Uno dei due grandi poemi attribuiti dalla tradizione a Omero. L'
I. ci
è giunta in codici risalenti all'attività critica dei filologi
alessandrini; sono 15.696 esametri divisi, da Zenodoto, in 24 libri,
contraddistinti con le 24 lettere maiuscole dell'alfabeto greco. Ognuno dei
libri è preceduto da uno o più titoletti, alcuni dei quali
sembrano attestare un'articolazione in vari episodi precedente alla divisione in
libri degli alessandrini. Il poema narra un breve episodio della guerra
decennale che una coalizione di principi greci, sotto la guida d'Agamennone,
avrebbe condotto contro la città di Troia per vendicare l'offesa fatta da
Paride, figlio del re troiano Priamo, a Menelao, con il rapimento della moglie
Elena. La guerra, secondo ricerche archeologiche condotte nella Troade, avrebbe
un fondamento storico nella distruzione della città, avvenuta verso il
1200 a.C. L'azione si svolge in una cinquantina di giorni: Apollo, adirato
contro Agamennone, che ha negato al suo sacerdote Crise il riscatto della figlia
Criseide, sua schiava, fa scoppiare una pestilenza nel campo greco;
nell'assemblea che segue, Achille propone che Criseide sia resa al padre;
Agamennone lo minaccia di rivalersi su di lui, portandogli via la schiava
Briseide, e così avviene, mentre Achille si ritira dal combattimento. La
madre di lui, Tetide, ottiene da Zeus la promessa di fare in modo che i Greci
debbano risentire della sua assenza. Il giorno seguente, Agamennone schiera
l'esercito e, per metterlo alla prova, propone il ritorno in patria: i Greci
aderiscono alla proposta e corrono verso le navi, trattenuti da Ulisse. Greci e
Troiani decidono di risolvere la contesa con un duello tra Paride e Menelao;
durante la tregua Elena, dall'alto delle mura, mostra ai vecchi Troiani i vari
eroi greci; nel duello Paride sta per soccombere, ma Afrodite lo sottrae
miracolosamente al combattimento. La tregua, per volere di Atena, è rotta
da Pandaro, che ferisce Menelao con una freccia: si riaccende la battaglia,
nella quale Diomede dà prova del suo valore. Ettore si reca in
città per esortare la madre Ecuba a far voti e preghiere ad Atena, e si
incontra con la moglie Andromaca. Tornato nel campo, si batte con Aiace
Telamonio. Gli dei, per volere di Zeus, si astengono dalla battaglia, che volge
a favore dei Troiani. Un'ambasceria, formata da Ulisse, Aiace e Fenice, cerca
invano di placare l'ira di Achille. Durante la notte Ulisse e Diomede escono dal
campo greco, si incontrano con il troiano Dolone e da lui hanno notizie intorno
alla disposizione del campo troiano: uccidono Dolone e Reso, re dei Traci, e ne
rapiscono i cavalli. La guerra procede favorevole ai Troiani, che respingono i
Greci fin sotto le navi e sono sul punto di incendiarle. Patroclo chiede e
ottiene da Achille di entrare in combattimento, ma viene ucciso da Ettore;
intorno al cadavere si accende la mischia; Menelao e Aiace riescono a sottrarlo
ai Troiani, ma le armi restano a Ettore. Achille decide di riprendere la lotta
per vendicare l'amico Patroclo; per invito di Tetide, Efesto gli fabbrica nuove
armi. Achille si riconcilia con Agamennone e rientra nella battaglia, a cui
partecipano ormai tutti gli dèi; lotta con il fiume Xanto; si incontra
con Ettore e lo uccide; celebra riti funebri in onore di Patroclo; tiene per
dodici giorni il cadavere di Ettore finché, per volere di Zeus, lo
restituisce a Priamo. Il poema termina con la descrizione dei funerali di
Ettore. L'azione del poema è tutta imperniata sulla tragica figura di
Achille e segue la parabola della sua ira, che scoppia nella contesa con
Agamennone, si rinnova e si nobilita nel desiderio di vendicare Patroclo, giunge
a un parossismo disumano nello scempio del cadavere di Ettore e si annulla di
fronte alle preghiere di Priamo, per la consapevolezza di un destino
ineluttabile che accomuna nel dolore vincitore e vinti. La costituzione
dell'
I. in una forma pressappoco identica a quella in cui ci è
pervenuta, data all'VIII sec. a.C. circa. Il poema omerico fu tradotto
più volte in latino, sia nell'epoca repubblicana che nell'età
imperiale. Famosa la traduzione in italiano, in endecasillabi sciolti, di
Vincenzo Monti (1810).