Virtù che si esercita nella sfera dei rapporti sociali e che consiste nel
riconoscere i diritti altrui. Come valore, la
g. è un criterio di
valutazione in base al quale si giudicano le azioni che l'uomo compie nei
confronti dei suoi simili • Filos. - La definizione tradizionale della
g. risale ad Aristotele che la considera "virtù sociale" e, come
tale, la distingue dalle altre virtù. Teorizzando sulla
g. in
generale, Aristotele la contrappone all'ingiustizia. In ciò si
rifà alla più comune tradizione che attribuisce il valore di
giusto a ciò che soddisfa le esigenze della società. Di qui
l'attribuzione di "giusti" a quei comportamenti che tendono a conservare una
società pacifica e di "ingiusti" a quelli che impediscono o distruggono
l'equilibrio sociale. Pertanto, si tende comunemente a considerare come "giuste"
le azioni che sono conformi alle leggi della società alla quale si
appartiene e come ingiuste le qualità difformi di tali leggi. In questo
modo, la
g. viene fatta coincidere con la legalità e valutata
essenzialmente sulla base dell'obbedienza alle leggi vigenti. La riduzione della
g. alla legalità implica che le leggi dello Stato siano, in quanto
tali, giuste. Questa valutazione della
g. ha sollevato, sin
dall'età più antica, problemi che, posti e risolti in modo
diverso, hanno costituito il filo conduttore della speculazione filosofica
intorno alla
g. L'interrogativo che si pone immediatamente è
quello che nasce dalla constatazione che, essendo le leggi nient'altro che
azioni umane, sono anch'esse soggette alla valutazione del giusto e
dell'ingiusto. Di qui la conclusione che la riduzione della
g. a
legalità è un criterio puramente formale, ragione per cui si
evidenzia la necessità della ricerca di un criterio di valutazione
sostanziale, nell'ambito della ricerca filosofica. Diverse sono le soluzioni
date al problema della
g. intesa in senso sostanziale, dalle diverse
correnti filosofiche. In questa diversità, due sono le risposte
fondamentali che caratterizzano l'intera storia della filosofia. La prima, che
si richiama ad Aristotele, considera la
g. come
uguaglianza.
Ciò significa che l'azione umana è giusta e la legge stessa
è giusta, quando rispetta il principio dell'uguaglianza. Essa cioè
deve basarsi su una relazione aritmetica nei rapporti volontari o involontari
tra individui (
g. commutativa) e su una proposizione geometrica nei
rapporti tra la società e gli individui (
g. distributiva). La
seconda soluzione, che si richiama a Kant, pone la
g. come
libertà. Ciò significa che l'azione dell'uomo e la legge
dello Stato sono giuste quando rispettano il principio della libertà. Ne
segue una distinzione tra
libertà esterna (giuridica) e
libertà interna (morale). Le altre concezioni della
g., per
quanto diverse e varie, possono essere fatte rientrare in queste due concezioni
fondamentali, o risultare da una mescolanza di elementi caratteristici delle due
dottrine, Nella speculazione classica, greca e romana, il concetto di
g.,
a partire da pitagorici, è essenzialmente naturalistico, basato
cioè sulla
g. esistente nella realtà naturale che poi
riflette anche la
g. esistente nel mondo morale. Il principio
fondamentale della concezione greca della società e dello Stato era
l'armonia di una vita associata alla quale partecipavano tutti i suoi membri. In
particolare la filosofia pitagorica considerava l'armonia, o proporzione,
l'espressione simbolica della
g. naturale. Dapprima quindi l'idea
fondamentale di
g. (armonia e proporzione) fu applicata indifferentemente
come principio etico e come principio fisico, e fu concepita indifferentemente
come una proprietà della natura o come una proprietà razionale
della natura umana. Prima della fine del V sec. a.C. il contrasto di natura e
convenzione cominciò a svilupparsi in due direzioni distinte. La prima,
concepiva la natura come una legge di
g. insita negli esseri umani e nel
mondo, postulando che l'ordine del mondo è intelligente e benefico.
L'altra concepiva la natura non moralmente e le sue manifestazioni negli uomini
come affermazione personale o egoismo, desiderio di piacere o di potenza.
Secondo la posizione dei sofisti e di Antifonte tutte le leggi sono puramente
convenzionali e perciò contrarie alla natura. Ne consegue che il modo
migliore per vivere è di rispettare le leggi dinanzi ai testimoni, ma
quando non si è osservati, di seguire la natura che insegna a guardare al
proprio utile. La
g. legale non serve a coloro che la seguono, non
previene l'ingiustizia o la punisce troppo tardi, mentre l'uomo che seguisse la
natura agirebbe sempre, per sé, nel migliore dei modi. Il compito di
raccogliere e ordinare in un sistema filosofico esplicito le idee vagamente
diffuse nel V sec. fu assunto da Socrate, da cui presero avvio tutti i
successivi e contrapposti sviluppi. Un posto di primo piano occupa la concezione
platonica. secondo cui la
g. altro non è che l'armonia, sia tra le
diverse facoltà dell'anima, sia tra le diverse classi sociali. Nel
Fedro l'anima viene presentata come divisa in una parte negativa (la
concupiscenza), in una parte positiva (l'anima razionale) e in una parte che
può essere sia negativa che positiva (l'ardore di vita). Tali parti sono
simboleggiate, rispettivamente, dal cavallo nero, dal cavallo bianco e
dall'auriga. L'equilibrata armonia della funzione dell'anima determina la
g. nell'uomo e nello Stato. Le tre classi, produttori, guerrieri e
filosofi, enunciate nella
Repubblica, sono la proiezione delle tre parti
dell'anima enunciate nel
Fedro. Secondo quanto afferma Platone nella
Repubblica, la
g. è il legame che tiene unita una
società. Rifacendosi alla concezione pitagorica, egli la presenta come
un'unione organica di individui, ciascuno dei quali ha trovato il proprio posto
secondo la sua inclinazione e la sua educazione. Secondo Platone, la
g.
è, insieme, una virtù pubblica e privata, poiché consente
di conservare tanto il sommo bene dello Stato quanto quello dei suoi membri. La
prima elaborazione della definizione platonica di
g. è di "dare a
ciascuno ciò che gli è dovuto", ossia il diritto per ciascuno di
essere considerato per quello che è, in ragione delle sue capacità
e della sua educazione, mentre ciò che è dovuto da ciascuno,
consiste nel conformarsi a quei compiti che la posizione accordatagli richiede.
Essendo la natura umana istintivamente sociale, il massimo vantaggio per lo
Stato significa anche il massimo bene per i cittadini. Aristotele
sviluppò invece, modificandola, l'idea pitagorica della
g. come
eguaglianza. L'etica aristotelica considera ogni azione tale da tendere
al sommo bene. Funzione propria dell'uomo è la ragione e, dall'esercizio
di questa, deriva la virtù. Essa è di due tipi:
dianoetica,
in quanto attività propria dell'anima intellettiva (scienza, arte,
saggezza, intelligenza) ed
etica in quanto dominio sugli appetiti
sensibili (coraggio, temperanza, magnanimità, ecc.). Virtù etica
fondamentale è la
g. distinta in
g. distributiva
(distribuzione dei beni, propria dei rapporti pubblici) e
g. commutativa,
scambio dei beni per contratto, propria dei rapporti privati. La virtù, e
quindi la
g., è in genere realizzabile solo nella vita sociale e
nello Stato, che provvede sia al benessere dei cittadini che alla loro
educazione morale. Nel pensiero postaristotelico, accanto al suo significato
oggettivo, viene posto con maggiore evidenza l'aspetto soggettivo. Fu quanto
fecero soprattutto gli epicurei. La base filosofica dell'insegnamento epicureo
è un materialismo assoluto che nega ogni intervento divino e secondo il
quale "natura" significa "egoismo", cioè il desiderio di ciascuno di
realizzare la propria felicità individuale e nient'altro che questa.
Tutte le altre norme dell'agire sono pure convenzioni: non è mai esistita
una
g. assoluta. Tutti gli uomini sono fondamentalmente egoisti e tendono
al loro bene, ma poiché il bene di ognuno è minacciato dall'agire
egoistico degli altri, gli uomini stipulano un tacito accordo reciproco.
Poiché il risultato di una pratica generale dell'ingiustizia (anche se
l'ingiustizia non è in sé male) sarebbe insopportabile, gli uomini
hanno adottato come compromesso il rispetto dei diritti degli altri per ottenere
dagli altri un eguale rispetto. Ne consegue che quanto viene considerato diritto
e
g. varia con le circostanze, col tempo e coi luoghi. I giuristi romani,
invece, non ponevano minimamente in dubbio l'esistenza di una legge superiore,
fondamentalmente razionale, universale, immutabile e divina. Cicerone, nel
De
invenzione dà la seguente definizione di
g.: Justitia est habitus
animi. Secondo Cicerone, una disposizione "non conforme alla legge" non
è legge. Ulpiano afferma che la
g. è una disposizione fissa
e legale a riconoscere a ciascuno i suoi diritti: la giurisprudenza "una
concezione di cose umane e divine, la scienza del giusto e dell'ingiusto", e che
il giurista può definirsi un "sacerdote della
g.". Più
tardi, al naturalismo, si sostituì un accentuato spiritualismo che
caratterizza la speculazione cristiana che cerca il fondamento della
g.
nella volontà di Dio. Nessuno Stato può essere "giusto" dopo
l'avvento del Cristianesimo, a meno che non sia anche cristiano, mentre un
Governo considerato indipendente dalla sua relazione con la Chiesa viene
considerato privo di
g. La Chiesa considera la
g. come la prima
delle quattro virtù cardinali e per la teologia cattolica essa è
un abito operativo naturale e soprannaturale. Al senso e alla ragione si
richiamano invece i filosofi moderni. D. Hume afferma che l'idea di
g.
deriva dall'esperienza psicologica dell'uomo che è portato a stabilire
rapporti di associazione coi propri simili e a creare norme tendenti a
garantire, con la vita associata, la sua stessa esistenza individuale. In
ciò egli si rifà a Th. Hobbes e a J. Locke che sostengono
l'origine contrattualistica dell'organizzazione civile e politica. Secondo
Locke, poiché nello stato di natura l'esercizio dei diritti è
esposto alle incertezze degli arbitrii individuali, si rende necessaria una
sovranità superiore che garantisca l'imparzialità e l'equilibrio
della
g. Hume distingue due complessi principali di convenzioni, quelle
che regolano la proprietà (norme di
g.) e quelle che riguardano la
legittimità dell'autorità politica.
G. significa, in
generale, che il possesso dei beni deve essere stabile e che esso può
essere trasferito solo per consenso. Leibniz, sulla base del razionalismo
cartesiano, considera la
g. sociale come la forma imperfetta della
g.
eterna, divina. Kant propone il concetto fondamentale di
g. come
libertà, che fu ulteriormente sviluppato dall'idealismo hegeliano.
Hegel considera la
g. come una limitazione della libertà
individuale a vantaggio della libertà di tutti e analoga è la
concezione della
g. degli utilitaristi e dei positivisti. • Dir. -
G. amministrativa: complesso degli istituti diretti a garantire la
legittimità dell'azione amministrativa e il buon uso del potere
discrezionale da parte delle pubbliche amministrazioni, rispetto ai diritti e
agli interessi delle persone fisiche e giuridiche che sono sottoposte alla sua
potestà (Zanobini). Nello Stato assoluto, il privato che si riteneva
danneggiato per un atto della pubblica autorità lesivo dei suoi interessi
poteva soltanto rivolgersi alle autorità superiori e talora al sovrano
stesso chiedendo la riparazione del torto in via di grazia, non mai in via di
g. Con l'affermarsi dei principi costituzionali dello Stato moderno, la
tutela del cittadino è affidata a tribunali ordinari o speciali. Quattro
sono i sistemi prevalentemente adottati: quello francese, il belga, il sistema
germanico e quello inglese. Il sistema francese, detto del
contenzioso
amministrativo o della
doppia giurisdizione, è dominato dal
principio della esclusiva competenza di speciali tribunali (Consiglio di Stato e
Consiglio di Prefettura) cui è affidata la decisione delle controversie
in cui è parte la pubblica amministrazione. Esso fu adottato fra gli
altri da vari Stati italiani anteriori all'unificazione ed è il
più diffuso negli ordinamenti europei. Il sistema belga, che segue
storicamente quello francese, attua il principio della
giurisdizione
unica, poiché devolve alla giurisdizione ordinaria sia le
controversie civili che quelle di contenuto amministrativo. Gli ordinamenti che
si sono informati al suo esempio sono il greco ed il romeno. Il sistema tedesco
affida le controversie dell'amministrazione a speciali tribunali, distinti
così dai tribunali ordinari come dagli organi amministrativi. Questa
forma fu assunta dalla maggior parte degli ordinamenti dell'Europa
settentrionale e centrale e, fra quelli extraeuropei, dal Giappone. Il sistema
inglese, come quello statunitense, attua la
g. amministrativa con
l'azione giudiziaria ordinaria. In Italia, dopo l'unificazione, la legge 20
marzo 1865, n. 2.248, allegato E, soppresse i tribunali del contenzioso
amministrativo fino ad allora esistenti, attribuendo all'autorità
giudiziaria le controversie relative ai diritti civili e politici e riservando
all'autorità amministrativa quelle relative agli interessi. La legge
faceva divieto ai tribunali di annullare o modificare gli atti amministrativi,
per evitare il pericolo di una continua ingerenza dei tribunali ordinari negli
affari della pubblica amministrazione, e deferiva al Consiglio di Stato la
decisione dei conflitti fra le due autorità. Regole particolari venivano
poi dettate in materia di imposte e in altre di speciale importanza. Una prima
riforma fu attuata con la legge 31 marzo 1877, n. 2.832, che istituì una
nuova Corte di Cassazione in Roma con la funzione, fra le altre, di risolvere i
conflitti di attribuzione e di giurisdizione. Con l'istituzione della
giurisdizione amministrativa mediante la riforma del 1889 (voluta da Francesco
Crispi) a tutela degli interessi legittimi, si aggiunse una quarta sezione
giurisdizionale; con un'altra legge del 1890 vennero attribuiti determinati
ricorsi, interessanti gli enti pubblici territoriali, alle giunte provinciali
amministrative; con la legge 7 marzo 1907 si creò la quinta sezione
giurisdizionale cui furono riservati i giudizi di merito (con la legge 5 maggio
1948 n. 642 è stata aggiunta una sesta sezione giurisdizionale). La
riforma del 1923 rese indifferenziata la competenza delle due sezioni
giurisdizionali. Secondo la legislazione vigente, la competenza
dell'autorità giudiziaria ordinaria è condizionata dal presupposto
che la controversia abbia origine dalla lesione di un diritto soggettivo
pubblico o privato. In tal caso il potere del giudice è limitato alle
seguenti funzioni: indagare la legittimità dell'atto amministrativo e,
ove sia il caso, dichiarare la illegittimità di esso, in relazione al
caso dedotto in giudizio, e la conseguente lesione del diritto soggettivo;
condannare l'amministrazione al pagamento di una somma di denaro, sia
perché di questa essa risulti debitrice, sia perché la sua azione
antigiuridica abbia prodotto un danno e il danneggiato ne abbia chiesto il
risarcimento. La tutela del privato danneggiato dall'attività
amministrativa si esplica mediante i
ricorsi amministrativi
dell'opposizione, del ricorso gerarchico e del ricorso straordinario al capo
dello Stato.