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Giusti, Giuseppe.

Poeta italiano. Appartenente ad una famiglia nobile ed agiata, si laureò in Legge. Frequentò la brillante società fiorentina e fu in relazioni con i più importanti letterati del tempo, da Manzoni a Poerio, a Grossi. Nel 1847 entrò a far parte della Guardia civica di Pescia con il grado di maggiore. Fu deputato alle Assemblee Legislative di Firenze e poi anche alla Costituente Toscana. Punzecchiò con le sue rime un po' tutti, Mazzini e Carlo Alberto, monarchici e repubblicani, guelfi e ghibellini. In campo letterario derise nel contempo le teorie dei classici e quelle dei romantici. La sua visione del mondo, un po' gretta e priva di orizzonti, vedeva nel buon senso e nel giusto mezzo il migliore comportamento per l'uomo. La sua moralità, pur rigorosa e onesta, si rivela angusta, più attenta alle piccole cose che ai grandi problemi; la sua cultura rimane legata ad un ambiente provinciale, in cui prevale quella "saggezza toscana" tiepida e pigra, così ristretta e incapace di slanci; la sua stessa attenzione verso gli umili, i contadini, è più un atteggiamento lettarario che un vero interesse per quei problemi. Questi limiti di G. non toccano però né la sua figura di patriota (la sua lotta contro i Tedeschi fu continua e priva di patteggiamenti), né la serietà del suo impegno artistico, che lo portò a perfezionare continuamente negli anni la sua naturale facilità poetica, attraverso un attento lavoro di revisione e di limatura delle sue opere. Il genio autentico ed immediato di G. risiede infatti nella notevolissima capacità di osservare la realtà e di trarvi materia di ispirazione, trasfigurandola in forma caricaturale: un gesto, un atteggiamento, un volto, un ambiente diventano, grazie alla sua arguzia, elementi che muovono al riso, momenti farseschi degni della migliore tradizione del realismo italiano. Questa sua abilità satirica, che in alcune poesie conserva qualcosa di artificioso, si eleva al livello dell'arte nel Sant'Ambrogio e in quelle rime in cui le immagini e i ritratti dei personaggi sono rapidi ed incisivi, graffianti, vivacissimi, frutto di una difficile unità fra estro e abilità tecnica. Laddove invece G., spinto dagli avvenimenti politici, tentò un discorso più ampio e articolato, la satira perde di vigore, il discorso si stempera in immagini retoriche, la vivacità scema e al suo posto compare un moralismo pesante che non riesce ad assumere forma poetica. Tra le sue molte composizioni: Il brindisi di Girella, Lo stivale, La Chiocciola, L'Arraffapopoli, Gingillino, Il delenda Carthago, Re Travicello, considerato il suo capolavoro. G. è autore anche di una Cronaca dei fatti di Toscana, un libretto in prosa, divertente ed arguto, in cui l'autore racconta con semplicità ed efficace ironia gli avvenimenti del suo tempo. Per la comprensione della sua figura di uomo e di artista riveste infine un certo interesse l'Epistolario (Monsummano, Pistoia 1809 - Firenze 1850).