli antichi atomisti l'immagine meccanicistica
dell'universo si fondava sull'analogia tra fenomeni naturali e fenomeni
meccanici, e naturalmente era sempre possibile adottare analogie diverse e
magari più convincenti. Aristotele, ad esempio, aveva interpretato
l'insieme dei fenomeni naturali in analogia all'insieme dei fenomeni biologici
(aveva cioè considerato l'universo fisico più simile a un
organismo vivente che a una macchina) e per duemila anni questa visione era
apparsa più convincente di quella di Democrito e di Epicuro. Negli
scienziati del Seicento, invece, la visione meccanicistica dell'universo non si
fondava solo su analogie e quindi non poteva esser combattuta semplicemente
sulla base di un diverso sistema di analogie: era il risultato più
probabile di una lettura matematica dell'esperienza. Si poteva rifiutare questo
genere di lettura (e ciò significava rifiutare l'unico vero metodo
scientifico che la cultura del tempo conoscesse); ma se lo si accettava, era
necessario accettare anche la conclusione a cui portava: l'universo fisico
è una macchina.
Dall'universo fisico il modello meccanicistico
poteva essere esteso a tutta la realtà, e in primo luogo al mondo
organico e poi a quello psichico. Cartesio (nome italianizzato del francese
René Descartes, 1596-1650) considerava gli animali macchine viventi,
anche se faceva eccezione, per ovvi motivi di prudenza, per l'uomo; quanto ai
fenomeni psichici li considerava manifestazioni di una res cogitans = sostanza
pensante) che, secondo il tradizionale dualismo anima/corpo, affiancava alla
materia (definita res extensa, ossia sostanza estesa). Un secolo più
tardi Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) provò ad estendere il
meccanicismo cartesiano all'uomo, e a ricondurre anche i fenomeni psichici a
processi materiali e corporei (Storia naturale dell'anima, 1745; L'uomo-macchina
1748), ma dovette fuggire per mezza Europa per sottrarsi alle persecuzioni che
le sue teorie gli avevano attirato e cercare riposo sotto la protezione di un re
mezzo filosofo.
La riduzione dei fenomeni biologici (e poi di quelli
psichici) ai due soli principi ipotizzati dal meccanicismo, materia e movimento,
era in Cartesio e in La Mettrie un ritorno alle escogitazioni metafisiche
fondate su semplici analogie. Il modello della macchina poteva trovare qualche
conforto nell'esperienza: la scoperta della circolazione del sangue, ad esempio,
permetteva di interpretare la funzione di questo nobile «umore», che
la tradizione aveva caricato di valori simbolici, nei termini di un banale
impianto idraulico, con tanto di pompe, canali, valvole, ecc. Anche qui
però non si trattava che di un'analogia. Da un punto di vista
sperimentale era evidente la debolezza delle ipotesi meccanicistiche in biologia
(e a maggior ragione in psicologia); lo stesso La Mettrie, del resto, dopo aver
ridotto i fenomeni biologici e psichici a modificazioni della materia, aveva
finito per attribuire qualche forma di vita e di psichismo (la capacità
di sentire) alla materia stessa.
Anche alla scoperta della circolazione del
sangue si era giunti per una strada affatto diversa ed anzi opposta a quella
delle suggestioni meccanicistiche. Alla sua origine c'è addirittura un
teologo, quel Michele Serveto (nome italianizzato dello spagnolo Miguel Servet)
che, nella follia degli opposti fanatismi religiosi, l'eretico Calvino fece
morire sul rogo a Ginevra nel 1553 sotto l'accusa (c'è da dirlo?) di
«eresia». Nell'opera Christianismi Restitutio, che lo portò al
rogo, Serveto combatteva il dogma della Trinità in nome di un dogma
altrettanto incomprensibile, ed enunciava l'idea della circolazione polmonare
del sangue, ossia del passaggio del sangue dal ventricolo destro al ventricolo
sinistro attraverso i polmoni.
Come mai un teologo era interessato alla
circolazione del sangue? e che cosa c'entrava la circolazione del sangue con la
Trinità e lo Spirito Santo? Serveto era medico e aveva lavorato con il
grande anatomista Andrea Vesalio (1514-1564), che si era occupato, tra l'altro,
proprio del cuore. Ma la ragione del suo interesse era teologica e legata
appunto a quell'insieme di valori simbolici che erano tradizionalmente associati
al sangue. La Scrittura identifica sangue, anima e vita: anima est in sanguine
(l'anima sta nel sangue) si legge in Levitico, 17, 11; anima ipsa est sanguis
(l'anima stessa è sangue) è scritto in Deuteronomio, 12, 23.
Esplorare la formazione dell'anima significava dunque esplorare la formazione
del sangue e studiare il sangue significava studiarne il moto. L'anima è
vita nel senso che presiede al funzionamento degli organismi viventi e questo
suo governo si esercita, come insegnava il famoso medico parigino Jean Fernel
(1497-1558), per mezzo degli «spiriti», intermediari tra anima e
organi corporei, distinti in naturali (presiedono alle funzioni della nutrizione
e dell'accrescimento), vitali (presiedono al moto del sangue, ai battiti del
polso e alla respirazione) e animali (presiedono alle attività muscolari
e alla sensibilità). Per Serveto lo spirito vitale era una miscela di
sangue e aria, che avveniva durante l'inspirazione, e quello che gli interessava
era appunto il rapporto sangue-aria, che, poiché, come scriveva, «lo
spirito di Dio è nell'aria», non era altro, in fondo, che il
rapporto uomo-Dio. Passando nei polmoni, dunque, il sangue si purificava, si
riempiva di alito divino: «Come Dio rende vermiglio il sangue per mezzo
dell'aria, così Cristo fa ardere lo Spirito».
Anche gli altri
studiosi che si occuparono della circolazione del sangue avevano poco o nulla a
che fare con il meccanicismo. Andrea Cesalpino (1519-1603) che usò per
primo il termine «circolazione» e che osservò il flusso del
sangue nelle vene, confermando che esso era diretto verso il cuore e non ne
proveniva, così come Fabrizio di Acquapendente (1533-1619), che
studiò il funzionamento delle valvole venose, erano aristotelici.
È lo stesso William Harvey (1578-1657), allievo di Fabrizio di
Acquapendente, che arrivò a dimostrare definitivamente la circolazione
del sangue, non era certo un meccanicista preconcetto, né lo divenne dopo
la sua scoperta. Accettando la tesi della corrispondenza tra microcosmo (l'uomo)
e macrocosmo (l'universo), assimilava la funzione del cuore a quella del Sole,
come del resto avevano già fatto Serveto, Paracelso e Giordano
Bruno:
... Il cuore è l'inizio della vita; è il Sole
del microcosmo, come il Sole potrebbe benissimo essere chiamato a sua volta
«cuore del mondo». [...] Il cuore è la divinità
domestica che, esplicando la sua funzione, nutre, vivifica e stimola l'intero
corpo. [...] Il cuore, come il principe di un regno, nelle cui mani sta la prima
e più alta autorità, governa su tutto; esso è la fonte
primaria e il fondamento da cui, nel corpo umano, deriva ogni
potere...
CARTESIO E I VORTICI
Determinismo e meccanicismo non erano legati
necessariamente ed esclusivamente al corpuscolarismo, ossia all'ipotesi di una
materia fatta di atomi. Contemporanea a quelle di Galilei e di Gassendi, anche
la fisica di Cartesio dava un'interpretazione rigorosamente meccanicistica della
realtà pur negando uno degli assunti fondamentali dell'atomismo, ossia
l'esistenza del vuoto.
L'ambizione di Cartesio era di costruire un nuovo
grande sistema filosofico che sostituisse la filosofia delle scuole,
conservandone però la struttura: un sistema onnicomprensivo, dove ogni
cosa trovasse spiegazione (proprio come nelle Summae scolastiche) per via di
deduzione da alcune incontrovertibili verità elementari. Vedremo in
seguito come Cartesio pensava di stabilire queste verità; per ora basti
dire che invece delle infinite qualità e delle forme sostanziali della
vecchia Scolastica, Cartesio ammetteva nella spiegazione delle realtà
corporee tre soli principi: l'estensione, la figura e il
movimento.
L'estensione è ciò che resta della materia quando
la si spoglia di ogni qualità sensibile (odori, sapori, colori, ecc.). Ma
l'estensione, secondo Cartesio, è infinita (o piuttosto indefinita, nel
senso che non le si possono assegnare confini) e riempie tutto lo spazio.
Nell'Universo, dunque, non c'è vuoto e non ci sono atomi. Questa infinita
sostanza estesa di Cartesio era, però, per così dire,
«parcellizzata», costituita, cioè, da tante particelle
strettamente aderenti le une alle altre, ma libere di muoversi. Senonché
nel pieno (come già accadeva nella teoria aristotelica, che negava
anch'essa l'esistenza del vuoto) il movimento di una particella è
possibile solo se tutte le particelle si muovono contemporaneamente in circolo:
ogni particella spinge quella che le sta davanti e ne prende il posto
finché la spinta viene restituita alla prima particella, il cui posto
è occupato da quella che le sta dietro.
Con queste correnti
circolatorie, o vortici, Cartesio si sforzava di spiegare qualsiasi
movimento.
Poiché Cartesio accettava le leggi del moto che la
scienza sperimentale era venuta definendo, in pratica il risultato era lo
stesso. La differenza stava nel fatto che mentre per Galilei (e poi per Newton)
lo scopo della ricerca era di formulare leggi rigorose a partire dai fenomeni
(ossia induttivamente) e di qui eventualmente risalire alle cause, per Cartesio
l'importante era stabilire prima di tutto le cause dei fenomeni e poi dedurre da
queste le leggi.
Di Galilei e delle sue tesi sulla caduta dei gravi
Cartesio nel 1638 scriveva:
... Tutto quel che dice sui corpi che
cadono nel vuoto e costruito senza fondamento; perché avrebbe dovuto
prima determinare che cosa sia la pesantezza e se ne avesse saputo la
verità, saprebbe che non è niente nel vuoto...
La
spiegazione del moto di caduta, secondo Cartesio, andava cercata, naturalmente,
nei vortici di materia.
Coerentemente alla sua negazione del vuoto,
Cartesio respingeva l'idea di possibili azioni a distanza. Per Cartesio,
cioè, come per Aristotele, ogni azione tra corpi doveva avvenire per
contatto. Le conseguenze di questo assunto (sbagliato) si fecero ancora sentire
alla fine del secolo nelle resistenze opposte dai cartesiani alla teoria della
gravitazione universale di Newton (che forniva un tipico esempio di azione a
distanza).
KEPLERO E NEWTON
Isaac Newton (1642-1727) studiò al
Trinity College di Cambridge ed ebbe come insegnante di matematica Isaac Barrow
(1630-1677) che nel 1669 gli avrebbe ceduto spontaneamente la cattedra. Nel 1671
entrò a far parte della Royal Society, di cui divenne presidente nel
1703. Nel 1687 pubblicò i Philosophiae naturalis principia matematica, a
cui nel 1713, in occasione della seconda edizione, aggiunse lo Scolio generale.
L'Ottica, che coronava decenni di ricerche, fu invece pubblicata da Newton solo
nel 1704 per non rinnovare le polemiche che erano sorte quando aveva reso
pubblici i primi risultati dei suoi studi.
Tra Cinque e Seicento gli
assunti cosmologici tradizionali relativi alla posizione della Terra al centro
dell'Universo e alla circolarità dei moti celesti erano andati lentamente
sgretolandosi anche in forza dei progressi dell'osservazione astronomica, che ne
rendevano sempre più evidente l'inadeguatezza. Keplero li aveva
abbandonati entrambi mettendo (come Copernico e Galilei) il Sole al centro
dell'Universo e supponendo (a differenza di Copernico e di Galilei) che le
orbite dei pianeti intorno al Sole fossero ellittiche anziché circolari.
keplero aveva però mancato il suo obiettivo più ambizioso: la
costruzione di una fisica celeste fondata su rigorose spiegazioni
causali.
Le leggi di Keplero, infatti, descrivevano con un alto grado di
precisione il moto dei pianeti intorno al Sole, ma non costituivano una teoria
generale: si presentavano slegate l'una dall'altra, erano particolari e limitate
(ossia erano applicabili al solo moto dei pianeti) e soprattutto sembravano
strane e complicate, perché non si conosceva alcuna causa fisica che le
giustificasse. Del sistema kepleriano si poteva dire: «D'accordo, il mondo
è fatto così; ma perché così?» La differenza
tra Newton e Keplero sta tutta qui: Newton è riuscito a dare una risposta
a questa domanda.
Il passaggio dalle leggi di Keplero, che costituiscono
una interpretazione puramente matematica dei moti planetari, alla teoria della
gravitazione universale, che ne è, invece, una spiegazione fisica,
è stato reso possibile dalla formulazione da parte di Newton dei principi
fondamentali della meccanica. Il primo principio (o principio di inerzia) fu
enunciato da Newton in questi termini:
... ogni corpo persevera nel
suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto
a mutare il suo stato da forze impresse...
Che un corpo in quiete
resti fermo finché non esercitiamo su di esso una qualche azione è
del tutto evidente e lo aveva detto anche Aristotele. Ma che un corpo in
movimento lasciato a se stesso mantenga indefinitamente la stessa
velocità e la stessa direzione non è altrettanto evidente e
Aristotele lo aveva negato recisamente: per lui un corpo restava in moto
finché c'era un motore che lo spingeva e quando cessava l'azione del
motore doveva cessare anche il moto. Anche la nostra esperienza ci dice che se,
per esempio, lanciamo una boccia su un piano essa non mantiene indefinitamente
il suo moto, ma rallenta e alla fine si ferma. Il fatto è che la boccia
nella sua corsa non è libera ma soggetta all'attrito del terreno e, in
minor misura, alla resistenza dell'aria: su di essa, dunque, anche se non ce ne
rendiamo conto, si esercitano delle forze che la rallentano. Se potessimo
levigare il piano su cui rotola, la boccia manterrebbe più a lungo la sua
corsa, e se riuscissimo a eliminare del tutto attriti e resistenze,
continuerebbe a rotolare per un tempo indefinito e sempre con la stessa
velocità. Come Newton riconobbe esplicitamente, era stato merito di
Galilei aver formulato per primo e con chiarezza questo enunciato.
Dal
principio di inerzia si ricava una definizione della nozione di forza, che
Newton chiamava «forza impressa» per distinguerla dalla forza
d'inerzia, che è «insita» nella materia. Se l'inerzia è
la forza che mantiene il corpo nel suo stato di quiete o di moto rettilineo
uniforme, la forza (impressa) è ogni azione in grado di cambiare lo stato
di quiete o di moto rettilineo uniforme di un corpo. La forza, dunque, non
è la causa del moto (come era il motore di Aristotele), ma la causa della
variazione di moto (o accelerazione), che può consistere o in un
cambiamento di velocità o in un cambiamento di direzione o in un
cambiamento di velocità e di direzione insieme. Anche di questo si era
già accorto Galileo. Newton precisò l'intuizione di Galileo nel
secondo principio della meccanica (o principio della forza) che
dice:
... il cambiamento di moto (accelerazione) è
proporzionale alla forza ed avviene nella direzione in cui la forza è
stata impressa...
Il principio d'inerzia, ossia il primo dei principi
enunciati da Newton, non è che un caso particolare (un caso-limite) del
secondo: definisce infatti la situazione che si determina quando la forza
impressa (e quindi l'accelerazione) è uguale a zero. Il terzo principio
(o principio di azione e reazione) è stato formulato da Newton
così:
... ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e
contraria: ossia le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e dirette
in senso contrario...
Se qualcuno preme una pietra col dito -
spiegava Newton -, il suo dito è premuto dalla pietra. Se un cavallo
trascina una pietra legata con una fune, anche il cavallo è, per
così dire, trascinato verso la pietra, e la fune stessa, tesa tra i due,
spinge tanto il cavallo verso la pietra quanto la pietra verso il cavallo. Sono
esempi di reazione sia il rinculo delle armi da fuoco, che si spostano in senso
opposto a quello in cui è stato sparato il proiettile, sia il moto dei
razzi o degli aerei che si dicono, appunto, «a
reazione».
Apparentemente questi tre principi hanno poco a che fare
con le leggi di Keplero, che, come si ricorderà, affermano
che
I) le orbite descritte dai pianeti sono ellissi, di cui il Sole
occupa uno dei fuochi;
II) le aree descritte dal raggio che congiunge
il Sole con un pianeta sono proporzionali ai tempi impiegati a
percorrerle;
III) i quadrati dei tempi di rivoluzione di due pianeti
sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle rispettive
orbite.
Fino a Newton la considerazione in cui erano tenute le leggi
di Keplero negli ambienti scientifici non era priva di riserve: tra l'altro non
erano affatto accettate come «leggi», ma solo come
«ipotesi». Tra le tre, poi, la seconda, quella delle aree, era la meno
nota e la meno apprezzata: in genere per calcolare le posizioni dei pianeti gli
astronomi preferivano ricorrere ad altre regole e ad altri modelli matematici.
Fu invece proprio da questa legge che Newton prese le mosse per la sua analisi
dei moti planetari. Vediamo come.
Un corpo che si muove di moto rettilineo
e uniforme percorre in tempi uguali intervalli uguali. Prendiamo un punto P
esterno alla linea del moto: i triangoli formati unendo il punto P con gli
estremi degli intervalli segnati sulla linea (A
0, A
1,
A
2, A
3, ecc.) hanno aree uguali perché hanno basi e
altezze uguali. Supponiamo ora che, arrivato in A
2, il corpo riceva
un impulso in direzione di P e che pertanto, invece di proseguire in linea retta
verso A
3, si muova verso un punto B
3 tale che il triangolo
A
2 P B
3 abbia la stessa area del triangolo A
1 P
A
2. Se al termine di ogni intervallo il corpo ricevesse un analogo
impulso verso P (tale che ogni nuovo triangolo avesse la stessa area del
triangolo precedente), il corpo descriverebbe intorno a P una traiettoria
poligonale. E se il corpo fosse soggetto continuamente a una forza centripeta
(diretta cioè verso P), ossia se gli intervalli tra due impulsi
successivi tendessero a 0, la traiettoria poligonale diventerebbe una curva
continua nella quale, proprio come recita la seconda legge di Keplero, le aree
descritte dal raggio che unisce il centro del sistema al corpo in movimento
sarebbero proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle.
Analisi dei moti planetari
Insomma, concludeva Newton, l'azione di una
forza centripeta genera un moto che obbedisce alla legge kepleriana delle aree;
viceversa, il moto di un corpo che, percorrendo una ellisse, obbedisca alla
legge delle aree implica necessariamente l'esistenza di una forza centripeta. Il
moto dei pianeti descritto da Keplero doveva, allora, essere spiegato in termini
fisici come risultato di due componenti: la forza d'inerzia, da un lato, che
tende a far perseverare il pianeta nel suo moto rettilineo uniforme, ossia a
farlo muovere sulla retta tangente all'orbita, e, dall'altro, la forza
centripeta (l'attrazione esercitata dal Sole), che lo fa deviare dalla
traiettoria inerziale (rettilinea) e lo mantiene su un'orbita ellittica. Quando
le due componenti del moto sono in equilibrio il pianeta non può
né fuggire per la tangente né cadere sul Sole: l'orbita planetaria
è stabile.
Newton s'accorse presto però che le leggi di
Keplero si potevano considerare vere solo in un sistema a due corpi,
«pressoché inesistente» nella realtà: un sistema,
cioè, costituito soltanto da un corpo attratto (il pianeta) e da un
centro immobile di attrazione (il Sole). Per il principio di azione e reazione,
invece, l'attrazione Sole/pianeta doveva essere considerata come un'azione
reciproca (la Terra esercita sul Sole un'attrazione uguale a quella che il Sole
esercita sulla Terra); ma di due corpi che si attraggono reciprocamente nessuno
può dirsi propriamente «immobile» perché entrambi
orbitano intorno al loro centro comune. In più il sistema solare è
costituito, oltre che dal Sole, da una quantità di pianeti, di satelliti,
di comete e si deve presumere che le forze attrattive agiscano tra tutti questi
corpi in una complicata rete di azioni e reazioni.
La conseguenza è
che nessun pianeta si muove davvero su una ellisse o percorre due volte la
stessa orbita: per ogni pianeta ci sono tante orbite quante sono le sue
rivoluzioni intorno al Sole e ciascuna di esse dipende dalla variabile
combinazione delle forze di attrazione esercitate da tutti i corpi del sistema.
Quello di Keplero, in conclusione, era un modello semplificato e parziale del
moto planetario, utile per analizzare da un punto di vista matematico i moti
reali dei pianeti, ma di gran lunga inadeguato ad esprimere la
complessità delle forze fisiche operanti nel sistema
solare.
LA GRAVITAZIONE UNIVERSALE
L'identificazione della causa del moto dei
corpi celesti con la forza di gravità che sulla superficie terrestre
agisce su ogni corpo e lo rende pesante, e cioè l'unificazione definitiva
della fisica celeste e della fisica terrestre in un'unica teoria, è una
delle più straordinarie e ardite speculazioni del pensiero umano. Questa
eccezionale impresa porta il nome di Isaac Newton, ma è stata resa
possibile dal lavoro di centinaia di studiosi che lo avevano preceduto e di
moltissimi altri suoi contemporanei, alcuni dei quali, a torto o a ragione, gli
hanno apertamente conteso il merito della scoperta.
Senza togliere nulla al
genio di Newton, si può ben dire che la sua teoria «era
nell'aria», e non solo per quanto riguarda genericamente l'idea di
attrazione reciproca (proposta più volte anche in analogia ai fenomeni
magnetici), ma anche per quanto riguarda più in particolare la misura
della forza di attrazione. Dalla terza legge di Keplero era infatti possibile
dedurre che, se il Sole esercita un'attrazione sui pianeti, la forza di questa
attrazione deve essere inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
D'altra parte da Galilei in poi erano ben note le leggi che regolano la caduta
dei gravi e il moto dei proiettili. Quello che restava da fare era intuire e poi
dimostrare mediante il calcolo la sostanziale coincidenza di queste leggi,
verificate sperimentalmente sulla superficie terrestre, con quelle che regolano
l'attrazione tra i corpi celesti.
Una nota leggenda attribuisce la scoperta
del rapporto tra gravità e attrazione celeste ad una intuizione
improvvisa che sarebbe balenata alla mente di Newton nel 1666. Una sera, mentre
Newton se ne stava tranquillamente a riposare sotto un melo, un frutto si
staccò dall'albero e finì in terra. Newton alzò lo sguardo
e vide brillare la Luna tra i rami. - Perché la Luna non cade? - si
domandò. E qui ebbe l'illuminazione: anche la Luna, proprio come la mela,
cade verso la Terra! E infatti, se la Luna non «cadesse», ossia se non
piegasse ogni momento il suo corso verso la Terra, dovrebbe allontanarsi per la
tangente AB. Quando la Luna si sposta sulla sua orbita da A a C si può
ben dire che sia caduta del tratto BC (vedi fig.). L'aneddoto è
probabilmente falso: tra l'altro nel 1666 Newton non aveva che ventiquattro
anni, mentre la teoria della gravitazione, che ha avuto bisogno di altri
vent'anni di faticosa gestazione, è stata un prodotto della sua piena
maturità intellettuale. Ma il suo significato complessivo è
esatto: il merito di Newton sta appunto nell'aver assimilato il moto della mela
e quello della Luna.
La teoria di Newton sulla gravitazione universaleLa legge della gravitazione universale nella sua
formulazione corrente suona:
... due masse qualsiasi puntiformi si
attirano con forza proporzionale alle masse stesse e inversamente proporzionale
al quadrato della loro distanza...
Nell'enunciato della legge della
gravitazione universale può sorprendere la parola «puntiformi».
Nessuno dei corpi di cui abbiamo esperienza ha propriamente la forma di un
punto, è, cioè, assolutamente privo di dimensioni; il Sole e i
pianeti, poi, non solo non sono affatto privi di dimensioni, ma hanno dimensioni
grandissime. Quell'espressione sta a indicare che una sfera di materia, per
quanto grande sia, attrae i corpi che si trovano fuori di essa come se tutta la
massa fosse concentrata nel suo centro. Questa tesi (dimostrabile
matematicamente con il calcolo differenziale e integrale, a cui Newton ha dato
l'avvio con il suo calcolo delle flussioni) ha avuto un ruolo decisivo nella
scoperta newtoniana. Se la Terra agisce sulla mela che si stacca dall'albero
come se tutta la sua massa fosse concentrata al centro, la distanza della mela
dalla Terra non è data dalla sua altezza dal suolo, ma dal raggio
terrestre, e l'esatta determinazione della lunghezza del raggio terrestre
è la condizione necessaria per confrontare l'accelerazione di
gravità della mela e l'accelerazione centripeta della Luna. Questa misura
fu effettivamente fornita dall'astronomo francese Jean Picard nel 1682.
Pressappoco nello stesso tempo Newton cominciava a lavorare alla formulazione
definitiva della teoria della gravitazione che nel 1687 avrebbe trovato posto
nei Principia mathematica.
La teoria di Newton sulla gravitazione universale
URANO, NETTUNO, PLUTONE
La teoria della gravitazione universale di
Newton ha permesso un tipo di previsione astronomica del tutto nuovo: non
più l'attesa di qualche cosa che era già stato visto altre volte
in cielo, ma la previsione dell'esistenza di qualcosa che non si era mai
visto.
Le orbite dei pianeti sono governate soprattutto dall'attrazione del
Sole, ma risentono in misura minore e nei loro aspetti di dettaglio anche delle
attrazioni combinate di tutti gli altri corpi che formano il sistema solare. Nel
1781 l'astronomo anglotedesco William Herschel (1738-1822) aveva scoperto con il
telescopio un settimo pianeta, normalmente invisibile ad occhio nudo, che si era
aggiunto ai sei già noti dall'antichità (Mercurio, Venere, Terra,
Marte, Giove e Saturno) e al quale era stato dato il nome di Urano. L'orbita di
Urano era un po' strana e non corrispondeva esattamente a quella calcolabile
secondo le equazioni di Newton e sulla base dell'attrazione gravitazionale del
Sole e dei pianeti allora noti. Alcuni scienziati pensarono che queste anomalie
potessero essere effetto dell'attrazione di un pianeta ancora
sconosciuto.
Tra il 1845 e il 1846, prima l'inglese John Couch Adams
(1819-1892) e poi il francese Urbain Le Verrier (1811-1877) ne calcolarono,
indipendentemente l'uno dall'altro, la massa e l'orbita. I calcoli di Adams
restarono per il momento noti soltanto a un ristretto gruppo di scienziati. Le
Verrier, invece, pubblicò nel giro di qualche mese ben tre memorie
sull'argomento. Poiché il nuovo pianeta non poteva essere visto da
Parigi, Le Verrier si rivolse all'osservatorio di Postdam, a Berlino, che
effettivamente, il 23 settembre 1846, a meno di un grado di distanza dal punto
indicato, lo individuò. All'ottavo pianeta del sistema solare venne dato
il nome di Nettuno.
Era il trionfo delle teorie newtoniane, anche se, in
verità, a Newton qualche irregolarità nel suo cielo non dispiaceva
affatto, giacché era l'unica cosa che rendeva plausibile la sua ipotesi
dell'esistenza di Dio. La scoperta produsse una comprensibile emozione non solo
nel mondo scientifico, ma anche tra il grande pubblico, il cui interesse non
mancò di essere ulteriormente eccitato dalla contesa per la
priorità della scoperta tra Adams e Le Verrier, che ricordava altre e
più gravi contese tra la Francia e l'Inghilterra.
L'unico che non
volle mai mettere l'occhio al telescopio per vedere il nuovo pianeta, fu proprio
Le Verrier: gli bastava, diceva, averlo calcolato, anche se Adams, rivendicando
una priorità che non era servita a niente, gliene aveva guastato
irrimediabilmente il piacere.
La presenza di Nettuno, comunque, non
bastò a spiegare per intero le anomalie di Urano.
Sul finire
dell'Ottocento si tornò dunque a prevedere l'esistenza di un nono pianeta
e l'americano Percival Lowell (1855-1916) negli ultimi anni della sua vita
dedicò buona parte del suo tempo e di quello dei suoi collaboratori alla
sua identificazione. Appunto un astronomo dell'osservatorio Lowell, Clyde
Tombaugh, riuscì a individuare, non prima però del 1930, il nuovo
pianeta, a cui venne dato il nome di Plutone.
INERZIA E MASSA
Il latino iners, da cui vengono inerte e
inerzia, è composto di in privativo e di ars- «arte»:
significava propriamente «senz'arte», e cioè
«inabile», «inetto», «pigro»,
«svogliato» e simili. In italiano inerzia indica genericamente
qualsiasi forma di passività: la mancanza di iniziativa, di movimento, di
energia, ecc. In senso tecnico (che è poi il senso in cui ne parlava
Newton) la forza d'inerzia è la resistenza opposta da un corpo alla forza
esterna che tende a modificarne lo stato di quiete o di moto rettilineo
uniforme, ossia la tendenza del corpo a restare nello stato di quiete o di moto
rettilineo uniforme in cui si trova.
Se diamo un colpetto con un dito ad
una biglia di vetro, questa si metterà in moto e proseguirà per un
certo tratto fino a quando non tornerà a fermarsi per effetto
dell'attrito del terreno. Se diamo lo stesso colpo ad una boccia di metallo o di
legno, otterremo un effetto analogo, ma meno sensibile: le forze di attrito
riusciranno a fermare la boccia molto prima. Poiché abbiamo esercitato un
impulso uguale su entrambe (abbiamo cioè impiegato la stessa forza)
bisogna concludere che la boccia oppone alla nostra azione una resistenza
maggiore della biglia. Si dice che la boccia «ha una inerzia maggiore»
della biglia: l'inerzia è infatti il rapporto tra la forza applicata e
l'accelerazione impressa al corpo ed esprime la tendenza di un corpo a
conservare invariata grandezza e direzione del moto.
L'inerzia di un corpo
è uguale alla sua massa (dal greco màza = «pasta»,
«focaccia») o, come anche diceva Newton, alla sua quantità di
materia (che è il prodotto della densità per il volume).
La
massa dunque si può definire come «coefficiente d'inerzia»
secondo la formula (corrispondente al secondo principio di Newton o
«principio della forza»):
F = madove F
è la forza impressa, m la massa e a l'accelerazione. Da questa massa
inerziale si deve tenere concettualmente distinta la massa gravitazionale alla
cui esistenza Newton attribuiva il fenomeno della gravitazione
universale.
Massa inerziale e massa gravitazionale sono però
numericamente identiche il che consente di effettuare il confronto e la misura
di due masse inerziali mediante il confronto e la misura dei loro
pesi.
GRAVITŔ, GRAVITAZIONE
Il sostantivo grave (dal latino gravis =
«pesante») indica un corpo dotato di peso e il termine gravità
è genericamente sinonimo di pesantezza. La qualità comune a tutti
i corpi pesanti (o «gravi») consiste nel fatto che se non hanno un
appoggio cadono (si muovono verso il basso, ossia verso il centro della Terra).
Secondo la fisica aristotelica la gravità non è una qualità
universale (presente cioè in tutti i corpi): oltre ai corpi pesanti
(fatti prevalentemente di terra e di acqua) esistono i corpi leggeri (fatti
prevalentemente di aria e fuoco) e come la gravità è la tendenza
naturale a muoversi verso il basso, così la leggerezza è la
tendenza naturale a muoversi verso l'alto. Le tesi aristoteliche sono state
universalmente abbandonate quando le esperienze di Galilei, Torricelli e Pascal
hanno dimostrato che anche l'aria («leggera» per definizione)
pesa.
La forza di gravità (ossia il peso dei corpi) non è che
un caso particolare della gravitazione universale. La legge della gravitazione
universale (che dice che due corpi si attraggono in ragione diretta al prodotto
delle masse e in ragione inversa al quadrato delle distanze) si esprime con la
formula:

dove F è la forza di
attrazione, M
1, e M
2 sono le masse dei corpi che si
attraggono, r è la distanza tra i due corpi e g è la costante
gravitazionale misurata per la prima volta dal fisico inglese Henry Cavendish
nel 1798. Sulla superficie terrestre la gravità varia con il variare
della latitudine e dell'altezza (ossia della distanza del corpo dal centro della
Terra) ed è modificata dalla forza centrifuga dovuta alla rotazione
terrestre. Ai poli questa forza non si avverte, ma all'equatore un corpo pesa
1/289 in meno di quello che peserebbe se la Terra fosse ferma. L'accelerazione
di gravità è di 983 cm/sec² ai poli e di 978 cm/sec²
all'equatore.
LA «FILOSOFIA SPERIMENTALE» E LE «IPOTESI»
La teoria della gravitazione universale
oltre a spiegare le orbite ellittiche e le altre caratteristiche del moto
planetario descritte da Keplero, dava ragione del peso dei corpi sulla Terra,
delle particolarità del movimento di caduta e di quello dei proiettili e
permetteva di capire che cosa effettivamente accadesse in una serie di fenomeni
conosciuti da tempo e mai convincentemente spiegati, come le maree, la
precessione degli equinozi (un movimento dell'asse terrestre che determina un
lieve anticipo annuo degli equinozi), certe irregolarità del moto della
Luna e dei pianeti, ecc.
Il modello newtoniano dell'Universo appariva
così soddisfacente (e cioè così rispondente ai dati di
osservazione) che si era costretti ad ammettere l'esistenza reale della forza di
gravitazione, che all'inizio era apparsa un'escogitazione alquanto bizzarra e
improbabile: la tradizione voleva infatti che ogni azione tra corpi avvenisse
per contatto mentre la forza di attrazione reciproca agiva a distanza. Ma, anche
ammessa l'esistenza della gravitazione universale, quale era la natura di questa
forza? Quale o quali ne erano le cause?
Come si può arguire da
alcuni accenni presenti per lo più in carte private, Newton
immaginò forse che la gravitazione potesse essere effetto di un qualche
flusso di particelle che pervadesse ogni cosa. Egli però non
formulò mai ufficialmente una teoria in proposito, perché non
voleva avanzare ipotesi che non fossero solidamente fondate sull'esperienza.
«Hypotheses non fingo» = «non invento ipotesi»,
proclamò solennemente nello Scolio generale aggiunto nel 1713 ai
Principia mathematica.
... Ho spiegato fin qui i fenomeni del cielo e
del mare per mezzo della gravità, ma non ho mai indicato la causa della
gravità. Questa forza scaturisce da qualche causa che penetra sino al
centro del Sole e dei pianeti [...] e la cui azione si estende per ogni dove su
spazi immensi diminuendo sempre in rapporto al quadrato delle distanze. [...] In
verità non sono riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste
proprietà della gravità, e non fingo ipotesi. Qualunque cosa non
deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi: e le ipotesi, sia metafisiche, sia
fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche, non hanno posto nella
filosofia sperimentale.
In questa filosofia le proposizioni sono dedotte
dai fenomeni e rese generali per induzione. In tal modo sono state conosciute
l'impenetrabilità, la mobilità, la forza dei corpi e le leggi del
moto e della gravità. Ed è sufficiente che la gravità
esista realmente e agisca secondo le leggi che abbiamo esposte, e che spieghi in
modo adeguato tutti i moti dei corpi celesti e del mare...
Qui per
ipotesi Newton intendeva escogitazioni metafisiche non basate sull'esperienza e
quindi formulate dogmaticamente. Che Newton non «fingesse» ipotesi
(nel senso di proposizioni arbitrarie, non desumibili dai fenomeni) non era per
altro sempre vero. Dio, ad esempio, in cui credeva fermamente, come proprio lo
Scolio generale stava a dimostrare, era un'ipotesi metafisica, e non di poco
conto. Nel campo strettamente fisico, comunque, Newton non mancava di formulare
ipotesi in un senso del tutto diverso (e perfettamente legittimo anche dal punto
di vista sperimentale) di spiegazioni congetturali e provvisorie dei
fenomeni.
Nessuna ricerca sarebbe possibile se non fosse guidata da ipotesi
di questo tipo, il cui scopo è appunto quello di definire problemi, di
suggerire esperimenti, di indicare probabili relazioni tra eventi
diversi.
C'è naturalmente un problema di plausibilità: le
congetture non possono essere arbitrarie, il fondamento sperimentale, per quanto
insufficiente a fare dell'ipotesi una legge scientifica, deve pur presentare una
certa consistenza. Newton in questo campo sapeva essere assai audace: la sua
convinzione, espressa nell'Ottica, che ogni fenomeno fisico o chimico potesse
essere interpretato con azioni a distanza che, analoghe alla gravità, si
eserciterebbero tra particelle materiali, era un'ipotesi, geniale quanto si
vuole e anticipatrice di più tarde scoperte, ma scarsamente fondata
nell'esperienza.
... Non hanno le più piccole particelle dei
corpi delle virtù, dei poteri o delle forze, per mezzo dei quali agiscono
a distanza, non solo sui raggi della luce per rifletterli, rifrangerli e
infletterli, ma anche fra di loro, per produrre gran parte dei fenomeni della
natura?
È abbastanza noto infatti che i corpi agiscono l'uno
sull'altro con le attrazioni della gravità e delle forze magnetica ed
elettrica. Questi esempi indicano quale sia l'ordine e il principio della
natura: sicché è assai verosimile che possano esservi anche altre
forze di attrazione. La natura infatti è uniforme e coerente con se
stessa. Le attrazioni della gravità, del magnetismo e
dell'elettricità si esercitano su distanze abbastanza grandi da essere
normalmente percepibili ai sensi. Può darsi però che ve ne siano
altre, che agiscono entro spazi così limitati da essere sfuggite finora
ad ogni osservazione. Forse l'attrazione elettrica può estendersi a tali
piccoli intervalli. [...]
Vi sono dunque in natura delle cause efficienti
in virtù delle quali le particelle dei corpi aderiscono le une alle altre
con potenti legami attrattivi. È compito della filosofia scoprire con
degli esperimenti quali siano queste cause.
Può darsi che le
più piccole particelle della materia siano tenute insieme da fortissime
attrazioni e che così costituiscano particelle più grandi aventi
una forza di attrazione più debole; e può darsi che molte di
queste particelle più grandi si uniscano a formare particelle ancor
più grandi dotate di una forza di attrazione ancor più debole e
così di seguito sino a quelle particelle dalle quali dipendono le
operazioni chimiche e i colori dei corpi e che, unite, formano infine i corpi di
grandezza percepibile ai sensi. [...]
Se così stanno le cose, allora
la natura tutta sarà semplicissima e perfettamente conforme a se stessa,
in quanto compirà tutti i grandi movimenti dei corpi celesti in forza
dell'attrazione di gravità che si esercita vicendevolmente tra quei
corpi, e quasi tutti i movimenti minori delle particelle in virtù di
un'altra forza di attrazione e di repulsione che si esercita vicendevolmente tra
le particelle...
ATOMI E FORZE
La concezione atomistica risale agli
antichi, ma fu ripresa dalla scienza moderna a mano a mano che questa si
sviluppò nel Seicento e nel Settecento. Chiaramente fra gli atomi
dovevano esserci delle forze, che tenevano insieme i corpi solidi, ed erano
responsabili delle reazioni chimiche. La discussione sulla natura di queste
forze durò per tutto il Settecento.
Già Newton si era
occupato del problema. Un discepolo di Newton, John Keill (1671-1721),
considerò particelle che si attraggono tra loro in virtù di
un'altra forza, oltre quella di gravità. Questa altra forza diminuisce a
un tasso maggiore dell'inverso del quadrato della distanza. Keill
dimostrò tutta una serie di teoremi su tale forza. Ma le idee della
maggior parte degli scienziati, in proposito, rimasero molto confuse.
Le
interazioni atomiche furono poi studiate, con attitudine moderna, dal gesuita
dalmata Ruggero Boscovich (171 1-1787), che le collegò con le forze di
coesione e di adesione, ne dimostrò nuovamente la natura e, soprattutto,
sottolineò che i centri di forza sono punti senza direzione.
Ma il
suo punto di vista non si affermò subito. Un punto di vista del tutto
opposto fu sostenuto da Leonardo Eulero, grande scienziato vissuto a lungo a
Pietroburgo (1707-1783). Secondo Eulero, gli atomi si escludono reciprocamente,
e a questa esclusione puramente geometrica (o "sterica") si riducono tutte le
loro interazioni. Le idee moderne sono molto più vicine a quelle di
Boscovich che a quelle di Eulero, ma c'è qualcosa di vero anche
nell'opinione di quest'ultimo: la forza repulsiva diventa talmente grande a
piccole distanze che si può quasi parlare d'impenetrabilità
spaziale.
Ma non mancava neppure chi come il famoso naturalista
Georges-Louis Buffon (1707-1778), sosteneva che gli atomi si attirano,
semplicemente, come vuole la legge di Newton, con una forza inversamente
proporzionale al quadrato della distanza.
L'UNIVERSO DETERMINISTICO E L'IDEA DI DIO
L'universo di Newton è in primo luogo
un universo unitario, in cui cioè è definitivamente scomparso il
tradizionale dualismo di Cielo e Terra. In questo universo rientra anche il
sistema di Keplero, ma come caso particolare e con una differenza fondamentale:
per Keplero il Sole restava fermo al centro dell'universo, mentre per Newton
come il Sole esercita la sua forza sui pianeti, così i pianeti esercitano
la loro forza sul Sole e solo perché la sua massa è molto
maggiore, esso può considerarsi fermo rispetto ai pianeti. L'universo di
Newton è poi un universo meccanicistico e deterministico, in cui,
cioè, il moto di ogni suo componente è completamente determinato
da leggi precise: una massa materiale si muove perché è sotto
l'influenza di altre masse materiali e la «causa» del moto è
nelle masse stesse. Ciò significa, tra l'altro, che conoscendo la
posizione e la velocità di una massa in un dato istante e le forze che su
di essa esercitano le masse vicine, ci è possibile predire esattamente il
suo movimento futuro.
Quello di Newton, infine, è un universo
autonomo, che, per così dire, «sta in piedi da solo», e
cioè non ha bisogno di cause esterne per essere quello che è.
Tranne Dio, naturalmente, di cui in verità, come fu poi dimostrato,
l'universo newtoniano avrebbe potuto fare benissimo a meno, ma Newton
no.
... Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle
comete - aveva scritto nei Principia mathematica - non poté essere
generata che dalla sapienza e dalla potenza di un Essere intelligente e
potente...
Sapienza e potenza divine: accentuando l'una o l'altra
qualità vengono fuori immagini diverse del rapporto Creatore-Creato. Un
Dio infinitamente sapiente tenderà presumibilmente a costruire un mondo
ordinato, razionale, efficiente che, una volta messo in moto, si conserva
indefinitamente nella sua condizione: così la pensava, ad esempio,
Cartesio. Ma a un Dio infinitamente potente non si può negare il diritto
di intervenire a suo piacere nell'ordine da lui stesso costruito, e magari di
infrangerlo, come si conviene a un Signore assoluto. Newton aderiva appunto a
questa concezione, ma non solo per qualche sua misteriosa propensione teologica:
avendo osservato delle anomalie nei movimenti di Giove, di Saturno, della Luna,
ecc., riteneva che il sistema dell'universo che aveva descritto nei Principia
mathematica fosse instabile e che avesse bisogno della costante azione
correttiva di Dio.
A Gottfried Wilhelm Leibniz (che con Newton e con i
newtoniani ce l'aveva anche perché, avendo scoperto il calcolo
infinitesimale in modo del tutto indipendente da Newton, era stato ingiustamente
accusato di plagio) quest'idea appariva ridicola: era davvero possibile
immaginare Dio come un cattivo orologiaio costretto a rimettere continuamente le
mani nei suoi orologi? E l'universo poteva davvero essere immaginato come un
impianto mirabile per concezione, ma che per funzionare aveva bisogno di
continue revisioni e manutenzioni? Per Leibniz il mondo non poteva che essere
perfetto, stabile, permanente: questa sua perfezione e stabilità avrebbe
anche garantito la necessaria trascendenza di Dio. Le osservazioni di Leibniz
erano ispirate al buon senso, ma restavano nell'ambito di una discussione
teologica e non è affatto detto che nella teologia il buon senso conti
qualcosa. Per di più quella della perfezione del mondo era una fissazione
di Leibniz, e la sua convinzione che quello esistente fosse il migliore dei
mondi possibili merita di essere ricordata solo per la caricatura che il
newtoniano Voltaire ne fece nel Candido (1759).
L'idea di Newton
dell'universo instabile era invece sbagliata, ma utile: indusse astronomi e
cosmologi a perfezionare calcoli e osservazioni e a indagare la
possibilità di un'evoluzione dell'universo almeno fino a quando il
francese Pierre-Simon de Laplace, nell'Esposizione del sistema del mondo (1796),
non disse la parola definitiva in materia (definitiva, si capisce, nel senso in
cui possono esserlo le teorie scientifiche: buona, cioè, per qualche
decennio). Laplace dimostrò che alcune delle anomalie rilevate nel
sistema solare erano il risultato dell'attrazione reciproca dei pianeti e che
altre, osservate su un arco temporale sufficientemente esteso, non erano affatto
anomalie. Lo stesso Laplace formulò poi l'ipotesi (come indipendentemente
da lui ebbe a fare il filosofo tedesco Immanuel Kant) che il sistema solare si
fosse originato per raffreddamento e condensazione da una nebulosa primordiale e
dimostrò che tutto il processo si sarebbe potuto svolgere nell'assoluto
rispetto delle leggi newtoniane. Sia nel caso di un universo perfettamente
autoregolato e sempre identico a se stesso, sia nel caso di un mondo
suscettibile di evoluzione, non c'era posto per interventi divini.
Con
Laplace Dio tornava ad essere un'ipotesi inutile. A meno di non pensare a Dio
come a quel Divino Calcolatore, di cui Laplace parlò nel 1812 (e che, si
può credere, gli sarebbe piaciuto essere), che, potendo conoscere la
velocità e la posizione di tutte le particelle di materia esistenti
nell'universo in un dato istante, sarebbe stato in grado di prevedere
esattamente ogni evento futuro e di «postvedere» (se così si
può dire) ogni evento passato. Ma questa immagine di onniscienza divina
non era che una metafora di quella visione deterministica e materialistica del
mondo, finalmente trionfante, che era sempre stata considerata il peggior nemico
della religione.
Un'immagine di Pierre Simon de Laplace