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Ortega y Gasset, José.

Filosofo e saggista spagnolo. Laureatosi nel 1902, seguì tra il 1905 e il 1907 corsi di perfezionamento nelle università tedesche di Lipsia, Berlino e Marburgo, avendo come maestro il neokantiano Cohen. Nel 1910 gli fu assegnata la cattedra di Metafisica all'università di Madrid; l'incarico presso l'ateneo spagnolo fu da lui mantenuto sino al 1936, anno in cui, caduta la Repubblica, rinunciò all'insegnamento e si stabilì in Portogallo. Pur opponendosi al regime franchista, a cominciare dal 1945 visse saltuariamente a Madrid, continuando tuttavia a risiedere in Portogallo. Attorno alla sua filosofia si creò la cosiddetta Scuola di Madrid, i cui maggiori esponenti furono Marías, Morente, Zubiri, Gaos e Ferrater Mora. Nel 1914 fondò la Liga de Educación Política Española, affiancando, in un primo tempo, Primo de Rivera, ma opponendosi poi alla sua dittatura militare; quando nel 1931 fu proclamata la Repubblica, fondò con Maraon e Pérez de Ayala la Agrupación de Intelectuales al Servicio de la República e si dedicò attivamente alla vita politica, sedendo al Parlamento come deputato liberale. Con la sua celebre "Revista de Occidente" (1923-36) e con la Biblioteca de Ideas del Siglo XX, la casa editrice da lui diretta, introdusse in Spagna il pensiero occidentale moderno e rinnovò nel Paese l'interesse per la filosofia. La sua attività costituì un fatto culturale importantissimo nella Spagna fra le due guerre mondiali. Dopo la seconda guerra mondiale, l'Instituto de Humanidades, fondato con J. Marías nel 1948, fu un punto di riferimento per quanto di culturalmente fecondo accadeva in Spagna. Il suo pensiero e la sua dottrina storica lo portarono a indagare acutamente problemi sociali e politici. Nel saggio España invertebrada (1921) O. raccolse il tema dell'"essenza della Spagna", proposto dal movimento spagnolo denominato Generazione del '98 e, proseguendo la riflessione di Miguel de Unamuno, concluse che la Spagna è "invertebrata", ossia inesistente come società, incapace come Nazione, del tutto disorganizzata soprattutto per la mancanza di élite intellettuali. Già delineata nel saggio Adán en el Paraíso (1910) e nelle Meditaciones del Quijote (1914), quindi compiutamente sviluppata in El tema de nuestro tiempo (1923), la sua concezione filosofica, basata sulla ragione vitale, si pone come sintesi di vitalismo e di razionalismo. Il nucleo elementare della filosofia di O. viene espresso nella celebre definizione: "Io sono io e la mia circostanza". O. vede nella vita umana una "realtà radicale"; le cose non sono indipendenti dall'uomo, che non le conosce se non nei confronti con se stesso; O. considera la conoscenza una "prospettiva dai confronti infiniti", e la vita un "fare dinamico dell'io con le cose". La realtà del proprio io è, quindi, integrata dall'altra metà della persona, la circostanza, ossia ciò che sta intorno all'uomo, intendendo non solo l'ambiente fisico immediato, ma anche, e soprattutto, "le realtà di altro ordine, lo storico, lo spirituale". Per O. la vita è "ciò che si fa e ciò che ci accade", è "qui e adesso" e ogni cosa è una somma infinita di relazioni; non più quindi l'assoluta realtà, ma la mutevole "prospettiva" può dare conto del flusso continuo della vita. Secondo la teoria della "prospettiva" del relativismo vitalistico di O., la verità non è altro che il particolare punto di vista da cui un individuo considera la realtà. Nessuno può evadere dal proprio ambito circostanziale per attingere una presunta verità assoluta e universale. Le conseguenze di questo prospettivismo furono una concezione della storia come il succedersi di grandi ritmi storici, ognuno con una propria fisionomia culturale. Questa è data dalla "sensibilità vitale" di una determinata generazione, intendendo esprimere con il termine "generazione" il concetto più importante della storia, il "cardine su cui questa esegue il suo movimento". Infatti la "generazione" va intesa come una varietà umana (nel senso naturalistico), i cui membri sono dotati di certi caratteri tipici, che conferiscono loro una fisionomia comune, differenziandoli dagli individui della generazione precedente. O. sviluppa questo tema nelle sue opere di maggior impegno teorico: Esquema de las crisis (1942) e Historia como sistema (1941). Frantumata l'unità dei corsi storici ed essendo, di conseguenza, insufficiente la ragione (nel senso tradizionale) per una comprensione esauriente dell'esperienza vitale, il nuovo strumento di indagine sarà la ragione storica o, meglio ancora, la ragione vitale. Il "tema del nostro tempo" consiste nel sottomettere la ragione alla vitalità: considerare la cultura come produzione della vita o porre questa come valore supremo. Questa posizione è stata ribadita da O. nei suoi scritti successivi, dove si è andato accentuando sempre più l'irrazionalismo vitalistico orteghiano, che non ha mancato di subire l'influenza delle correnti esistenzialistiche. Va così acquistando ancora maggiore influenza l'io, considerato come attività pura, come "progetto di vita": non esiste una "natura umana", ma solo un'esperienza vitale incomunicabile, la vita così come viene vissuta da ciascun individuo. Da ciò il senso di radicale insicurezza dell'uomo orteghiano, il sentirsi naufrago in un elemento misterioso e spesso ostile. Ecco allora che interviene la cultura, quale insieme di soluzioni che l'uomo inventa per dare una risposta ai suoi problemi vitali. Pertanto la storia, ossia il dispiegarsi della cultura, ha una sua ragione d'essere in quanto giustificazione dell'esistenza dell'uomo. E questa, a sua volta, non va intesa facendo riferimento alle idee che un certo individuo ha professato, bensì alle credenze in cui ha vissuto. Infatti, mentre le prime, astrazioni dell'intelletto, sono incapaci di far luce sulla realtà e di condurci all'essenza delle cose, le seconde, frutto dell'immaginazione, si identificano con la realtà stessa, per cui sono, contemporaneamente, il nostro mondo e il nostro essere. Al sistema delle credenze di una generazione succede "con continuità, senza salto" un altro sistema un po' diverso, ma quando il cambiamento è brusco e radicale, sicché a un sistema di convenzioni ne succede un altro molto diverso, allora si ha la "crisi" storica. La crisi storica assume la forma di catastrofe che fa crollare il mondo in cui si viveva, e sparire tutte le certezze abituali. L'uomo della crisi non si sente più certo in nulla d'importante, non sa più qual è il proprio destino, "tutto ciò che fa, sente, pensa e dice sarà deciso ed eseguito senza una convinzione positiva, vale a dire senza effettività...", sarà la vita minima, una vita vuota in se stessa, inconsistente, instabile. Siccome, in fondo, egli non è convinto di niente di positivo, non è veramente deciso a niente: con somma facilità l'uomo e le masse di uomini passeranno dal bianco al nero. Pertanto, secondo O., la crisi storica è caratterizzata dallo stato di smarrimento in cui viene a trovarsi l'uomo quando sia venuto a mancare un complesso di credenze alle quali egli si appoggiava e non sia ancora sorto quello nuovo che lo deve sostituire. È necessario allora che siano foggiate nuove credenze ed è questo un compito che spetta all'"intellettuale". Secondo O., però, intellettuale non è il professionista dell'attività intellettuale, ossia lo scrittore, lo scienziato, il professore, il filosofo, bensì colui che è capace di vivere nella situazione di ensimismiamento, di raccoglimento nella propria interiorità, dove egli è ben più partecipe della vita, in tutte le sue inesauribili varietà (di cui egli stesso è creatore), di quanto non possa mai esserlo l'"altro", cioè colui che vive disperso nel mondo delle cose, degli oggetti dati una volta per tutte, quasi alienato in essi, in una situazione di alteración. L'intellettuale non può che restar solo, nel suo aristocratico isolamento, senza gli "altri", cioè separato dalla "massa" che è l'insieme degli "altri". L'uomo-massa è il tipico esponente di una società standardizzata, colui che adotta le idee e i gusti correnti, che si conforma passivamente alla moda prevalente, dominato dal proprio istinto gregario. Uomo-massa è colui che non valuta se stesso né in bene né in male, non esige da sé niente, ma si accontenta di essere sempre e soltanto ciò che è. Del pauroso irrompere delle masse sul palcoscenico della storia, O. ha svolto una penetrante quanto pessimistica analisi in un'opera diventata famosa, La rebeliòn de las masas (1930), riconoscendo in questo fenomeno l'aspetto più caratteristico della nostra epoca. Egli condivide le idee socialiste sui diritti delle masse alla libertà dal bisogno e a un'equa ripartizione della ricchezza, ma teme che esse possano imporre il benessere materiale, che il progresso industriale pone a portata di mano, come l'esigenza primaria della società, togliendo spazio ai valori autenticamente europei di libertà e creatività individuale. O. annuncia l'avvento di una società di massa materialista e conformista nella quale le maggioranze scalzerebbero le minoranze elitarie (le minorías selectas) dalla loro legittima funzione di guida della società, imponendo la propria volontà attraverso un sempre più esteso e soffocante intervento dello Stato. I regimi comunista e fascista non sarebbero che i primi esempi di società di massa illiberale e statalista. Della crisi della civiltà europea una pesante responsabilità ricade, secondo O., sugli intellettuali radicali che dalla seconda metà del Settecento ad oggi hanno propugnato il metodo rivoluzionario di cambiamento della società, forzando inutilmente i tempi dell'evoluzione storica e scatenando solo reazioni distruttrici. Così facendo gli intellettuali hanno abdicato alla funzione loro propria che è quella di additare obiettivi superiori e comuni (che per l'Europa del nostro secolo, superati i nazionalismi ottocenteschi, sono per O. gli Stati Uniti d'Europa), non quella di assumere dirette responsabilità di potere. Pertanto, il ristabilimento dei valori dell'intelligenza da parte dell'intellettuale comporterà per O. la ricostituzione delle élite finora venute meno al loro compito. Alla riflessione sull'arte e alla critica d'arte e letteraria O. dedica opere come La deshumanización del arte e ideas sobre la novela (La disumanizzazione dell'arte e idee sul romanzo, 1925), e scritti quali Goethe desde dentro (1932) e Papeles sobre Velázquez y Goya (1950). A differenza di Croce, sostiene la distinzione dei generi letterari; afferma che nel romanzo la realtà dei personaggi deve essere, più che narrata, descritta e trasformata in valori estetici dotati di vita e realtà propria. Ugualmente, sia per la poesia sia per le arti figurative, sostiene che la creazione artistica è qualcosa di differente dal mondo reale, dotata di valore in sé e non per la sua fedeltà alla natura o alle cose date; O. battezza perciò quest'arte "disumanizzata", definizione che, mal intesa, non mancherà di suscitare polemiche (Madrid 1883-1955).
José Ortega y Gasset