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ètica.

(dal greco éthos: costume). Parte della filosofia che si occupa del comportamento umano in quanto giudicabile come buono o cattivo. L'e., o filosofia della morale, viene perciò considerata come la dottrina che, ponendo giudizi di valore, consente di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Il termine fu introdotto da Aristotele per indicare le sue trattazioni di filosofia della pratica. Aristotele distingue le virtù pratiche (ossia etiche) dalle virtù teoriche o razionali (ossia dianoetiche). Virtù dianoetiche, in quanto attività proprie dell'anima intellettiva, sono: la scienza, l'arte, la saggezza, l'intelligenza, la sapienza. Virtù e., in quanto comportano il dominio sugli appetiti sensibili, sono: la temperanza, la magnanimità, il coraggio e soprattutto la giustizia che è la virtù e. fondamentale. L'e. classica, in Platone come in Aristotele, si fonda su una psicologia che distingue nell'uomo una parte materiale e una razionale. Essa deriva dalla dottrina di Socrate il cui metodo induttivo tendeva a dimostrare l'impossibilità di ridurre la vita morale a un astratto schema teoretico. Di qui la positività del non sapere quale abbandono della pretesa di ridurre la morale a conoscenza. Il non sapere diviene così la fonte del vero sapere, concepito quale consapevolezza della propria ignoranza e come ricerca costante del bene. Il razionalismo etico aristotelico, affermando la superiorità della ragione sugli appetiti dei sensi e delle passioni, concepisce il bene morale come lotta e vittoria della ragione sulle tendenze istintuali e sulle passioni. Pertanto, l'e. aristotelica considera ogni azione umana volta al "sommo bene": funzione propria dell'uomo è la ragione e l'esercizio di questa è la virtù. Aristotele trattò i problemi e. in due sue opere: L'E. Eudemèa (cosiddetta in quanto edita dal suo discepolo Eudemo di Rodi), ancora fortemente influenzata dalla dottrina di Platone, e l'E. Nicomachéa (o E. a Nicomaco), in cui la dottrina morale aristotelica raggiunge la sua più matura formulazione. Particolare importanza il problema e. riveste nella filosofia politica di Aristotele che distingue nettamente la politica dalla morale personale. Lo Stoicismo rappresenta nell'antichità la massima espressione del razionalismo e. che proclama la superiorità della ragione sugli appetiti e sulle passioni. L'e. stoica, in cui sono presenti vari principi cinici, fa consistere il "sommo bene" nel vivere conforme a natura. Poiché l'universo è retto da una legge inderogabile, l'uomo, in quanto essere pensante e cosciente, ha il dovere di conformarsi ad essa, rifiutando ogni compromesso con le passioni. Secondo altre concezioni, la sola ragione non è in grado di determinare l'azione, dato che l'uomo, per agire, dev'essere spinto da qualcosa di più determinante. Questo qualcosa è, per la concezione edonistica, il piacere. Tipiche concezioni edonistiche sono quelle di Aristippo di Cirene, fondatore della scuola cirenaica, e di Epicuro. Nell'e. epicurea il piacere viene posto come fine supremo della vita morale, intendendo come piacere quello al cui servizio s'impegnano le stesse virtù e che porta l'individuo ad attuare la propria felicità nell'armonioso equilibrio di spirito e di corpo. Al di là delle divergenze tra le varie scuole, l'e. classica, nel suo insieme, si presenta fondamentalmente intellettualistica, distinguendo nettamente nell'uomo il materiale dallo spirituale e nell'anima le parti irrazionali da quelle razionali. Il pensiero filosofico rappresenta però solo una delle manifestazioni dell'e. classica. Infatti, nell'antichità classica, hanno carattere e., sia pure indirettamente, anche i vari riti misterici che si fondano, come quelli orfici, sul principio della purificazione e della rinascita. Carattere decisamente antiintellettualistico presenta la morale del Cristianesimo che considera la vita e. come rinnovamento. Il concetto di rinascita diviene nel Cristianesimo rinascita del peccato. Nell'Antico Testamento era presente il concetto di morale intesa come legge; il comando assoluto che pone di fronte a qualsiasi tendenza umana l'inviolabilità della legge di Dio. Nel Nuovo Testamento corpo e anima si presentano in contrasto dialettico: la morte al peccato è una rinascita che redime e dà un significato alla vita sensibile. L'e. evangelica è una praxis di redenzione e interpreta il valore e lo spirito come qualcosa che si oppone al corpo e all'esistenza temporale. Il Cristianesimo si fonda sul riconoscimento dell'opposizione tra il temporale e l'eterno, tra il pratico e il teorico, tra l'esistenza e il valore, e sul riconoscimento della possibilità del loro accordo attraverso l'autonegazione dell'esistenza. Alla praxis cristiana si contrappone la passività di altre concezioni religiose. Nel Buddhismo, per es. l'e. si risolve nella pura contemplazione, spingendosi sino alla negazione della volontà di vivere. Nel Medioevo si ebbe soprattutto l'approfondimento di temi cristiani, ma nel Rinascimento la concezione e. edonistica dell'antichità si ripresenta, acquistando grande importanza. Come nell'antichità, anche nel pensiero rinascimentale e moderno l'edonismo finisce col risolversi in pessimismo e in scetticismo. Sviluppando le proprie tendenze, esso pone l'accento (Machiavelli, Guicciardini) sul momento particolare, utilitario, sia economico che politico. Così il giudizio su ciò che conta e su ciò che è bene viene a porsi in stretta connessione con ciò che risulta utile e vantaggioso. Così, da un lato, lo sviluppo del razionalismo porta a sottolineare il carattere universale del valore e.; dall'altro lo sviluppo dell'utilitarismo, quale maturazione logica dell'edonismo, porta a sottolineare il carattere individuale dell'azione. In quanto tende a proclamare la superiorità della ragione sugli appetiti sensibili e sulle passioni, il razionalismo e. comporta un notevole margine di autonomia per la morale. Il bene morale viene concepito come lotta sulle tendenze sensibili e sulle passioni, mentre il sentimento e la passione sono considerati fonti di male e di errore. Cartesio giunge a considerare le idee come vere e buone, in quanto chiare e distinte, e a spiegare l'errore come un'intrusione della volontà nell'ambito dell'intelletto. Individualistica e insieme edonistica è la concezione dell'empirismo inglese, da Bacone a Hume, preceduti da Hobbes che aveva considerato la volontà umana unicamente come volontà di affermazione. Tale volontà individuale è frenata soltanto dall'interesse che hanno individui e gruppi a non nuocersi a vicenda, così che, per non autodistruggersi, gli individui giungono ad accettare una volontà assoluta che li trascende, la volontà dello Stato. In Hobbes, quindi, la morale viene sostituita dalla politica, mentre la filosofia del diritto, nel giusnaturalismo e nel contrattualismo, sviluppa i problemi del rapporto tra individuo e società. Hobbes, analizzando la "condotta effettiva" degli individui l'aveva descritta attraverso l'egoismo individuale considerato come il fattore determinante dell'azione. All'e. egoistica di Hobbes, A. Shaftesbury oppose un'altra ipotesi, quella dell'altruismo. Secondo tale ipotesi è altrettanto giusto e naturale che un uomo che vive in società sviluppi sentimenti di simpatia per il prossimo e quindi tenga in considerazione il bene altrui, così come egli cura il proprio interesse e desidera il proprio bene. Aggiunse poi l'ipotesi, anch'essa ricavata dall'introspezione, secondo cui il virtuoso prova piacere nel fare il bene, indipendentemente dalle conseguenze. La teoria del senso morale di Shaftesbury incontrò un'accoglienza molto favorevole e fu elaborata sistematicamente da F. Hutcheson. D. Hume, sotto l'influenza sia di Hobbes che di Shaftesbury e di Hutcheson, ipotizzò il tipo morale dell'egoista amabile, socievole, umano sobriamente amante del piacere. Similmente, A. Tucker (1705-74) considerò la soddisfazione dei desideri individuali come il fine ultimo e il motivo universale dell'azione. G. Bentham, la cui concezione e. utilitaristica fu pienamente condivisa anche da J.S. Mill, sostenne che i soli interessi che un individuo tiene in conto sono i suoi, ma la persona veramente ragionevole e illuminata considera anche gli interessi, i sentimenti e le reazioni altrui. I pensatori del Settecento, in particolare quelli che si pongono tra Hume e Bentham, non fecero che elaborare il concetto-base dell'e. utilitaristica: buona è qualsiasi azione che promuove il benessere sociale, cattiva qualsiasi azione che contrasta tale benessere. L'utilitarismo morale si collega poi col positivismo in generale. Una particolare forma di utilitarismo è quella che si sviluppa nel materialismo storico marxista in cui l'utile viene considerato come struttura economica. Nel pensiero moderno l'e. kantiana rappresenta la massima espressione e sintesi della filosofia morale di ogni tempo. In essa infatti confluiscono vari filoni e si uniscono le esigenze fondamentali espresse dal razionalismo, dall'empirismo, dal sentimentalismo inglese. Il mondo e. si presenta come il regno dei fini_, in contrapposizione al regno dei mezzi proprio del mondo fenomenico, così come si presenta nella realtà, mentre il mondo e. dev'essere realizzato. Proprio in quanto non sussiste nella realtà fenomenica, ma dev'essere realizzato, esso è il prodotto della libera scelta dell'uomo; postula la libertà e comporta responsabilità. Libero di scegliere tra le inclinazioni sensibili e lo spirituale, l'uomo partecipa di entrambi i momenti, è insieme senso spirito, fenomeno e noumeno, mediazione e accordo. Egli tuttavia pecca, dato che, pur avendo coscienza della propria libertà e perciò della possibilità di agire secondo il dovere, si allontana dalla legge morale. All'imperativo categorico che è la perfezione ideale inconoscibile, si contrappone l'imperativo ipotetico che è legato al fenomeno, soggetto alle leggi scientifiche e perciò conosciuto dalla scienza. L'azione utilitaria si svolge parallelamente alla conoscenza scientifica che è regolata da leggi e che quindi non conosce libertà; l'azione morale, invece, implica una verità non conosciuta, ma postulata, che si pone quindi come azione liberamente scelta. Il significato profondo dell'e. kantiana andò perduto nel pensiero post-kantiano, a cominciare dalla preminenza data da Fichte alla ragione pratica. L'e. kantiana venne considerata una morale astratta da Hegel che contrappose ad essa la morale concreta realizzata storicamente: nella famiglia, nella società, nello Stato. Contro l'idealismo hegeliano intervenne J.F. Herbart che, propugnando un ritorno a Kant, affermò l'indipendenza della realtà dalla rappresentazione e dall'io, e l'analisi costruttiva dell'esperienza contro ogni apriorismo. L'e. viene considerata totalmente indipendente dalla metafisica, avendo essa il proprio fondamento nella conoscenza della realtà. La concezione filosofica herbartiana ebbe rilevanti ripercussioni pedagogiche: compito dell'educazione è di formare la personalità morale del fanciullo inserendo nella sua intelligenza un sistema concreto e armonico di principi ideali, eticamente solidi e compiuti. Lo storicismo hegeliano comportò inoltre la svalutazione della persona e della sua libertà a vantaggio del razionalismo della storia. Contro di esso insorse, da un lato, lo storicismo marxista, dall'altro l'esistenzialismo kierkegaardiano. Marx pose l'accento sull'ingiustizia morale insita in una società, come quella capitalistica, che tende a considerare persone e gruppi come puri strumenti economici. Kierkegaard pose l'accento sulla libertà individuale. Secondo la concezione kierkegaardiana, l'uomo e. è colui che diviene consapevole di essere una creatura finita e peccaminosa. Egli dimostra che non si può vivere senza accettare la responsabilità e. della propria vita, senza operare una scelta. Chi vive eticamente attua nella propria vita l'universale nelle forme più ovvie del lavoro, del matrimonio, dell'amicizia. Egli diviene uomo universale, senza cessare di essere uomo singolo. I singoli individui sono esemplari unici, responsabili, determinati dallo spirito e non possono essere confusi attraverso classificazioni generali: "l'e. si concentra sull'individuo: per l'e. è dovere di ogni individuo diventare un uomo completo, come il presupposto dell'e. che ognuno nasce nella condizione di poter diventare un tale individuo". Secondo Kierkegaard, l'uomo e. usa l'ironia come suo incognito, perché ha compreso la contraddizione che esiste tra il suo modo intimo di esistere e la sua condotta esterna che non può esprimere la sua interiorità: "l'uomo e. vede molto bene che ciò che lo occupa non preoccupa assolutamente gli altri, egli capisce questa sproporzione e pone il comico tra sé e gli altri, per potere con maggiore saldezza ancorarsi in se stesso all'e.".