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Giolitti, Giovanni.

Statista italiano. Appartenente a una solida famiglia della borghesia, con una lunga tradizione al servizio dello Stato piemontese, intraprese studi giuridici. Laureatosi nel 1862, entrò nell'amministrazione statale come funzionario del ministero delle Finanze. Percorse una brillante carriera, giungendo a ricoprire alte cariche, tra cui quella di segretario della Corte dei Conti e di membro del Consiglio di Stato. Nel 1882 si presentò per la prima volta candidato alle elezioni e fu eletto deputato per il collegio di Dronero (Cuneo), in una lista di sinistra. Durante il primo periodo del suo mandato, non si fece notare se non per le sue capacità di amministratore. Nel 1885, insieme con vari altri deputati piemontesi, abbandonò la maggioranza ministeriale e passò all'opposizione. Il problema specifico che lo aveva spinto all'opposizione era stato quello della politica finanziaria del governo, che tendeva a favorire alcune forze economiche e finanziarie a danno dello sviluppo reale del Paese. G. iniziava così la sua carriera di leader, entrando a far parte di un gruppo di centro-destra, facente capo a Di Rudinì, e comprendente una quarantina di deputati, tra cui Pelloux e Sonnino. In cambio del proprio appoggio al Governo chiedeva, come condizione, le dimissioni del ministro delle Finanze Magliani e l'assegnazione della presidenza a Crispi. Nominato ministro del Tesoro nel governo Crispi (1889-90), G. si distinse per le sue doti di accorto amministratore, sostenendo una politica di contenimento delle spese. Dimessosi nel 1891, si rifiutò di entrare a far parte del governo presieduto da Di Rudinì che, anzi, contrastò apertamente, contribuendo alla sua caduta e ottenendo poi l'incarico di costituire il nuovo Governo di cui chiamò a far parte uomini della sinistra vicini a Zanardelli. Si fece quindi sostenitore di un programma di governo ricco di spunti innovatori, che fu duramente contrastato in Parlamento e nel Paese. Figlio del vecchio Piemonte, egli concepiva lo Stato al di sopra di ogni interesse privato, individuando nella piccola proprietà e nella sua diffusione il fondamento della democrazia. I caratteri fondamentali del programma giolittiano, nella sua prima formazione, restarono in buona parte immutati nel periodo successivo, mentre per un'altra parte cambiarono profondamente, adeguandosi alla realtà e alla mutata situazione generale. Dopo che i suoi potenti avversari erano riusciti a determinarne la caduta nel 1893, rimasto per qualche tempo in ombra, nel 1897 riprese con rinnovato vigore l'attività parlamentare, e la politica reazionaria della fine del secolo lo spinse, nel 1899, insieme con Zanardelli, a passare decisamente all'opposizione di sinistra, contro il governo reazionario di Pelloux. Nel febbraio 1901, la presidenza del Consiglio fu assunta da Zanardelli, vecchio e fedele rappresentante della sinistra, che affidò il ministero degli Interni a G., facendo di lui il proprio più stretto collaboratore. Dimessosi Zanardelli, a causa della salute malferma, G. ne assunse l'eredità, diventando presidente del Consiglio e costituendo tre successivi ministeri, interrotti solo da brevi parentesi. Egli dette il nome a tutto il periodo storico che va dall'inizio del secolo alla prima guerra mondiale. Durante l'"età giolittiana" (1901-14), il sistema classico liberale, istituito con l'unità italiana, raggiunse il suo punto culminante e si concluse, mentre lo sviluppo industriale determinava un'accentuata concentrazione economica e l'introduzione del suffragio universale maschile portava alla ribalta politica le masse organizzate in grandi partiti. Durante l'età giolittiana si affermarono alcuni aspetti fondamentali dello sviluppo capitalistico italiano. Andarono infatti formandosi le prime concentrazioni industriali, mentre socialisti e cattolici davano vita a organizzazioni di massa. All'inizio, il suo programma comprendeva aspetti di democrazia rurale. Successivamente, egli accentuò gli aspetti che facevano leva sull'industria, considerata come l'elemento propulsore della società, basata sulla collaborazione tra imprenditori e dipendenti. Il programma economico di G. tendeva ai seguenti obiettivi: proteggere il bilancio dello Stato contro le pressioni dei grandi interessi privati; incoraggiare l'espansione industriale; ostacolare alcuni monopoli privati e quelle forze finanziarie legate a sistemi produttivi arretrati. Egli intraprese una politica di riforme sociali e di lavori pubblici, sulla base di una concentrazione del capitalismo imprenditoriale capace di eliminare progressivamente ogni forma di rendita e di profitto. Accanto ai problemi dello sviluppo industriale e produttivo, egli considerava non meno importanti quelli della pace sociale e della assimilazione progressiva dei nuovi ceti nello Stato. Nel suo complesso, il sistema giolittiano si basava, da un lato, sulla tacita collaborazione, tra industriali e operai, dall'altro, su un'altrettanto tacita collaborazione tra governo e socialisti, mediante una politica di riforme sociali, di lavori pubblici e di aumenti salariali. Per quanto il sostanziale consenso del socialismo riformista a un tipo di politica sociale che tendeva a favorire le élites operaie del Nord andasse incontro al disegno giolittiano di svuotare il movimento socialista dei propri contenuti politico-ideologici, riducendolo a un semplice movimento rivendicativo, tale disegno non poté realizzarsi che in minima parte a causa dell'esiguità del proletariato industriale rispetto a quello agricolo, controllato dalle correnti socialiste rivoluzionarie. Dovendo abilmente tenersi in equilibrio tra opposizioni di destra e di sinistra, negli ultimi anni di governo G. promosse azioni tendenti a garantirgli, da un lato, l'appoggio della sinistra moderata, dall'altro, quello dei conservatori. Egli infatti concesse il suffragio universale, grazie al quale il numero degli elettori passò nel 1913 da tre a otto milioni, mentre con l'impresa libica (1911-12) inaugurò una politica estera di tipo imperialistico. Con l'intento di farne una base di appoggio per il proprio governo, egli condusse inoltre una politica di avvicinamento verso i cattolici, pervenendo all'accordo elettorale noto come Patto Gentiloni. Questa politica di equilibri e di compromessi, finì col portare le cose al loro estremo limite e la defezione dei radicali provocò l'allontanamento di G. dal potere, proprio quando la situazione politica internazionale si fece particolarmente critica, così che lo scoppio della Grande Guerra lo trovò sui banchi dell'opposizione. La guerra segnò il definitivo tramonto dell'"era giolittiana", e la crisi del dopoguerra contribuì a rompere anche il tacito accordo tra le classi sociali che G. era riuscito a creare negli anni precedenti. Nel 1920, egli costituì il suo quinto governo e si trovò a dover fronteggiare l'occupazione delle fabbriche. Ancora una volta dette prova di abilità e di accortezza, non ricorrendo alla forza contro gli operai come avrebbero voluto gli industriali che avevano deliberatamente provocato quella situazione. La politica di patteggiamenti di G. apparve tuttavia inadeguata a fronteggiare le azioni di lotta aperta scatenate dalla destra estrema. Essa, anzi, consentì a Mussolini, nel maggio 1921, di accedere al Parlamento con una rappresentanza di trentacinque deputati fascisti, presentati in liste concordate con liberali e giolittiani. Egli non si rese conto, in un primo tempo, della pericolosità del movimento fascista. Caduta nel febbraio 1922 la sua ultima candidatura alla presidenza del Consiglio, lasciò che l'incarico venisse affidato, nell'ottobre successivo, a Mussolini, sostenendolo sino all'approvazione della legge elettorale del 1924 che segnò la fine del regime parlamentare. Solo verso la fine del 1924 egli comprese di essersi lasciato trarre in inganno e levò la propria voce contro le restrizioni alla libertà di stampa. Si trattava però ormai di un gesto tardivo e inutile (Mondovì 1842 - Cavour 1928).
Giovanni Giolitti