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Gusto.

Senso attraverso il quale si percepiscono i sapori. È dovuto alle papille, piccole granulazioni della lingua, più sensibili alla sua base. La sede essenziale delle sensazioni gustative è la lingua, specialmente nei due terzi anteriori della superficie dorsale, ai bordi, alla punta, dove sono particolarmente sviluppate le papille gustative, ossia quei delicatissimi organi con cui terminano i nervi della lingua. Le fibre utili al g. sono fornite da tre nervi cranici: il quinto, il settimo e il nono; ossia, rispettivamente, il trigemino, il facciale e il glosso-faringeo, detto anche nervo gustativo. Tutte le fibre gustative vanno a congiungersi, per vie diverse e molto tortuose, in un unico centro situato nel bulbo, dal quale partono fibre di raccordo che arrivano nell'interno del lobo temporale del cervello. Il senso del g. è notevolmente rafforzato da quello dell'olfatto. È infatti a tutti noto quanto siano attenuate o addirittura soppresse le facoltà gustative, quando un raffreddore di testa ottunde quelle olfattive. I sapori fondamentali che il g. ci permette di percepire sono 4: dolce, amaro, acido, salato. L'intera lingua può percepire i 4 sapori; però la punta è particolarmente sensibile al dolce, la base all'amaro, l'apice e i bordi al salato, la porzione media dei bordi all'acido. Esistono innumerevoli gradazioni dei quattro sapori fondamentali, nonché sensazioni complesse che prendono, nel linguaggio comune, vari nomi: aromatico, metallico, astringente, ecc. • Filos. - La facoltà, o l'attività, o la capacità dello spirito che rende possibile il godimento e la comprensione della bellezza. Appare pertanto essenziale il g. all'interprete, cioè a colui che rivive, attraverso la lettura dei segni con i quali si estrinseca e si realizza l'opera d'arte, la bellezza. Se si parla di genio come della capacità di creare opere d'arte e cioè nuove forme di bellezza, appare evidente la distinzione tra il genio e il g.; è tuttavia da dire che certa estetica moderna ha voluto intendere genio e g. attraverso una distinzione puramente dialettica, non riuscendo a limitare la funzione del g. al piano puramente interpretativo e avvertendo più risolutamente il vincolo ricreativo che l'interprete ha nei riguardi dell'opera d'arte che egli deve far rivivere. Posta cioè in discussione l'oggettività dell'arte della bellezza, ne è conseguita l'impossibilità di una vera distinzione tra genio e g., come in modo particolare hanno voluto riconoscere il Croce e il Gentile. Senza volere negare la presenza del g. nel genio (ossia nell'artista) ci sembra che meglio serva a chiarire la natura dell'arte e la peculiarità del fatto interpretativo la distinzione del genio dal g. che permette di differenziare il fatto veramente creativo da quello puramente riproduttivo. Del g. molto si discusse da parte degli illuministi inglesi e francesi e in queste discussioni, secondo alcuni sarebbe da rintracciare l'origine dell'estetica vera e propria, per quel riferimento alle fonti soggettive del bello che le considerazioni sul g. implicano. Già nella scuola dello Shaftesbury, la dottrina del senso morale viene estesa al senso del bello; ma esplicitamente di g. parla un saggio di Hume e più diffusamente uno di A. Gerald. Per quest'ultimo il g. è quella facoltà dalla quale dipende non solo l'apprezzamento o il giudizio sull'arte, ma anche la produzione dell'opera bella, perché il g. è connesso al genio e ne è anche la guida. La facoltà del g. è composta di vari elementi: sensi, immaginazione e intelletto. Idee analoghe sono espresse da E. Burke con la preoccupazione di giustificare e fondare l'universalità del g.: è l'antecedente più prossimo alla dottrina kantiana in materia. Trattazioni analoghe sono frequentissime nello stesso periodo in Francia: è ad esse comune la definizione del g. come la capacità di cogliere il bello, quasi intuitivamente, per adesione spontanea, cosa che la ragione farebbe analiticamente, per ragionamento. Il g. quindi non è privo di una sua norma interna e gode di una sua speciale universalità. Queste trattazioni illuministiche possono considerarsi concluse dal pensiero di Kant, il quale teorizza il g. come capacità di pronunciare quella tipica forma di giudizio con cui si distingue il bello dal brutto. I giudizi estetici riferiscono "le rappresentazioni non per mezzo dell'intelletto, all'oggetto della conoscenza, ma, per mezzo dell'immaginazione (forse congiunta con l'intelletto), al soggetto e al suo sentimento di piacere o dispiacere". Dopo Kant l'estetica, preannunciata da queste dottrine settecentesche del g., troverà più solide fondamenta e le considerazioni sul g. avranno carattere marginale.