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Oligarchìa.

(dal greco oligarchía, der. di olígoi: pochi e -archía: -archia). Sistema politico in cui il potere è detenuto da una minoranza, socialmente o economicamente rilevante. ║ Per estens. - Gruppo limitato di persone che esercitano la loro influenza, in genere traendone vantaggio, nelle istituzioni, organizzazioni, enti, ecc. ● Encicl. - Regimi oligarchici si ebbero pressoché ovunque nell'antica Grecia, dove succedettero quasi sempre alle tirannidi (soprattutto nel Peloponneso) o alle aristocrazie. Rispetto a queste ultime, l'élite di governo non apparteneva necessariamente alla nobiltà tradizionale con diritto ereditario, ma era scelta in base al censo. Le o. si caratterizzavano per l'esclusione della maggioranza dei liberti dal pieno godimento dei diritti politici e per il fatto che il potere si concentrava, pur in una comunità cittadina limitata, nelle mani dei membri del Consiglio. Esempi di regimi oligarchici furono il governo dei Quattrocento (411) e quello dei Trenta Tiranni (404-403), entrambi ad Atene. La mancanza di legittimità morale e gli eccessi di questa forma di governo fecero sì che il termine acquisisse un'accezione negativa rispetto all'aristocrazia. Il regime oligarchico fu condannato da Platone che, nella Repubblica, lo considerò come una forma di degenerazione dell'aristocrazia (le altre forme degenerative erano la timocrazia, la democrazia e la tirannide). Questa classificazione fu adottata anche da Aristotele che, nella Politica, considerò l'o. il governo dei ricchi, ovvero una forma corrotta dell'aristocrazia, intesa come governo dei migliori. Nell'antica Roma, fino al IV sec. a.C., il governo fu nelle mani dell'aristocrazia come privilegio dato dalla nascita. A partire dalla formazione dello Stato patrizio-plebeo, invece, cominciò a formarsi una élite dirigente i cui membri si facevano eleggere in base al censo e alla clientela: nobilis era detto colui che apparteneva alla nuova élite che divenne depositaria dei valori fondamentali della vita pubblica. Quando, però, la nobilitas si chiuse in o. senatoria ormai corrotta, dovette affrontare l'opposizione degli homines novi (Gaio Mario) entrati per la prima volta nel gruppo dirigente. Costoro lottarono contro il decadimento della élite di governo. Con riferimento a sistemi politici successivi, il termine o. è stato usato, spesso polemicamente, per indicare il dominio di pochi ricchi decisi a salvaguardare il proprio interesse: si può ancora parlare di regime oligarchico nel caso delle città-stato dell'Italia centro-settentrionale e dei Paesi Bassi, o nel caso di alcune Repubbliche come Venezia, Genova, Lucca. Comunque, se si dà al termine o. un significato più ampio, si deve rilevare che, salvo poche eccezioni, la società retta a Stato ha conosciuto pressoché ininterrottamente regimi oligarchici, ossia regimi in cui la maggioranza è sottoposta al governo e allo sfruttamento di una minoranza. ● Pol. - Nell'ambito della teoria politica Aristotele, come già Platone, fu assertore di una teoria minoritaria, e pose una precisa distinzione tra "chi è per naturale disposizione adatto al comando e chi all'obbedienza". Il concetto minoritario di Aristotele fu ripreso da Tommaso d'Aquino, che stabilì un rapporto di comando e di obbedienza, giustificando le disuguaglianze sociali e politiche come una disuguaglianza naturale tra gli uomini. In vari altri autori si trovano frammenti di dottrina minoritaria e a Machiavelli si deve l'osservazione che "in qualunque città, in qualunque modo ordinata, ai gradi di comando non giungono mai più di quaranta o cinquanta persone". Nel XIX sec. una concezione minoritaria fu esposta da Saint-Simon, secondo cui in ogni società vi sono due poteri, uno intellettuale e morale, l'altro materiale, esercitati da due minoranze organizzate (scienziati e capitani d'industria) che formano insieme la classe dirigente. Hegel riconobbe la legittimità di una classe dominante, detentrice del potere, intesa come minoranza qualificata, e a Fichte si deve l'osservazione che vi sono pochi uomini destinati a dominare, in quanto dotati di un carattere "energico e ardito". Concezioni analoghe furono espresse anche da autorevoli rappresentanti della cultura inglese e americana, tra cui T. Carlyle e R.W. Emerson. Il riconoscimento di un potere oligarchico che percorre tutta la storia venne anche da C. Marx, che espresse però l'esigenza di un'inversione di rotta. Il Marxismo riconosce infatti l'esistenza, nella storia, di una legge secondo cui tutti i moti e i rivolgimenti sociali sono stati opera di minoranze a favore di minoranze. Tale legge è modificabile dalla rivoluzione proletaria, opera di maggioranza a favore dell'immensa maggioranza. Un'articolazione in senso minoritario è stata successivamente enunciata dai teorici comunisti, sulla base dell'esperienza sovietica e della concezione leninista del partito e della presa del potere ad opera di una minoranza rivoluzionaria. Le esperienze politiche del XX sec. hanno indotto gli studiosi di dottrina e sociologia politica a elaborare teorie minoritarie sulla base di studi che, pur prendendo in esame tendenze ed esperienze politiche diverse (regimi autoritari di destra, sistemi capitalistici organizzati, democrazie laburiste, democrazie popolari), hanno rilevato come fenomeno comune il progressivo distacco tra governanti e governati, tra l'élite e la massa. Si è indicata, come linea di tendenza generale, una riduzione dell'area dell'iniziativa politica, facendone il monopolio di una élite di potere e di una minoranza di quadri organizzati. Secondo la tipologia di Max Weber, pochi sono i politici professionali, cioè coloro che si dedicano all'attività politica a tempo pieno e non molti coloro che vi si dedicano parzialmente, mentre la grande maggioranza è costituita da politici occasionali che si limitano a deporre ogni qualche anno una scheda nell'urna. Dottrine minoritarie furono enunciate da G. Mosca e V. Pareto, secondo i quali tutti i governi sono espressione di minoranze organizzate (Pareto parlò di "classe eletta", Mosca di "classe di governo"). A conferma di questa tendenza R. Michels, nel 1925, enunciò una vera e propria "legge ferrea dell'o.", secondo la quale ogni forma di organizzazione politica, compresa quella socialista, vede inevitabilmente il formarsi al suo interno di una o., termine ormai privo di ogni connotazione peggiorativa.