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ITINERARI - L'OCCIDENTE - LA NASCITA DELL'EUROPA

LE MONARCHIE NAZIONALI

L'affermarsi del sistema feudale aveva significato il prevalere dei poteri locali, che una solida copertura di immunità (giudiziarie, fiscali, ecc.) teneva al riparo da intromissioni del potere centrale. La crisi di quel sistema significò il progressivo ritorno ad un forte potere centrale, fermamente deciso a stroncare qualsiasi forma di insubordinazione. I signori feudali avevano amministrato le popolazioni europee esercitando una serie di poteri sovrani (o «regalìe») come le funzioni giudiziarie e di polizia, la riscossione delle imposte, l'arruolamento di forze armate, ecc., che costituivano elemento integrante del feudo. L'obbiettivo dei sovrani europei era di riprendersi questi poteri, e cioè, in sostanza, di spogliarne i signori feudali, che li esercitavano a proprio arbitrio e, per lo più, a proprio profitto, per attribuirli a ufficiali o funzionari pagati, ai quali di volta in volta venivano assegnati specifici e temporanei incarichi di governo, e che potevano essere revocati in qualsiasi momento. È evidente che questo genere di funzionari si mostrava assai più malleabile e disposto ad obbedire alle direttive del proprio principe di quanto non fossero i feudatari, a cui immunità e regalìe venivano concesse una volta per tutte ed erano di norma ereditarie.
La vecchia struttura di governo fondata sul feudo non poteva essere smantellata da un giorno all'altro, anche perché ad essa corrispondeva una classe sociale, l'aristocrazia feudale, che era comunque potentissima e non aveva alcuna intenzione di farsi mettere da parte. Gli stessi sovrani, del resto, condividevano la cultura, i valori, i modi di vita di questa classe e non erano disposti a sbarazzarsene: si trattava piuttosto di educarla all'obbedienza, di inserirla con le buone o con le cattive nel nuovo sistema centralizzato di potere, di trasformare gradualmente i riottosi vassalli di un tempo in premurosi cortigiani o in efficienti funzionari regi. Si trattava, anche, di affiancarle una nobiltà diversa, con gli stessi privilegi, ma con caratteristiche più conformi ai bisogni dello Stato: la nobiltà degli uffici o, come anche si dice, la «nobiltà di toga» (per distinguerla dalla «nobiltà di spada»).
Così, quasi dappertutto in Europa le vecchie strutture dello Stato feudale continuarono ad esistere, sia pure progressivamente svuotate di poteri reali, e sopravvissero a lungo al proprio esautoramento. Le nuove strutture amministrative, fondate sull'ufficio, le crebbero accanto, forti di schiere sempre più numerose di ministri, di giudici, di funzionari, di impiegati. A queste schiere di funzionari pagati, che costituivano le burocrazie regie, si affiancarono gli eserciti permanenti (attivi cioè anche in tempo di pace) costituiti da mercenari, che liberarono i sovrani dalla necessità di ricorrere all'aiuto militare dei vassalli. Era un altro modo di esautorare i nobili signori feudali, per i quali fare la guerra era un piacere prima che un mestiere, e che alle proprie capacità militari dovevano tutto: prestigio sociale, influenza politica, ricchezza. Ora essi furono a poco a poco disarmati, e tutto quel che ancora avevano, cariche, stipendi, pensioni, prebende, lo dovevano al favore (spesso capriccioso) del principe.
La burocrazia e l'esercito permanente liberarono i sovrani dai condizionamenti e dai ricatti dei propri vassalli. La loro volontà era finalmente in grado di farsi valere senza riserve e senza patteggiamenti. Per questa libertà di azione che i sovrani europei vennero progressivamente acquistando (e non solo, come vedremo, nei confronti della nobiltà feudale), il loro potere si disse «assoluto», cioè privo di vincoli e di limitazioni. Ma la complicata transizione dal modello feudale di organizzazione dello Stato a quello assoluto non avvenne ovunque allo stesso modo, né riuscì sempre a compiersi del tutto. Tra il Quattrocento e il Cinquecento tale processo poteva dirsi ben avviato solo nell'Europa occidentale (Francia e Inghilterra soprattutto); nell'Europa centrale (il Sacro Romano Impero) e in quella orientale l'autorità dei grandi feudatari si dimostrò più resistente e un potere monarchico centralizzato stentò ad affermarsi e in qualche caso, in Polonia, per esempio, non ci riuscì mai.
Nell'Europa occidentale l'episodio che pose fine al predominio politico della classe feudale fu la cosiddetta guerra dei Cento Anni (che in realtà durò anche di più: dal 1334 al 1453) e coincise con una spaventosa serie di sciagure, pestilenze e carestie da cui la popolazione europea uscì stremata. La situazione che dette origine alla guerra è caratteristica della confusione di poteri cui poteva dar luogo il sistema feudale: come sappiamo, il re d'Inghilterra possedeva in Francia vasti feudi. Nella sua qualità di sovrano inglese era pari al re di Francia ed era anzi un suo rivale; nella sua qualità di feudatario francese era invece un suo vassallo. Questa complicata situazione parve dovesse risolversi quando, approfittando di un momento di debolezza dell'avversario, il re d'Inghilterra cercò di conquistare anche la corona di Francia. Di fronte all'invasione inglese molti nobili francesi tradirono il proprio sovrano e gli altri non furono capaci di difenderlo. L'esercito francese, composto da aristocratici che combattevano a cavallo e carichi di pesanti armature, fu più volte sconfitto da quello inglese, che aveva perso quasi del tutto l'antico carattere feudale, essendo reclutato in maggioranza tra le classi sociali più umili dell'Inghilterra. Naturalmente questa gente non combatteva a cavallo, ma a piedi: i fanti inglesi erano forniti però di un'arma formidabile, l'arco lungo, nell'uso del quale avevano raggiunto una straordinaria abilità, anche perché il tiro era lo sport abituale in ogni villaggio inglese. Quando la famosa cavalleria francese caricava, gli arcieri inglesi miravano ai cavalli e una nuvola di frecce, scoccate tutte insieme, spezzava la foga dell'attacco: caduti da cavallo e impacciati dalle armature, i cavalieri francesi si dibattevano inutilmente a terra e cadevano facilmente preda degli avversari.
Il re inglese riuscì davvero ad un certo punto ad impadronirsi della corona di Francia. Ma l'invasione aveva scatenato l'odio dei Francesi contro gli stranieri e la loro resistenza non poté essere piegata. Ormai gli Inglesi non si trovavano più a combattere soltanto contro quella parte dell'aristocrazia feudale francese che non aveva tradito il suo re, ma contro tutto il popolo francese. Di questa seconda fase della lotta, caratterizzata da una larga partecipazione delle forze popolari e diventata perciò una lotta di liberazione nazionale, fu protagonista Giovanna d'Arco, una semplice pastorella che, dicendosi ispirata da Dio, riuscì a conquistare la fiducia dei soldati e a farsi assegnare dal re una vaga funzione di comando. Le sue prime azioni militari furono coronate da successo e da quel momento la liberazione della Francia fu in pratica assicurata. L'eroina, però, catturata durante uno scontro, fu processata e condannata al rogo come strega.
La guerra aveva creato alla corona di Francia, tra le altre cose, gravissimi problemi finanziari. Da tempo i re contrattavano con i rappresentanti della nobiltà e con quelli del clero l'entità delle imposte che questi due ordini si impegnavano a pagare e la stessa pratica era stata stabilita anche con diverse città. Durante la guerra e in relazione alle crescenti necessità della corona, questi negoziati divennero più frequenti e più burrascosi, ma soprattutto si spostarono dal piano locale e provinciale a quello nazionale. Emersero così come una delle fondamentali istituzioni del regno gli Stati Generali, ossia l'assemblea rappresentativa della Nazione (l'equivalente del Parlamento inglese). Questa assemblea era costituita dai rappresentanti, appunto, dei tre Stati (o ordini) della nobiltà, del clero e del cosiddetto «terzo Stato» e cioè teoricamente di tutti gli altri, di fatto della borghesia (gli abitanti delle città). Tra il 1355 e il 1357, nel momento di maggiore debolezza della corona, gli Stati Generali, trascinati dai rappresentanti della borghesia parigina, riuscirono ad affermare il principio (analogo a quello sancito in Inghilterra dalla Magna Charta) che nessun tributo avrebbe più potuto essere riscosso dal re senza il consenso degli Stati. Ma le divisioni interne all'assemblea non permisero di consolidare queste prime conquiste.
Al termine della guerra Carlo VII (1403-1461), il re che portò a termine la liberazione del Paese, e il suo successore Luigi XI (1423-1483) riuscirono a farsi riconoscere il diritto di esigere in perpetuo alcuni tributi, come la taglia, una tassa sulla terra da cui nobiltà e clero erano esenti e che pertanto gravava solo sui contadini. Potendo contare su entrate sicure che non aveva più bisogno di negoziare con nessuno, la corona si liberava di fatto del controllo degli Stati Generali, che infatti solo in momenti di grave crisi della monarchia sarebbero tornati ad esercitare o a rivendicare un ruolo importante nello Stato. Quanto all'aristocrazia, che aveva dato così cattiva prova di sé durante la guerra, non poté fare altro che sottomettersi all'autorità del re: gli ultimi recalcitranti esponenti del disordine feudale furono liquidati senza complimenti da Luigi XI. Alla fine del Quattrocento il Regno di Francia era una delle più solide monarchie nazionali del continente europeo. In Inghilterra, invece, al termine della guerra dei Cento Anni era scoppiata una feroce guerra civile per il controllo del trono tra due fazioni dell'aristocrazia. Fu la guerra delle Due Rose, così detta dagli emblemi dei due gruppi rivali: una rosa rossa e una rosa bianca, rispettivamente per la casa di Lancaster e per quella di York. Alla fine, esaurita dalle continue lotte e dalle numerose esecuzioni che facevano seguito ad ogni cambiamento di governo, la nobiltà inglese dovette piegarsi di fronte a Enrico VII che nel 1485 si impadronì della corona dando inizio alla nuova dinastia dei Tudor. Riconosciuto dal Parlamento, con l'appoggio della borghesia e del popolo minuto che erano rimasti estranei alle lotte interne alla nobiltà, Enrico poté riportare la pace nel Paese e instaurare un governo accentratore e sotto molti punti di vista «assoluto».

GIOVANNA D'ARCO

Caduta nelle mani degli Inglesi, Giovanna d'Arco fu processata da un tribunale ecclesiastico e condannata al rogo come eretica e strega. Fu bruciata a Rouen il 1431. Nel 1456, però, a guerra finita, e pienamente ristabilita in Europa l'autorità della monarchia francese, Giovanna fu riabilitata dalla Chiesa che, mezzo millennio più tardi (nel 1920), l'avrebbe addirittura fatta santa e proclamata patrona di Francia. La controversa leggenda di Giovanna d'Arco (1412-1431), detta «la Pulzella d'Orléans» (il francese pucelle è diminutivo del latino puella = «ragazza», ironicamente incrociato con pulicella o pullicella, diminutivi di pulex = «pulce» e di pullus = «pollo»), inizia già all'indomani dell'incoronazione a re di Francia di quel Carlo VII che proprio Giovanna aveva contribuito a far consacrare, combattendo vittoriosamente per liberare il suo Paese dagli Inglesi. Uno dei primi documenti letterari riferiti alla straordinaria storia di questa semplice figlia di contadini, che dall'età di tredici anni era «visitata» da voci considerate divine, risale infatti al 1429, quando Giovanna era ancora in vita: si tratta di un breve poemetto, Le Ditté de Jeanne d'Arc, composto da Christine de Pisan. Ma la fortuna letteraria di Giovanna annovera nomi ben più rilevanti. Anche William Shakespeare, nella prima parte dell'Enrico VI, ci presenta la Pulzella: qui però, tra il primo e il quinto atto, Giovanna si trasforma da vergine ispirata a «turpe e maledetta ministra dell'inferno», che attende un figlio di incerta paternità. Sulla stessa strada della demolizione della leggenda di Giovanna si è messo nel XVIII secolo Voltaire (1694-1778) con La Pulcelle d'Orléans (l'edizione definitiva è del 1762), un poema eroicomico in ventun canti, sul genere dell'Orlando Furioso di Ariosto. Giovanna d'Arco vi viene dipinta come una rozza e licenziosa servetta di osteria:

Scaltra, gagliarda, ogni faccenda piglia,
alza pesi con man grassa e nervosa,
versa fiasconi e serve con piacere
l'artigian, l'avvocato, il cavaliere.
Cammin facendo, mena schiaffi a quanti
con indiscreta illiberal maniera
or di dietro la tastano, or davanti:
travaglia e ride da mattina a sera,
striglia e guida i cavalli calcitranti,
li abbevera, li cura, e più leggera
d'una piuma lor salta sulla groppa,
qual romano soldato, e via galoppa.

Il ruolo di vergine guerriera e il tema della missione ispirata da Dio furono reintegrati completamente nell'Ottocento, tra gli altri dal poeta tedesco Friedrich Schiller (1759-1805) con la tragedia La pulcella d'Orléans, rappresentata nel 1801, e da ben tre opere che, sul finire del secolo scorso, lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) le ha dedicato. Nel 1923 fu rappresentato per la prima volta il dramma storico Santa Giovanna, del letterato irlandese George Bernard Shaw, nel quale la Pulzella, capace di dialogare direttamente e semplicemente con Dio, incarna una sorta di religiosità naturale, estranea alle ipocrisie e alle superstizioni della Chiesa.
Altre numerose opere, anche in musica (esiste una Giovanna d'Arco di Giuseppe Verdi), sono state ispirate direttamente o indirettamente (per esempio il dramma Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht) alle gesta e al personaggio della patrona di Francia, tra cui anche una straordinaria opera cinematografica, La passione di Giovanna d'Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, realizzato nel 1928.

BUROCRAZIA

Nel latino del tardo impero burra era una stoffa di lana molto grossolana. Da burra è venuto il francese bure o burel che dal XII o XIII secolo ha indicato una particolare stoffa per tappezzare mobili e in particolare scrittoi o scrivanie. Dal Cinquecento bureau è venuto a indicare la scrivania, poi il locale dove questo particolare mobile era collocato, e quindi gli uffici, dove le scrivanie troneggiano, e in particolare gli uffici pubblici. Bureaucratie (da cui l'italiano «burocrazia») è un termine forgiato nel Settecento in Francia sul modello di aristocratie per indicare il potere (greco kràtos = «forza», «autorità») degli ufficiali pubblici. Sta a indicare sia la funzione (il «potere») della pubblica amministrazione, sia l'insieme dei suoi funzionari e impiegati. Per estensione è usato talvolta per indicare anche l'insieme degli impiegati di enti o istituzioni private, che, per dimensioni o funzioni, presentano caratteri simili a quelli degli enti e uffici pubblici.

NAZIONE E PATRIA

«Nazione da Nascere, come Uccisione da Uccidere»: così si legge nel grande Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo pubblicato tra il 1859 e il 1879. In effetti, in tutti i diversi significati in cui la si usa o la si è usata, la parola «nazione» è associata in qualche maniera all'idea di generazione di origine, di discendenza. Boccaccio parlando di un tale dice che non era «di gran Nazione», e intende dire che era di modesta origine, di umili natali. Dante dice del Veltro che «sua nazion sarà tra Feltro e Feltro» e qui «nazione» sta per luogo di origine o Paese natale. Questi significati non sono più nell'uso moderno.
Oggi il termine è a volte usato come sinonimo di Stato (esempio: Le Nazioni Unite, la Società delle Nazioni) oppure di popolo inteso come elemento costitutivo dello Stato (i deputati al Parlamento, ad esempio, sono detti «rappresentanti della Nazione») o come controparte del governo (ogni tanto i governi, specialmente quando si trovano nei guai, lanciano appelli alla Nazione) oppure nel significato più generico di «genti» (le Nazioni civili, le Nazioni barbare). «Nazione», però, ha anche un suo significato specifico, che è il più diffuso e che sembra abbastanza chiaro: tutti capiscono quel che vogliono dire espressioni come «la Nazione italiana», «la Nazione francese», ecc. Eppure darne un'esatta definizione non è facile.
In latino la parola natio (genitivo nationis) aveva pressappoco gli stessi significati che in italiano, ma con un raggio di applicazione più vasto. Poteva indicare indifferentemente la razza di un animale, la qualità di una merce (si diceva: cera pura natione pontica per indicare il tipo di cera prodotto nel Ponto), o una classe di persone (per esempio: famelica hominum natio = «razza di gente famelica»); in quest'ultimo caso la parola prendeva un'intonazione ironica e spregiativa, come quando noi diciamo «razza padrona» oppure: «che razza di imbecille!». Applicata ad un popolo, la parola sottolineava l'origine comune (nel senso di razza o di stirpe) e la peculiarità dei costumi, ma nulla di più.
Questa genericità di significato è rimasta a lungo legata alla parola. Nel Medio Evo e nei primi secoli dell'Età Moderna, ad esempio, istituzioni, comunità o assemblee che raccoglievano gente di diversa provenienza (i conclavi dei cardinali, le Università degli Studi, le comunità mercantili, ecc.) si dividevano di solito per Nazioni. Queste Nazioni però non coincidevano affatto con quelle di oggi: all'Università di Parigi, ad esempio, la Nazione inglese comprendeva, oltre agli Inglesi veri e propri, i Tedeschi, i Danesi, ecc.; a Genova la Nazione dei mercanti tedeschi comprendeva anche gli Olandesi e i Fiamminghi; e così via. «Patria» è termine tanto equivoco quanto «nazione»: vuol dire il luogo dove si è nati o dove tradizionalmente risiede la famiglia in cui si è nati (dal latino terra patria = «terra del padre» o più genericamente, «degli avi»). Ma quanto è grande questo luogo? Se sono nato nella parrocchia di San Camillo, nella città di Roma, che è la capitale d'Italia, l'Italia, Roma e la parrocchia di San Camillo hanno tutte e tre ottimi titoli per essere considerate la mia patria. Toccherà a me, allora, di volta in volta, decidere quale è la patria che conta di più per me. E bisogna poi aggiungere l'Europa, l'Occidente e, perché no? il mondo: con l'avvertenza che se l'europeismo può essere una forma di nazionalismo (in quanto l'Europa si definisce in opposizione o in concorrenza a ciò che non è Europa), il «cosmopolitismo» (dal greco kòsmos = «mondo» «universo» e polìtes = «cittadino») è la negazione di ogni divisione o rivalità nazionale (un verso di una canzone anarchica dice: «Nostra patria è il mondo intero»).
Nel Medio Evo i legami di solidarietà più forti erano certamente quelli a livello parrocchiale o cittadino, e cioè, come diremmo oggi con una punta di disprezzo (ma questo stesso disprezzo è conseguenza del trionfo ottocentesco dei nazionalismi!), a livello di «campanile»; o altrimenti, quelli a livello europeo (se per Europa intendiamo la Cristianità occidentale, in opposizione al mondo ortodosso e, ancora di più, a quello islamico). Il livello intermedio era proprio quello dove l'amor di patria era meno vivo: Francia, Spagna, Inghilterra, Italia erano per i più entità astratte, mere espressioni geografiche, e sono diventate «patrie» solo al termine del lungo processo di formazione degli Stati nazionali, concluso grosso modo nel secolo scorso, o, per meglio dire, nel periodo tra la Rivoluzione Francese e la Grande guerra.

GUERRA, PESTE E CARESTIA

Quella della guerra dei Cento Anni fu un'epoca di crisi generale in Europa. La popolazione, cresciuta oltre le limitate capacità dell'agricoltura di produrre beni alimentari, si trovò esposta alla fame cronica e a frequenti carestie. La scarsa e cattiva alimentazione tendeva ad abbassare le difese naturali dell'organismo umano mentre il sovraffollamento delle città non poteva che peggiorare le condizioni igieniche. Così le epidemie presero a colpire ripetutamente e duramente la popolazione europea. La peggiore, la «peste nera» della metà del Trecento (quella di cui parla anche Boccaccio nel Decameron), proveniente dall'India, percorse da Sud a Nord tutta l'Europa, causando decine di milioni di morti. Complessivamente nel corso del Trecento la popolazione europea perse almeno un terzo dei settanta milioni di abitanti che contava all'inizio del secolo.
Alla fame, alle pestilenze, alle devastazioni della guerra si affiancarono tensioni sociali sempre più gravi. Rivolte e disordini scoppiarono un po' dovunque tra le classi più umili, sia delle città, sia delle campagne. A Firenze, nel 1378, i Ciompi, ossia gli operai salariati dell'arte della lana, si ribellarono ai loro padroni e tentarono di formare un'autonoma organizzazione di mestiere; dopo alcuni successi iniziali (ottennero perfino di entrare nel governo della città) il loro movimento fu represso, con il conseguente scioglimento di diverse «arti minori» (quelle dei lavoratori dipendenti e di minuti artigiani) a tutto beneficio dei mercanti e dei ricchi imprenditori delle «arti maggiori».
Vent'anni prima, nella primavera del 1358, una violenta rivolta contadina, detta jacquerie (da Jacques Bonhomme, ossia, potremmo tradurlo, Giacomo Bonomo, un personaggio leggendario, simbolo del contadino francese) aveva scosso la Francia: causata dalla povertà e dalla fame, era una forma violenta di protesta contro la guerra, contro le tasse di guerra, contro le rapine e i saccheggi delle bande di soldati che vagavano da un capo all'altro del Paese, e infine contro l'oppressione dei signori feudali. La rivolta era stata rapidamente e spietatamente repressa dai nobili. Ma altre jacqueries tornarono a scoppiare improvvise nei decenni successivi, non solo in Francia, ma anche nelle Fiandre, in Germania, in Boemia e non solo per cause connesse alla guerra, ma per la generale, crescente insofferenza delle popolazioni rurali verso gli obblighi feudali a cui erano sottoposte.
Nel 1381 in Inghilterra i contadini si ribellarono contro i tributi di guerra e contro il tentativo dei signori di restaurare nelle sue forme più dure la servitù della gleba, di cui molti di loro si erano liberati e gli altri volevano liberarsi. Assalirono e incendiarono i castelli, devastarono le proprietà dei nobili e le loro riserve di caccia, assassinarono proprietari e ufficiali regi, badarono soprattutto a dar fuoco agli archivi che conservavano la documentazione relativa agli obblighi feudali dei coloni, affinché se ne perdesse la memoria. Poi, in centomila, marciarono su Londra guidati da Wat (o Walter) Tyler, un reduce della guerra in Francia, dove si impadronirono di palazzi e fortezze, e uccisero il Cancelliere del regno, l'arcivescovo Sudbury, responsabile dell'imposizione delle nuove tasse sui contadini. Non era una jacquerie: il movimento aveva dei capi, una organizzazione unitaria, un programma politico consistente nell'eliminazione della servitù contadina e nella confisca e nella distribuzione ai contadini delle terre della Chiesa.
Il re, il quattordicenne Riccardo II (1367-1399), si mise ufficialmente dalla parte dei ribelli e, accettando il primo punto del loro programma, emanò un provvedimento generale di emancipazione dei contadini. Si guardò bene, però, dall'accogliere l'altro. Nello stesso tempo manovrò per decapitare il movimento e disperdere gli insorti, molti dei quali, del resto, erano già tornati alle loro case. Mentre si intratteneva a colloquio con lui, fece prendere a tradimento e uccidere Wat Tyler. Poi, continuando nella sua finzione, mostrò di voler assumere direttamente il comando degli insorti che erano rimasti a Londra (non più di trentamila), e un po' con le buone un po' con le cattive riuscì ad allontanarli. A quel punto seguì, inevitabile, la repressione del movimento contadino e si scatenò la feroce vendetta dei signori contro quanti vi avevano partecipato. Il Parlamento si affrettò ad annullare gli statuti di emancipazione concessi, anche se il proposito di restaurare nelle campagne inglesi la servitù della gleba si rivelò impraticabile.

JACQUERIE

Il nome jacquerie è entrato nell'uso per indicare le insurrezioni contadine che, come quella del 1358, presentano un carattere spontaneo e non organizzato, e che sembrano non avere altro obiettivo che l'esecuzione di una sommaria giustizia (il massacro dei presunti colpevoli o la devastazione dei loro beni) contro i responsabili delle sofferenze del popolo (signori feudali, usurai, esattori delle imposte, ecc.). La mancanza di programmi e di organizzazione è considerato il principale elemento di debolezza di questi movimenti. In effetti le jacqueries iniziano di solito con improvvise e terrificanti esplosioni di violenza, ma tendono a esaurirsi in breve tempo e finiscono quasi sempre per essere soffocate in un bagno di sangue.

UNA RIFORMA SEMPRE RINVIATA

La Chiesa di Roma era cresciuta nel corso dei secoli come grande potenza terrena: si era impadronita di immense proprietà terriere in ogni parte dell'Europa occidentale, i suoi vescovi e i suoi abati avevano esercitato ovunque funzioni amministrative e di governo in virtù di speciali prerogative feudali; i suoi pontefici, dopo essersi costruiti un vasto dominio territoriale nell'Italia centrale, avevano tentato di imporre la propria autorità ai sovrani d'Europa. Molti, come abbiamo visto, dentro e fuori la Chiesa si domandavano che cosa avesse a che fare tutto ciò con il messaggio evangelico che invitava alla povertà, alla mansuetudine, alla carità insegnando il rifiuto del potere e della violenza.
Nello stesso tempo l'organizzazione ecclesiastica aveva acquistato una struttura fortemente gerarchica che faceva capo al pontefice. Anche il potere autocratico del pontefice e la struttura gerarchica della Chiesa sembravano contrastare con gli insegnamenti del cristianesimo primitivo, che, almeno nell'immagine che se ne facevano i riformatori, si era organizzato in comunità di eguali, fondate sulla collaborazione e sulla fratellanza e non, come la Chiesa moderna, sul principio d'autorità e sulla disciplina.
Dal punto di vista religioso, un aspetto particolarmente sconcertante dell'autoritarismo ecclesiastico era poi la netta separazione tra clero e laicato. Il clero era investito di tutti i poteri e di tutte le funzioni (interpretazione e insegnamento della dottrina evangelica, amministrazione dei sacramenti e celebrazione dei riti, godimento dei beni e delle rendite ecclesiastiche); il laicato era escluso da ogni partecipazione attiva e consapevole alla vita della Chiesa. L'uso del latino nelle cerimonie religiose, l'uso cioè di una lingua che la grande massa dei fedeli non era più in grado di capire, era un poco il simbolo di questa riduzione dei laici al ruolo di semplici e inerti spettatori.
Di tutti questi problemi si fece interprete nella seconda metà del Trecento l'inglese John Wyclif (o Wycliffe, 1320 ca. - 1384). L'idea centrale del suo pensiero era che Dio, signore assoluto del mondo, non delega a nessuno i suoi poteri, sicché ogni uomo si trova immediatamente in presenza di Dio: con lui, se così ci si può esprimere, ognuno deve vedersela da solo. Ciò significava che le pretese papali di rappresentare Dio in Terra erano semplicemente assurde e che la mediazione della Chiesa tra il credente e Dio era sostanzialmente inutile. L'uomo è irrimediabilmente corrotto dal peccato, i suoi presunti meriti non contano nulla, e solo Dio può salvarlo con la sua grazia.
Da queste premesse Wyclif traeva alcune importanti conseguenze: se il papa non rappresentava nessuno all'infuori di se stesso, anche le sue pretese di supremazia sui sovrani di questo mondo erano infondate. Semmai, toccava proprio ai re, immagini della regalità di Cristo, esercitare un potere eminente sull'autorità sacerdotale. La Chiesa pretendeva di essere l'unica interprete autorizzata del Vangelo; in realtà, essa stessa doveva essere giudicata in base al Vangelo. La Chiesa, del resto, non si identificava affatto con la gerarchia sacerdotale, ma piuttosto con la comunità degli eletti, e cioè dei cristiani a cui Dio aveva concesso la sua grazia. Nessun sacerdote (e tanto meno il papa) aveva dunque il diritto di esercitare le sue funzioni se il suo comportamento non era conforme al Vangelo; ancor meno aveva diritto di godere di beni e rendite ecclesiastiche.
E non era certo conforme al Vangelo aspirare, contro la legittima autorità civile, a un potere stravagante e ingiusto, accumulare ricchezze a danno dei poveri, turlupinare i fedeli con indulgenze e pratiche religiose tutte esteriori, derubare il popolo con le decime. La Chiesa doveva riscoprire i valori evangelici della semplicità, dell'umiltà, della povertà; doveva, soprattutto, schierarsi con gli umili e con i poveri.
Di poveri in quegli anni ce ne erano molti in Inghilterra a causa sia della guerra con la Francia (la guerra dei Cento Anni), sia delle pestilenze e delle carestie che avevano colpito tutta l'Europa e che continuavano periodicamente a imperversare, sia, infine, dell'atteggiamento dei signori feudali e dei proprietari terrieri che, di fronte alle difficoltà che tutta l'economia europea si trovava ad attraversare, cercavano di rifarsi sui contadini loro dipendenti aggravandone gli obblighi servili, o addirittura scacciandoli dalle terre loro affidate per trasformarne i campi in pascoli, che risultavano più remunerativi (per i padroni): «le pecore», si diceva, «mangiano gli uomini».
Intorno al 1380 si formò il movimento detto dei «Lollardi», animato da una quantità di poveri preti e di predicatori laici che, in aperta contrapposizione con la Chiesa ufficiale e ispirandosi alle dottrine di Wyclif, percorrevano l'Inghilterra da un capo all'altro, proclamando l'uguaglianza di tutti gli uomini e incitando i contadini a ribellarsi contro l'oppressione feudale. Uno di loro, John Ball, in una sua predica, ripeteva i versi che, come un ritornello rivoluzionario, avrebbero accompagnato la lunga marcia della democrazia in Inghilterra:

Quando Adamo zappava
ed Eva filava
chi era allora gentiluomo?

E commentava:

... All'origine dei tempi tutti gli uomini erano uguali. La servitù fu introdotta dall'azione ingiusta degli iniqui in contrasto con la volontà di Dio, giacché se Dio avesse avuto l'intenzione di fare gli uni servi e gli altri signori, avrebbe stabilito questa distinzione fin da principio [...]. Il tempo è venuto di estirpare ed eliminare i cattivi signori, i giudici ingiusti, i legulei, che ostacolano il bene comune. Allora ci sarà la pace per il presente e la sicurezza per l'avvenire...

Erano anche prediche come queste che avevano portato i contadini inglesi nel 1381 a marciare su Londra chiedendo tra l'altro la confisca delle terre della Chiesa a beneficio dei poveri. Wyclif non partecipò alla marcia, che pure godeva di tutte le sue simpatie, ma certo vi parteciparono parecchi Lollardi. Il loro movimento, che era insieme di protesta sociale e religiosa, aveva raggiunto in breve tempo una straordinaria diffusione. Si diceva che un inglese su quattro fosse lollardo, segno che le idee di riforma erano più che mai popolari. E la cosa non era vera solo per l'Inghilterra. In Boemia, ad esempio, nel cuore dell'Europa, sorse in questo tempo un movimento affine ai Lollardi, ispirato alle dottrine di Jan Hus, un ammiratore di Wyclif.
Ma a chi sarebbe toccato promuovere la riforma della Chiesa, primo passo per un riforma generale della società? Erano gli anni in cui il prestigio dei pontefici attraversava un momento di grave smarrimento La «cattività avignonese» si era conclusa in uno scisma, anzi in una serie di scismi, e prima due e poi tre papi contemporaneamente (li chiamavano «la Maledettissima Trinità») si erano disputati la cattedra di San Pietro, senza che nessuno riuscisse a capire chi fosse il papa e chi l'antipapa (tanto che se Santa Caterina da Siena parteggiava per l'uno, San Vincenzo Ferrer parteggiava per l'altro). Parve allora che l'autorità dei concili potesse tornare ad avere il sopravvento su quella del pontefice, come era stato nei primi tempi della Chiesa, e che un Concilio potesse prendere l'iniziativa della riforma.
Ma l'esperienza conciliare non fece affatto buona prova. Alla fin fine i Concili erano espressione non del popolo di Cristo, ma della gerarchia ecclesiastica, e difficilmente avrebbero potuto, per compiacere il primo, assumere iniziative contrarie agli interessi della seconda. Il Concilio di Costanza, durato quattro anni, dal 1414 al 1418, riuscì a mala pena a sanare lo scisma deponendo tutti e tre i papi regnanti ed eleggendone un quarto. Quanto alla riforma della Chiesa, si limitò a condannare le dottrine dei due maggiori riformatori del tempo, John Wyclif e il suo continuatore boemo Jan Hus.
Professore dell'università di Praga, Hus aveva preso a predicare (in lingua cèca) contro il primato del papa e contro la vendita delle indulgenze. Uno dei papi allora regnanti lo aveva scomunicato. Ma il Concilio di Costanza riuscì a far di peggio: lo invitò a chiarire di persona le sue posizioni e quando Hus si presentò a Costanza, munito di un salvacondotto dell'imperatore, lo fece arrestare (illegalmente), lo processò (altrettanto illegalmente), lo condannò a morte, lo mandò al rogo. In Boemia scoppiò una rivolta e gli hussiti sopravvissero come organizzazione politico-religiosa sino a confluire, un secolo più tardi, nel grande movimento della Riforma protestante. Quanto a Wyclif, che era morto da oltre trent'anni, il Concilio ordinò che il suo cadavere fosse dissotterrato perché potesse essere anche lui gettato sul rogo.
Il successivo Concilio di Basilea (1431-1440) avrebbe dovuto finalmente procedere alla riforma della Chiesa in capite et in membris (nel suo capo e in tutte le sue membra), come volevano i sostenitori della supremazia del Concilio sul papa, o anche solo in membris, come voleva il papa. Riuscì invece soltanto a riaprire lo scisma eleggendo imprudentemente un antipapa, a cui il papa reagì convocando un anticoncilio. La vicenda si concluse con il pieno discredito dell'idea conciliare e con il definitivo trionfo dell'autocrazia papale (nel cui ambito al Concilio non restava che una vaga funzione consultiva).

LA MOSCOVIA

Nel XII secolo il principato di Kiev si era smembrato in tanti Stati spesso in lotta fra di loro e avviati anche economicamente sulla strada di una lenta decadenza. Quando, nel secolo successivo, si abbatté su di loro l'improvviso e terribile attacco mongolo, essi non erano più in grado di opporre una seria resistenza.
I Mongoli erano degli straordinari conquistatori. Agli inizi del XIII secolo avevano abbandonato le loro sedi originarie nell'Asia centrale e si erano riversati sulla Cina del Nord, che avevano sottomesso. Più tardi si erano rivolti verso Occidente e nel 1223 avevano affrontato e distrutto un grande esercito russo inviato a fermarli. Poco dopo cominciò l'invasione vera e propria della Russia. Nel giro di una ventina d'anni conquistarono una dopo l'altra numerose città: Rjazan, Suzdal, Rostov, Cernigov, la stessa Kiev.
La marea mongola si arrestò alla fine sui confini della Polonia, ma un grande Impero Mongolo, l'Impero dell'Orda d'Oro, con capitale a Saraj presso il Volga, dominava ormai gran parte della Russia. A Occidente altri territori russi erano destinati a cadere in mano di Polacchi e di Lituani. Si spezzava così quell'unità del popolo russo che il Principato di Kiev era riuscito a realizzare.
Il dominio mongolo si ispirò a criteri di grande moderazione. Il sovrano mongolo, il Khan dell'Orda d'Oro, non spodestò i principi russi sconfitti, ma si limitò a pretendere da loro la sottomissione e, soprattutto, tributi. Con uno spirito di tolleranza sconosciuto nel mondo cristiano, i Mongoli, che erano in maggioranza musulmani, rispettavano la religione cristiano-ortodossa e non pretesero di modificare i costumi o le leggi del popolo russo. Su tutto il territorio a loro soggetto, poi, organizzarono un'efficiente amministrazione, curando in special modo il settore dei trasporti e delle comunicazioni.
Per certi aspetti, dunque, il dominio mongolo costituì addirittura un'esperienza vantaggiosa per la Russia. Esso però causò l'isolamento del popolo russo (ad esclusione della repubblica di Novgorod, che continuò ad avere attivi rapporti con l'Occidente) dal resto dell'Europa e gli effetti di tale isolamento si fecero sentire a lungo, anche dopo il crollo della potenza mongola.
La riscossa nazionale russa fu opera di un piccolo principato, quello di Mosca, nato tra il XII e il XIII secolo nato dallo smembramento dello Stato di Kiev e presto caduto sotto il controllo dei Mongoli. Sebbene destinato a liberare la Russia dal dominio mongolo, il principato di Mosca riuscì a crescere di potenza e d'autorità proprio grazie ai Mongoli. I principi moscoviti, infatti, erano in un certo senso gli uomini di fiducia del Khan: per suo conto riscuotevano dagli altri principi russi i tributi dovutigli e il loro esercito era sempre pronto a reprimere qualsiasi tentativo di ribellione contro la sua autorità.
Esercitando questa funzione di esattori e di poliziotti al servizio dell'Orda d'Oro, i principi di Mosca si arricchirono ed estesero a poco a poco il proprio territorio sino a raggiungere una posizione di egemonia su tutta la Russia. Anche il metropolita (la più alta autorità religiosa dopo il patriarca) della Chiesa ortodossa, che era il capo spirituale del popolo russo, dovette riconoscere questa loro supremazia: nel 1328 stabilì la propria sede a Mosca e da quel momento il clero russo seguì docilmente la politica dei principi moscoviti.
Nel XV secolo la Moscovia si affermò definitivamente come il nucleo del nuovo Stato nazionale, destinato ad assorbire progressivamente ogni altro territorio russo. I maggiori successi in questo senso furono ottenuti sotto il regno di Ivan III il Grande (1462-1505). Combattendo contro i principi rivali e contro la Lituania, Ivan III si impadronì di Jaroslav, di Perm, di Rostov, di Tver. Nel 1478 riuscì a sottomettere la potente repubblica di Novgorod, che si era alleata alla Lituania. Il successore di Ivan III continuò la sua opera annettendo Pskov e Rjazan.
Mentre il principato di Mosca cresceva in estensione e in potenza, lo Stato dell'Orda d'Oro andava disgregandosi a causa di discordie interne e di guerre con altri potentati mongoli. Così, nel corso del XV secolo, i rapporti di forza tra i Russi e i loro dominatori si modificarono profondamente a tutto vantaggio dei primi. I principi di Mosca, che erano stati i più fedeli vassalli del Khan mongolo, ne approfittarono per sottrarsi a ogni dipendenza nei suoi confronti. Nel 1480 Ivan III rifiutò di pagare al sovrano mongolo il consueto tributo e per far ciò non fu neppure costretto a combattere. La sua potenza era tale, ormai, che gli bastò minacciare una grande campagna militare per indurre l'antico padrone a non avanzare più alcuna pretesa nei suoi confronti.
Terminava così dopo due secoli e mezzo il dominio mongolo sulla Russia: dopo altri settant'anni i Mongoli furono cacciati via anche dai territori posti a Nord del Caucaso e del Mar Caspio. Ma il nuovo Stato russo conservava molte caratteristiche del governo mongolo, in primo luogo la concezione stessa dello Stato, che proprio durante il regno di Ivan III si sarebbe arricchita dell'eredità politica e culturale dell'autocrazia bizantina. Come nell'Impero Mongolo, così nello Stato russo ogni individuo era tenuto a prestare un'obbedienza assoluta e a fornire un servizio illimitato al sovrano. Il sovrano accentrava ogni potere e si valeva nel governo di una burocrazia e di un esercito dipendente direttamente da lui. Ma il sovrano era anche il padrone di tutte le terre e di tutte le ricchezze del Paese e i privati che le possedevano, le possedevano esclusivamente per concessione del sovrano. Come disse un influente uomo di chiesa russo agli inizi del Cinquecento «l'autorità dello zar (così aveva cominciato a chiamarsi Ivan III) è simile a quella di Dio».

LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

In un certo senso l'antico Impero Romano poté dirsi veramente e definitivamente caduto solo il 29 maggio 1453, quando i Turchi ottomani guidati da Maometto il Conquistatore riuscirono a impadronirsi di Bisanzio (Costantinopoli) e uccisero il suo ultimo imperatore, Costantino XI: tra l'Impero Romano d'Oriente e l'Impero Bizantino non c'era mai stata, infatti, alcuna soluzione di continuità, salvo la parentesi dell'Impero Latino d'Oriente creato dai Crociati nel 1202 (quarta crociata) per volontà e nell'interesse di Venezia. Dopo qualche decennio di vita stentata, l'Impero Latino era stato liquidato (con l'aiuto di Genova, rivale di Venezia) dalla dinastia greca dei Paleologhi.
Dall'Occidente l'Impero Bizantino doveva ancora attendersi ricatti e tradimenti, ma il vero pericolo era costituito dai Turchi ottomani (detti così da Osman, il fondatore, agli inizi del Trecento, di un loro principato in Asia Minore). Nel 1361 gli Ottomani, che nel frattempo avevano esteso il loro Impero sull'Anatolia, dopo esser intervenuti più volte nei domini bizantini d'Europa, si erano impadroniti di Adrianopoli nella Tracia, e qui, nel 1402, avevano trasferito la propria capitale, chiaro segno della volontà di spostare in Europa l'asse del loro Impero.
L'agonia dell'Impero Bizantino, che tentò disperatamente ma inutilmente di trovare aiuti in Occidente, accettando tra l'altro la riunione della Chiesa Ortodossa con quella Romana, durò altri cinquant'anni. Quando, il 6 aprile del 1453, cominciò l'assedio di Bisanzio, l'ultimo imperatore, Costantino XI, disponeva di appena 10.000 uomini, contro i cento o centocinquantamila del suo avversario. Dopo aver battuto per otto settimane le gigantesche fortificazioni che difendevano la città, impiegandovi alcuni grossi cannoni che si era fatto costruire da un rinnegato ungherese, Maometto II ordinò l'assalto generale, che travolse la resistenza degli assediati. La città fu messa a sacco per tre giorni interi e la popolazione sterminata, salvo gli artigiani e gli uomini più robusti, che vennero fatti schiavi. «Ripulita» così la città, Maometto II pensò dapprima di ripopolarla solo con Turchi, ma poi ammise anche Greci, Ebrei, Armeni, assicurando a tutti ampia libertà di professare la propria religione. Ribattezzata Istanbul, divenne la nuova capitale dell'Impero Ottomano.
La caduta di Costantinopoli sgomentò le potenze occidentali, che vedevano avvicinarsi la minaccia turca. In effetti, sempre durante il regno di Maometto II, i Turchi riuscirono a conquistare in una successione impressionante Atene (1458), la Morea (1460), Trebisonda (1462), l'Albania (1466-67), la Caramania e l'Anatolia orientale (1466-72), le colonie genovesi del Mar Nero (1475), la Crimea e l'Erzegovina, fino a raggiungere la stessa Italia meridionale dove, nel 1480, attaccarono e presero Otranto. L'espansione in Europa continuò poi con la presa di Belgrado (1521), di Rodi (1522) e di Buda (1529) mentre più o meno nello stesso tempo con l'annessione dell'Algeria e della Tunisia tutto il Nord Africa, ad esclusione del Marocco, cadeva sotto il dominio ottomano.
Anche in Russia la caduta di Costantinopoli ebbe importanti ripercussioni: Mosca, che si era sempre opposta alla riunificazione della Chiesa orientale con quella occidentale, divenne di fatto la capitale del mondo ortodosso. Anche dal punto di vista politico fu Mosca a raccogliere l'eredità spirituale dell'Impero Bizantino. Nel 1472 Ivan III sposò Zoe (o Sofia), nipote dell'ultimo imperatore bizantino e il matrimonio gli servì per indicare nello Stato russo il continuatore di Bisanzio e quindi dell'antica Roma (teoria delle tre Rome: se Bisanzio era stata la seconda Roma, Mosca era la terza e ultima). Lo stesso Ivan III assunse per sé e per i suoi successori il titolo di zar (che non è altro che il latino Caesar = «Cesare»), ossia di imperatore, riformò il cerimoniale di corte secondo il modello bizantino e adottò la concezione autocratica del sovrano (personaggio sacro, o piuttosto semidivino, dipendente solo da Dio e superiore a ogni altra autorità o istituzione, Chiesa compresa) che era propria della tradizione politica bizantina.

LA POTENZA ASBURGICA E LA «MONARCHIA D'EUROPA»

All'inizio dell'età moderna, ossia tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, per la scomparsa di una serie di antichi potentati feudali assorbiti nelle maggiori monarchie, la carta politica dell'Europa appariva notevolmente semplificata. Della Francia e dell'Inghilterra abbiamo detto. La penisola iberica, dopo la cacciata degli Arabi dal regno di Granata nel 1492, risultava divisa tra il regno di Portogallo, tutto proiettato, come vedremo, a costruirsi un Impero d'oltremare, quello di Castiglia e quello d'Aragona. Ma questi due ultimi regni, per il matrimonio, celebrato nel 1469, tra i rispettivi principi ereditari, Isabella e Ferdinando (entrambi detti Cattolici, un titolo di cui si sono fregiati tutti i re di Spagna, così come quello di Cristianissimo è stato l'attributo dei re di Francia), costituivano dal 1479 un unico blocco, la Spagna, una nuova, grande potenza, che presto avrebbe aspirato all'egemonia sull'Europa.
A differenza della Francia, dove l'omogeneizzazione delle diverse province (e cioè la formazione di una «nazione francese») era già relativamente avanzata, La Spagna non era affatto uno Stato unitario, giacché le corone di Castiglia e Aragona restarono separate a tutti gli effetti anche quando, morta Isabella nel 1504 e Ferdinando nel 1516, entrambe furono ereditate dal nipote Carlo d'Asburgo. Ciascuna delle due corone, poi, comprendeva domini diversi. Quella d'Aragona comprendeva l'Aragona propriamente detta, la Catalogna (con Barcellona) e Valenza. Fuori della penisola iberica all'Aragona erano legati il regno di Sicilia e quello di Napoli, mentre il regno di Navarra era un suo protettorato. La Corona di Castiglia oltre la Castiglia, comprendeva il regno di Leòn, annesso dal 1230, l'Andalusia con Cordova e Siviglia e, dopo la scoperta dell'America, le colonie spagnole in quel continente.
La Spagna era dunque una sorta di larga confederazione di Stati, ognuno dei quali conservava le sue leggi, i suoi ordinamenti costituzionali, le sue strutture amministrative (per non parlare delle culture, delle nazionalità e delle lingue diverse). Più precisamente ciascuno di questi Stati ha avuto una diversa evoluzione costituzionale: così ad esempio, in Castiglia le antiche assemblee rappresentative, le Cortes, sono state assai presto messe da parte dalla Corona, mentre in Aragona hanno conservato tenacemente le loro capacità di controllo e di resistenza. L'unione di questi Stati, in definitiva, si realizzava soltanto nella persona del re e restò sempre assai problematica. Un altro esempio: le colonie americane, originariamente dipendenti dalla corona di Castiglia restarono anche nei secoli successivi chiuse ai sudditi delle altre corone di Spagna.
La corona imperiale era diventata elettiva nel 1356 in forza della Bolla d'oro dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, che aveva ristretto il diritto di voto a sette principi elettori, tre ecclesiastici e quattro laici: gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia, il re di Boemia, il marchese di Brandeburgo. Dal 1438, quando la scelta era caduta su un Asburgo (o Absburgo o Habsburg dal castello di Habichtsburg, che alla lettera vuol dire «castello dei falchi», in Svizzera, sua sede originaria), la corona imperiale, pur restando sempre elettiva, non sarebbe più uscita da questa casa. Il Sacro Romano Impero era diviso in una quantità di piccoli e grandi Stati feudali, domini ecclesiastici, città libere, ecc., che teoricamente dipendevano dall'imperatore, ma che di fatto godevano di larghissima autonomia.
La forza dell'imperatore stava tutta negli antichi domini ereditari della casa d'Asburgo in Austria (a cui si aggiunsero i regni di Boemia e di Ungheria) ed anzi che la corona imperiale sia rimasta dal Quattrocento in poi appannaggio degli Asburgo si spiega soprattutto con il fatto che essi erano in Germania i soli che ne potessero sopportare il peso. Anche l'acquisto del regno di Ungheria, fu insieme un onore e un onere. Con la Polonia e la Russia, l'Ungheria costituiva uno dei baluardi cristiani contro l'avanzata dell'Impero Ottomano che dai Balcani puntava ormai al cuore dell'Europa. Così, agli Asburgo d'Austria toccò, oltre il compito di governare quella composita e indisciplinata realtà che era il Sacro Romano Impero, anche quello, forse più gravoso, di proteggere gli Stati cristiani, amici o nemici che fossero, contro il pericolo turco.
Nella prima metà del Cinquecento si svolse una lunga lotta tra la Francia da una parte, la Spagna e l'Impero dall'altra, la cui posta era rappresentata principalmente dall'Italia. Divisa in un certo numero di Stati regionali (il Regno di Napoli, le repubbliche di Firenze, di Genova, di Venezia, lo Stato di Milano, ecc.) l'Italia era l'area forse più ricca e sviluppata d'Europa, ma la divisione politica e la debolezza militare dei suoi Stati, grandi e piccoli, l'avevano resa facile preda delle potenze maggiori. In un Mediterraneo che era diventato il teatro principale della quotidiana lotta dell'Europa cristiana contro i Turchi e contro i loro alleati Nord-africani (i cosiddetti Barbareschi che conducevano con i loro agili vascelli un'incessante guerra corsara nel Mediterraneo occidentale), l'Italia costituiva poi una sorta di avamposto di straordinaria importanza strategica.
A partire dal secondo decennio del secolo Spagna e Impero erano entrambi retti da Carlo d'Asburgo. Carlo (quinto come imperatore, ma primo di questo nome tra i re di Spagna), per una serie di fortunati eventi, aveva ereditato dalla madre, figlia di Ferdinando e Isabella, i regni di Castiglia e Aragona, le colonie spagnole d'America e i regni di Sardegna, Napoli e Sicilia e dal padre l'Austria e i Paesi Bassi; nel 1519 infine i principi tedeschi lo avevano eletto imperatore del Sacro Romano Impero. In questo enorme ma eterogeneo insieme di possedimenti, la cui continuità territoriale era interrotta dal potente regno di Francia, l'Italia rappresentava, specialmente attraverso il porto di Genova, l'unica via di comunicazione effettivamente utilizzabile. Carlo V si sforzò dunque di assumere il controllo della penisola, sia mediante il governo diretto di vasti territori come il Regno di Napoli e il Ducato di Milano (quest'ultimo a partire dal 1535), sia assicurandosi l'alleanza di Stati, come quelli di Genova e di Firenze, che erano formalmente indipendenti ma che di fatto diventarono «satelliti» della Spagna.
Naturalmente la Francia, prima con il re Francesco I (1494-1547), poi con il figlio di questi, Enrico II (1519-1559), cercò in tutti modi di spezzare l'accerchiamento che la minacciava, il che la spingeva inevitabilmente in Italia, dove del resto era presente fin dagli anni Novanta del Quattrocento, quando prima Carlo VIII (1470-1498) e poi Luigi XII (1462-1515) si erano impadroniti per breve tempo rispettivamente del Napoletano e del Milanese. Anche se alla fine dovette rinunciare all'Italia, la Francia riuscì nel suo intento: alla metà del Cinquecento, dopo decenni di lotte sanguinose, vista l'impossibilità di piegare la resistenza francese, Carlo V divise i suoi possedimenti tra il figlio e il fratello: al figlio, Filippo II, toccarono la Spagna, i Paesi Bassi, i possedimenti italiani e le colonie del Nuovo Mondo; al fratello, il futuro imperatore Ferdinando I, marito di Anna, regina di Boemia e di Ungheria, i domini austriaci.
Questo accomodamento, sancito nel 1559 con la pace di Cateau Cambrésis, non valse affatto a riportare la pace. Altri conflitti sarebbero presto scoppiati per il predominio in Europa (o, come anche si diceva, per la «monarchia d'Europa»). Nessuna potenza sarebbe riuscita ad assicurarselo stabilmente anche se di volta in volta questa o quella potenza (Spagna, Francia, Inghilterra) è parsa avvicinarsi all'obiettivo. L'Europa non era mai stata un mondo pacifico. Ma ora la guerra, se pure non divenne più frequente, risultò più distruttiva e meglio organizzata: gli eserciti erano più numerosi e meglio armati che in passato, le armi da fuoco cominciavano ad essere usate su larga scala, le navi irte di cannoni stavano diventando formidabili fortezze galleggianti. In nessun'altra regione della Terra e in nessun periodo precedente della storia europea le tecniche della distruzione avevano fatto progressi altrettanto notevoli.
Può stupire che l'Europa, così profondamente divisa e perennemente travagliata dalla guerra, non abbia finito con l'autodistruggersi. Ma distruzioni e morte non sono le sole conseguenze della guerra. La guerra è anche un grossa occasione per far quattrini a spese altrui e può fornire un potente stimolo alle attività produttive e al progresso tecnico-scientifico. La grande richiesta di ferro, di armi, di materiali di ogni genere necessari al mantenimento di eserciti sempre più numerosi fece fiorire numerose industrie, alcune delle quali per far fronte alla domanda crescente dovettero attrezzarsi per una produzione di massa, e cioè dovettero organizzarsi in modo completamente diverso da quello del vecchio artigianato medievale. La ricerca di armi sempre più micidiali impose l'adozione di tecniche di lavorazione più efficienti e tra gli scienziati che appunto in questo periodo fondarono la moderna scienza sperimentale ben pochi furono quelli che non portarono il proprio contributo a questo particolarissimo genere di «progresso».
Così, in questa dura esperienza di guerra oltre ad avvezzarsi ad adoperare la violenza come strumento per risolvere ogni sorta di controversie, l'Europa si costruì un potenziale bellico e industriale di gran lunga superiore a qualsiasi altro nel mondo. Questa superiorità tecnica e questa vocazione alla violenza le permisero di conquistare il mondo intero nel giro di pochi secoli e di assicurarsi attraverso la spoliazione sistematica delle regioni sottoposte al suo dominio enormi ricchezze, sulle quali ancora oggi si fonda in gran parte il suo prestigio di area altamente sviluppata.
Estensione dei domini di Carlo V


LA CRISTIANITŔ DIVISA

Ad esasperare vecchie e nuove rivalità in quell'eterno campo di battaglia che era l'Europa sorse nei primi decenni del Cinquecento un nuovo elemento di conflitto: la Riforma protestante, che, partita dalla solita richiesta di una riforma della Chiesa, doveva questa volta risolversi nella definitiva divisione della Cristianità occidentale e cioè nella ribellione di una sua gran parte contro l'autorità del vescovo di Roma. Proprio nel momento in cui l'Europa si lanciava alla conquista e all'evangelizzazione forzata del mondo, il cristianesimo si divideva in una molteplicità di sette e di confessioni diverse, disposte a lottare fra di loro con la stessa ferocia e lo stesso accanimento con cui avevano combattuto pagani, miscredenti e infedeli.
Il disagio per l'incorreggibile mondanizzazione e corruzione dell'apparato ecclesiastico era largamente sentito nel mondo cristiano, ma si trattava di un disagio talmente antico che molti non lo avvertivano neppure più o ci scherzavano sopra. Di certo i papi, reduci dai recenti successi sulle correnti conciliariste sottovalutavano i pericoli della situazione. Così, quando la protesta che era andata crescendo sotto la crosta dell'abitudine e dell'assuefazione esplose rovinosamente travolgendo l'unità della Chiesa, fu una sorpresa per tutti.
La sorpresa non stava tanto nelle opinioni teologiche, tutt'altro che nuove, che i teorici della Riforma professavano o nei sentimenti a cui i suoi predicatori davano voce: lo sdegno anticlericale, le aspirazioni a una più intima e pura esperienza religiosa, le speranze di rigenerazione sociale, la fiducia nelle possibilità dell'amore fraterno di avere la meglio sulla frode e sulla forza nei rapporti tra cristiani. Stava piuttosto nel fatto che quelle idee e quei sentimenti apparissero incontenibili e che, dopo secoli di delusioni e di sconfitte, dessero finalmente l'impressione di poter vincere.
Non vale assolutamente la pena di addentrarsi nei meandri del conflitto teologico che oppose i riformatori alla Chiesa di Roma e che divise lo stesso schieramento della Riforma in una quantità di correnti. Pur dando vita a dottrine molto diverse tra loro, i principali esponenti della Riforma, primi fra tutti il tedesco Martin Lutero (1483-1546) e il francese Giovanni Calvino (1509-1564), concordavano su alcuni principi fondamentali, che erano poi gli stessi che, un secolo e mezzo prima, erano stati enunciati da John Wyclif. Il primo di tali principi era quello del libero esame, secondo il quale ogni cristiano ha il diritto di rivolgersi alle Sacre Scritture come all'unica fonte di verità e di interpretarle secondo la propria coscienza: ciò significava rifiutare l'autorità del papa e più in generale del clero in fatto di dottrina.
Il secondo era quello della salvezza per mezzo della fede; la salvezza dell'anima non poteva essere ottenuta attraverso digiuni, penitenze, pellegrinaggi, reliquie, intercessioni di santi ed altre pratiche superstiziose, ma solo con la purezza della fede e con il completo abbandono alla misericordia di Dio. Ciò significava togliere ogni valore (o almeno gran parte del loro valore) alle cerimonie di culto ed ai sacramenti, sull'amministrazione dei quali riposava il potere ed il prestigio dei sacerdoti. Nei suoi rapporti con Dio il cristiano non aveva più bisogno della mediazione del sacerdote o, per meglio dire, ogni cristiano era sacerdote a se stesso.
I riformatori protestanti credevano di ritornare all'antica e autentica tradizione cristiana. In realtà si trattava di un modo relativamente nuovo di intendere il cristianesimo, per certi aspetti più vicino agli ideali di autonomia, di iniziativa, di responsabilità individuale che la società europea aveva adottati dopo i secoli della servitù feudale. Ma il cattolicesimo romano seppe adattarsi altrettanto bene allo spirito dei nuovi tempi, facendo leva sui valori, anch'essi essenzialmente moderni, dell'efficienza, della disciplina, dell'organizzazione; e reagì vigorosamente all'attacco dei protestanti. L'Europa religiosa si spezzò in due: i Paesi del Nord aderirono in maggioranza alla Riforma, quelli del Sud restarono tenacemente attaccati alla Chiesa di Roma.
Non fu una separazione pacifica: ogni atto di tale processo fu anzi segnato da violenze, distruzioni, stragi, persecuzioni reciproche. Il teatro principale del conflitto fu, fin verso la metà del Cinquecento, la Germania, dove l'imperatore Carlo V prese le parti della chiesa cattolica, mentre una serie di principi e di città libere si schierarono con la Riforma, nella sua versione luterana. Nel 1555 l'imperatore e i luterani giunsero ad una sorta di tregua, la Pace d'Augusta, che però non fu mai accettata dal papa, che restò sempre legato al principio che con gli eretici non si viene a patti. Ma presto altre regioni d'Europa furono coinvolte nella lotta e nel secolo successivo uno dei più giganteschi macelli della storia europea, la guerra dei Trent'anni, fu devotamente combattuta da tutti i belligeranti (almeno all'inizio) nel nome di Dio.
Questa frantumazione della Cristianità occidentale costituì un passo importante verso la formazione di una coscienza civile e laica dell'Europa. L'Europa medievale, sintesi di elementi romani e germanici, era stata in parte opera delle armi franche (da Carlo Martello a Carlo Magno) ma soprattutto della Chiesa di Roma, dei suoi preti, dei suoi monaci, dei suoi missionari. Quello che contava a quei tempi era l'Europa cristiana, e anche questa solo nei limiti dell'obbedienza al papa di Roma, la cui autorità, però, si fermava sulle sponde dell'Adriatico. Perché nascesse l'Europa quale oggi la pensiamo era necessario che il carattere cristiano della sua civiltà si smorzasse a favore di altri valori e che l'idea dell'universalità della Chiesa di Roma e quella dell'unità dei cristiani perdessero il fascino totalizzante che avevano avuto nel Medio Evo: era necessario, cioè, che il fanatismo facesse posto ad un principio, almeno, di ragionevolezza.
Tra Cinque e Seicento c'è stato un secolo e più di guerre di religione, nelle quali cristiani di tutte le osservanze si sono fatti a pezzi con grande zelo. Se il cristianesimo fosse stato davvero l'anima dell'Europa, gli Europei avrebbero avuto ampi motivi per smarrire il senso della propria identità. E invece sono usciti da quell'esperienza con la coscienza più viva che mai di appartenere a una civiltà comune: segno che questa civiltà non si identificava più con una particolare fede religiosa. Al contrario, una delle sue caratteristiche migliori, emersa dalla constatazione della somma stupidità di tutti i sacri macelli voluti dal fanatismo, stava proprio nell'accettazione della legittima esistenza non solo di molti modi diversi di credere in Dio, ma anche dei moltissimi modi di non crederci affatto.

IL SACCO DI ROMA

Uno degli episodi più noti e terribili delle guerre combattute in Italia tra Carlo V e Francesco I fu, nel maggio del 1527, il sacco di Roma. Esattamente un anno prima il papa, Clemente VII, il re di Francia, Francesco I, e alcuni potentati italiani (Venezia, Firenze e Milano) si erano alleati per scacciare dall'Italia gli Asburgo o quanto meno per ridimensionarne la presenza. Le cose però erano subito volte al peggio per gli alleati e Carlo V già nel settembre del 1526, assediava Roma con un formidabile esercito formato in parte di truppe spagnole e in parte di mercenari tedeschi. Dopo sette mesi la città fu espugnata e saccheggiata con tale furore che il suo splendore rinascimentale ne restò per molto tempo offuscato. Clemente VII restò nelle mani dell'imperatore e non poté che rimettersi in tutto e per tutto alla sua volontà.

UN EUROPEO AL DI SOPRA DELLA MISCHIA

Erasmo Desiderio, più noto come Erasmo da Rotterdam (dove era nato nel 1466 o nel 1469), può essere considerato il primo vero cittadino d'Europa non solo perché disprezzava le rivalità e i pregiudizi nazionali o perché visse in molti Paesi d'Europa sentendosi dovunque a casa sua, ma perché, senza affatto rinnegare quella Chiesa, della quale nel 1492 era stato ordinato sacerdote e a cui aveva dato un grosso contributo di dottrina e di erudizione (per esempio curando l'edizione critica del Nuovo Testamento e di numerose opere di padri della Chiesa), fu il primo autorevole, convinto assertore di quei valori intorno ai quali si sarebbe faticosamente costruita l'Europa moderna: la ragionevolezza, la tolleranza, l'amore per l'uomo, per la cultura e per quella rara ma contagiosa virtù che è l'intelligenza.
Erasmo aveva trascorso la giovinezza nei Paesi Bassi e aveva studiato a Parigi. Aveva soggiornato a lungo in Inghilterra dove si era legato di stretta amicizia a Tommaso Moro, l'autore dell' Utopia; per anni era vissuto anche in Italia e in Francia. Dal 1521 si stabilì a Basilea, dove morì nel 1536. Era in corrispondenza con dotti e principi di tutta Europa, che lo amavano, lo apprezzavano, ma non sempre ne seguivano gli insegnamenti, coinvolti come erano nelle furibonde risse politiche e religiose del primo Cinquecento. Vissuto in un'età di guerre e di divisioni Erasmo era un ostinato apostolo della pace e della collaborazione tra gli uomini: «la guerra», diceva, «piace a chi non l'ha vista». Si rivolgeva agli individui, non alle folle e faceva appello al buon senso, non alle emozioni della gente. Contro la tetraggine dei fanatici faceva ricorso all'ironia e contro la loro intransigenza cercava e trovava sempre le vie della mediazione e dell'accordo. Prete, ma anticlericale, riusciva ad irritare allo stesso modo cattolici e protestanti. Nelle zuffe del suo tempo badò bene a non schierarsi e a non farsi utilizzare, non perché volesse sottrarsi a una scelta difficile e rischiosa, ma perché nessuna delle parti in lotta meritava di essere scelta. Non era uomo di partito: diceva di sentirsi «guelfo con i ghibellini e ghibellino con i guelfi». Era, e fino alla fine volle restare, «al di sopra della mischia».
Una delle sue opere più famose è l'Elogio della follia, scritta nel 1511, quando Erasmo era ospite di Tommaso Moro in Inghilterra. L'Elogio della follia fu subito (e continua ad essere) quel che si dice un best seller, uno dei libri più venduti. Si tratta di una satira in 68 capitoli dove vengono passate in rassegna le diverse specie di matti che imperversavano a quel tempo: letterati, grammatici e poeti, giuristi e filosofi, e soprattutto monaci, frati e teologi, «i più matti di tutti». Alla stupidità e alle effimere manie di questi pericolosi scocciatori Erasmo contrapponeva la sublime follia del vero cristiano, che condivide generosamente i suoi beni con gli altri, perdona tranquillamente ai nemici (e così li disarma), si sforza di capire le ragioni dell'avversario e magari di trarne qualche insegnamento. Dall'Elogio della follia riportiamo alcuni brani dei capitoli XL e XLI, dedicati ai superstiziosi: vi si parla del Purgatorio e delle indulgenze, del culto dei Santi e della Madonna e dell'interesse dei preti ad alimentare la superstizione degli stupidi.

... Che dire poi di coloro che si assolvono (nella lor fantasia!) dai loro peccati (oh che piacere! oh che illusione!) e coll'orologio alla mano par che misurino il tempo che staranno in Purgatorio e computano matematicamente tutto, secoli anni, mesi, giorni, ore e minuti? Altri poi fidano su piccoli segni magici, su brevi preghiere inventate da qualche pio impostore per spasso o per guadagno, e perciò non c'è cosa che non si ripromettano, beni, onori, piaceri, sazietà, salute sempre prospera, vita lunga, verde vecchiaia, e infine, un posticino in Paradiso, proprio accanto a Cristo. Non troppo presto però, anzi il più tardi possibile [...]
Distribuiscono ad ognuno di questi santi varie mansioni, ad ognuno di essi attribuiscono particolari cerimonie per onorarli, dimodoché nel mal di denti ti viene in aiuto un santo, un altro assiste le partorienti, un terzo ti restituisce ciò che ti è stato rubato. E c'è un quarto che, durante un naufragio, ti arride per salvarti, un altro che ti protegge le greggi, e così si potrebbe continuare, ché passarli tutti in rassegna sarebbe troppo lungo. Ci son dei santi che han poteri estesi in parecchi campi, soprattutto la Vergine Madre di Dio, a cui la gente attribuisce quasi più autorità che a suo figlio.
Ma che chiedono mai a codesti santi gli uomini se non ciò che ha connessione con la pazzia? Orsù, dunque, di tanti ex-voto che vedete accumulati su tutti i muri di certe chiese e perfino sulle volte, ne avete mai visti per essere sfuggiti alle branche della pazzia, per aver messo la testa a posto almeno un po'? [...] Non ce n'è uno solo che renda grazie per essersi liberato dalla pazzia [...].
Tanto brulica di vaneggiamenti la vita di tutti i cristiani! E ciò nonostante sono i sacerdoti ad autorizzarli, ad alimentarli, senza affliggersene di sicuro, ché sanno che questa è una piccola fonte di guadagno, che non finisce mai...
Erasmo da Rotterdam nel ritratto di Albrecht Dürer


MARTIN LUTERO TRA PRINCIPI E CONTADINI

Martin Lutero, figlio di un minatore, monaco dell'ordine degli Agostiniani, professore a Wittemberg, fu l'iniziatore del movimento della Riforma. Nel 1517 pubblicò, affiggendole alla porta del duomo di Wittemberg, 95 tesi che condannavano l'abuso dell'assoluzione nella confessione e la scandalosa pratica della vendita delle indulgenze. Era un atto di sfida all'autorità ecclesiastica. Roma, dove regnava il pontefice Leone X, rispose con la scomunica. La scomunica, e il relativo bando dall'Impero, venne però solo nel 1521. In un primo tempo, infatti, a Roma si era sottovalutato l'episodio, forse nella speranza che si trattasse dell'iniziativa intemperante di uno dei soliti oscuri, importuni monaci tedeschi, una bega da frati facile da soffocare. Ma Lutero non era un monaco dei soliti. Quando gli arrivò il decreto di scomunica lo diede pubblicamente alle fiamme e questo suo gesto fu il segnale della rivolta generale contro Roma.
L'appello di Lutero fu accolto entusiasticamente in Germania da ogni sorta di gente: da semplici contadini, da signori, da borghesi, da principi, tutti uniti dall'esigenza di una vita religiosa più libera e insieme più seria di quella offerta dalla Chiesa di Roma, impegnata soprattutto ad escogitare sempre nuovi metodi per strappare ai fedeli quattrini e obbedienza. Ma per i contadini e in genere per la gente umile vivere secondo gli insegnamenti del Vangelo significava anche eliminare le ineguaglianze tra ricchi e poveri, porre fine alle ingiustizie dei potenti, edificare secondo princìpi di fratellanza una nuova società. Al contrario per i principi, per i grandi feudatari, per i ricchi borghesi delle città la rivolta contro Roma era un'ottima occasione per liberarsi dell'esosa fiscalità ecclesiastica e per rafforzare il proprio potere economico e politico impadronendosi delle ricchezze che la Chiesa aveva accumulato nel corso dei secoli.
Erano due interpretazioni non facilmente conciliabili. Tra il 1524 e il 1525, i contadini, soprattutto in Svevia e in Franconia si ribellarono contro i loro signori, e pubblicarono un programma, i Dodici articoli che integrava le rivendicazioni di stile evangelico con quelle di carattere economico e sociale:

Le nostre comunità avranno diritto di eleggersi i loro parroci e questi dovranno predicare la parola di Dio unicamente secondo il Vangelo.
Non pagheremo se non le decime in grano da servire al sostentamento dei parroci; l'avanzo andrà a beneficio dei poveri.
Sarà soppressa la schiavitù perché Cristo col prezioso suo sangue ci ha tutti redenti senza distinzione.

Non si trattava di rivendicazioni generiche: attraverso le richieste elencate nei Dodici articoli è possibile farsi un'immagine precisa delle condizioni dei contadini e dei problemi che assillavano le popolazioni rurali. Per esempio, i signori da tempo(e non solo in Germania, ma in tutta Europa) si erano riservati i diritti di caccia e di pesca, sottraendo questa risorsa, che nella dieta del tempo costituiva la principale fonte di proteine animali, ai contadini. In più, conducevano le loro battute di caccia sui terreni aperti, senza badare ai danni che loro stessi o la selvaggina potevano arrecare alle colture.

... Saranno libere per il contadino - stabiliva uno dei Dodici articoli - l'uccellagione e la pesca, e così pure la caccia, perché la selvaggina dei signori non danneggi e non consumi di più il nostro, il che finora abbiamo sopportato in silenzio...

Paludi, pascoli e boschi appartenevano ai villaggi ed erano gestite in comune dai contadini. Queste terre erano incolte, ma non improduttive. Al contrario, costituivano una fonte ricchissima di foraggio, di cibo (si pensi ai funghi, ai mirtilli e agli altri infiniti prodotti della colletta nei boschi), di combustibile (legna da ardere) e di legname (che era il principale materiale da costruzione). Queste risorse, indispensabili all'equilibrio dell'economia contadina, avevano attirato da tempo l'attenzione dei signori e delle città, che avevano incominciato a impadronirsi dei boschi o a regolamentarne l'uso, come se fossero roba loro. A questo proposito nei Dodici articoli veniva stabilito che:

... I boschi ritorneranno in possesso delle Comunità.
Chiunque si sarà ingiustamente appropriato di terreni appartenenti alla Comunità sarà tenuto a restituirli...

I contadini dovevano ai loro signori per le terre avute in concessione prestazioni di lavoro gratuite (corvée) e tributi diversi, regolati da patti espressi o dalle consuetudini di ciascun luogo. Molte volte corvée e tributi erano invece pretesi dai signori ad arbitrio. Ogni iniziativa dei signori in questo senso sembrava violare, agli occhi dei contadini, antiche regole di giustizia:

... Non saremo tenuti a dare maggiori prestazioni personali di quelli a cui erano tenuti i nostri avi: queste prestazioni dovranno essere stabilite con un preciso contratto tra il signore e i suoi dipendenti, e non dovrà esserci più posto per l'arbitrio iniquo.
Il tributo dei beni feudali sarà stabilito su basi più eque delle attuali, affinché non ci accada più di lavorare la terra senza alcun guadagno.
Si osserveranno le buone leggi antiche e non se ne faranno di nuove ad arbitrio...

Questa immagine delle «buone leggi antiche» era un mito, assai diffuso tra le classi popolari di tutta Europa. Esse favoleggiavano di un'antica età, in cui l'innocenza e la buona fede reciproca avevano garantito un'equa ripartizione dei frutti della terra tra padroni e contadini e giuste relazioni tra signori e sudditi. Questa età, naturalmente, non era mai esistita e il passato delle comunità contadine in Europa era stato in certi momenti anche peggiore del presente: in ogni tempo, tutto era dipeso, non dalla buona volontà, ma dai reali rapporti di forza tra signori e contadini.
Che questo passato di giustizia non fosse mai esistito conta poco. L'importante era il desiderio di giustizia che si esprimeva in quel mito. Per quest'idea di giustizia i contadini tedeschi hanno preso le armi, si sono battuti e, sconfitti nella battaglia di Koenigshofen, si sono fatti serenamente scannare.
Lutero sulle prime non era stato ostile ai contadini ed aveva pubblicato un libretto dal titolo eloquente: Esortazione alla pace a proposito dei Dodici articoli dei contadini di Svevia. Ma quando il movimento contadino, prendendo d'assalto i castelli dei signori, si rivelò per quello che era, una rivolta antifeudale, Lutero fu costretto a scegliere. Tra i contadini e i signori, tra i poveri e i principi Lutero scelse decisamente i signori e i principi, che erano i più forti e i soli in grado di assicurare, contro l'imperatore e contro il papa, il definitivo successo alla sua riforma (che era poi l'unica cosa che gli stesse davvero a cuore). Ma proprio a causa di questa sua scelta e nonostante le originarie affermazioni di libertà, la Chiesa luterana tornò presto a metodi autoritari nella vita religiosa e a princìpi conservatori nella vita sociale e politica.

PROTESTANTI

Nel 1529, quando la Germania stava per precipitare nelle guerre di religione Carlo V, in un estremo tentativo di trovare un accordo, chiamò cattolici e luterani a esporre le ragioni dei loro dissensi di fronte alla Dieta di Spira. Lutero, a nome dei suoi presentò una Protestatio (che in latino, però, non vuol dire «protesta», ma «dichiarazione pubblica, ufficiale») da cui il nome di «protestanti» attribuito ai luterani. Il termine è stato poi usato per tutte le confessioni (calvinisti, anglicani, ecc.) uscite dalla riforma religiosa del Cinquecento.

L'AFFARE DELLE INDULGENZE

L'indulgenza è propriamente una remissione di pene per peccati già perdonati; non è quindi il perdono o la cancellazione dei peccati stessi. La quantità delle pene condonate è espressa in termini di tempo sulla base di un complicato codice ascetico medievale, che parte dal presupposto (teologicamente tutt'altro che fondato) che sia possibile commisurare in qualche modo le azioni buone e le cattive, i peccati e i relativi esercizi di mortificazione e di penitenza. Se si accetta questo presupposto, un'azione meritoria, come ad esempio l'elemosina, si può considerare equivalente a quell'altra azione meritoria che è l'esercizio della penitenza. In altre parole un'elemosina di entità proporzionata alla gravità del peccato commesso comporta un'indulgenza pari alla penitenza prevista per quello stesso peccato. Nell'interpretazione volgare l'indulgenza non solo condona la pena, ma cancella oggettivamente il peccato, indipendentemente dal perdono divino (che è invece, per definizione, gratuito, ossia effetto di grazia, atto arbitrario e imperscrutabile di Dio). Se così fosse, sarebbe davvero possibile accumulare crediti nei confronti del padreterno mediante un'opportuna serie di opere buone.
La vendita delle indulgenze (già condannata, tra gli altri, da John Wyclif) ebbe un fortissimo incremento sul finire del secondo decennio del Cinquecento, quando l'affare fu preso in appalto in tutto il territorio dell'Impero dai maggiori banchieri del tempo, i Fugger. Era un enorme giro di quattrini il cui ricavato era destinato a finanziare a Roma il grande rinnovamento edilizio voluto dai papi (in particolare la costruzione, allora avviata, della basilica di San Pietro) e, in Germania, a rimborsare le grosse somme di denaro pagate da Carlo V ai principi elettori per la sua elezione, e anticipate, appunto, dai Fugger. L'affare della vendita delle indulgenze fu organizzato in grande stile, con una vera e propria campagna pubblicitaria affidata a solerti predicatori. Tra tutti si distinse per zelo organizzativo e sfacciataggine teologica il domenicano Johann Tetzel. È facile immaginare l'esasperazione di quanti, fautori di un cristianesimo ragionevole ed evangelico, erano costretti ad assistere impotenti allo scandalo di pratiche simoniache e superstiziose spacciate dalle massime autorità religiose per devozione.

LA PACE DI AUGUSTA

La pace di Augusta (1555) riconosceva a principi e città libere dell'Impero che avevano aderito alla confessione luterana il diritto di introdurre nei propri territori la Riforma; non si trattava propriamente di un riconoscimento della libertà di coscienza, giacché la concessione riguardava solo i principi e i governi, non i sudditi. Il trattato di pace riconosceva inoltre le secolarizzazioni già avvenute «secolarizzazione» è il trasferimento all'autorità civile di beni o istituti della Chiesa). Per il futuro, invece, non stabiliva nulla di preciso. Un decreto dell'imperatore, contestato però dai protestanti e raramente o mai applicato, imponeva ai vescovi cattolici che fossero passati alla Riforma di rinunciare alle rendite e ai beni di cui godevano. La questione sarebbe riesplosa con violenza più tardi, nel corso della guerra dei Trent'anni, quando si pose anche il problema dei territori che avevano aderito non alla riforma luterana, ma a quella calvinista (ignorata dalla pace di Augusta).

CALVINO

Giovanni Calvino (1509-1564) fu un altro dei grandi riformatori religiosi del Cinquecento. Francese di nascita, per sfuggire alle persecuzioni di cui era oggetto si rifugiò nel 1536 a Ginevra dove rimase sino alla morte, lavorando attivamente e con successo per fare della sua nuova patria il centro politico e intellettuale di tutto il mondo protestante. Peccato che, anche lui, diventato padrone assoluto della città, poco avvezzo, come del resto i cattolici e i luterani, alla tolleranza, trovò il modo di accendere roghi e di bruciare eretici (il medico spagnolo Michele Serveto, nel 1553, colpevole di non credere nella Santissima Trinità).
Come Lutero, anche Calvino era convinto che la natura umana fosse profondamente corrotta dal peccato e che pertanto la salvezza degli uomini si affidasse soltanto alla benevolenza di Dio. Ma mentre nei luterani (come del resto nei cattolici) la preoccupazione per la salvezza dell'anima diventava facilmente un'inquietudine ansiosa e ossessiva, per Calvino ogni inquietudine doveva cedere il posto ad un atteggiamento di fiduciosa sottomissione alla volontà di Dio. Servire Dio era la legge del cristiano; ma Dio si serve mettendo a frutto i talenti che ci ha dato (come, appunto, nella nota parabola dei talenti). Così, una caratteristica del Calvinismo è diventata l'esaltazione dell'impegno civile e sociale del cristiano. Il lavoro, l'operosità, l'intraprendenza economica sono i modi in cui l'uomo può contribuire alla realizzazione della volontà divina e rappresentano perciò dei veri e propri obblighi religiosi.
Naturalmente, dato che la volontà di Dio è imperscrutabile, nessuno può essere sicuro che il Signore lo abbia scelto per la salvezza. Ma il successo nel lavoro e la ricchezza onestamente accumulata sono stati considerati in molte comunità calvinistiche un indizio di elezione. In ogni caso, era più prudente in quelle comunità non mostra svogliati o male in arnese. I calvinisti hanno sempre amato assai poco gli sfaccendati e i vagabondi (questo i cattolici sono stati più tolleranti). Proprio per queste sue caratteristiche qualcuno ha ipotizzato che il calvinismo abbia dato un contributo importante alla formazione dello spirito capitalistico in Europa. Di certo le regioni a maggioranza calvinista (la Svizzera, l'Olanda, tra le altre) sono state tra le prime ad avviarsi sulla strada dello sviluppo capitalistico.

UNA CHIESA PER IL RE

Quando in Germania cominciavano le lotte di religione, in Inghilterra regnava Enrico VIII. Enrico VIII era un benemerito della Chiesa cattolica: nel 1521 aveva scritto un opuscolo contro l'eresia luterana, L'asserzione dei sette sacramenti, e il papa, Leone X, riconoscente, gli aveva conferito il titolo di Defensor fidei. Nel 1529 però il «difensore della fede», ancora fresco di nomina, ruppe clamorosamente con la Chiesa di Roma. Il contrasto con il papa era più politico che religioso: Enrico VIII aveva deciso di non tollerare più che la folta e ricca schiera degli ecclesiastici inglesi obbedisse a un principe straniero quale era il pontefice.
Quello che lo aveva convinto a questo passo era stata una faccenda quasi privata: il rifiuto del papa Clemente VII, di annullare il suo matrimonio con Caterina d'Aragona. I matrimoni dei re non sono mai faccende del tutto private e i papi non avevano mai avuto difficoltà a sciogliere matrimoni secondo le convenienze dei principi loro amici. Clemente VII, però, si trovava in una situazione assai particolare: era alla mercé di Carlo V, che gli aveva messo a sacco Roma nel maggio del 1527, e Caterina era figlia di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia e cioè, appunto, zia di Carlo V. Irritato dagli indugi del papa, Enrico, sentito il parere di diverse facoltà teologiche, fece pronunciare il divorzio dall'arcivescovo di Canterbury (poi confermato dal Parlamento) andando incontro alla scomunica papale.
La separazione da Roma, a parte dissensi individuali e un abbozzo di rivolta popolare, non produsse gravi sconcerti. Se Enrico VIII avesse attaccato la dottrina cattolica avrebbe probabilmente scatenato nel Paese un conflitto religioso e nel caso migliore avrebbe dovuto affrontare resistenze assai gravi. Ma egli si proponeva soltanto di creare una Chiesa nazionale che, anziché dipendere dal papa, riconoscesse come suo capo lo stesso re d'Inghilterra: una Chiesa su misura per sé. Intorno a questo programma non era difficile trovare larghi consensi, tanto più che esso comportava la soppressione di monasteri e l'incameramento di beni ecclesiastici: le terre della Chiesa, che un secolo e mezzo prima i Lollardi avevano chiesto che fossero distribuite ai poveri, furono invece generosamente distribuite ai ricchi, nobili titolati e semplici gentiluomini di campagna.
Nel 1534 il Parlamento approvò l'Atto di supremazia, che riconosceva il re come protettore della Chiesa inglese e capo del suo clero. Da quel momento il rifiuto di accettare l'Atto di supremazia venne considerato alto tradimento. Tra i non molti che rifiutarono il giuramento di supremazia ci fu Tommaso Moro, l'autore dell'Utopia, uno dei più grandi letterati del tempo, amico di Erasmo. Tommaso Moro era stato Cancelliere del regno e uno dei più stretti collaboratori di Enrico, ma non aveva approvato né il suo divorzio da Caterina d'Aragona, né, tanto meno, la rottura con Roma e finì decapitato nel 1535. Un altro umanista inglese, favorevole a una riforma della Chiesa, ma contrario allo scisma inglese, fu Reginald Pole, un brillante ecclesiastico che aveva studiato in Italia e che, tornato in Italia come esule, fu fatto cardinale dal papa.
Il solo vero momento di grave tensione religiosa venne quando, dopo il breve regno di Edoardo VI (1547-1553), salì al trono Maria, che era una fervente cattolica e che tentò di riportare la Chiesa inglese all'obbedienza di Roma: nominò Reginald Pole arcivescovo di Canterbury, sposò l'erede del trono di Spagna, Filippo, figlio dell'imperatore Carlo V, e infine, sciocchezza più grave di tutte, si diede a perseguitare gli anglicani mandandone alcune centinaia a morte. Con ciò Maria si guadagnò il titolo di «sanguinaria» con cui è passata alla storia, ma fallì completamente il suo obiettivo. Ottenne anzi l'effetto opposto: disgustato dalla violenza e dal fanatismo mostrati dai papisti in quella che fu detta dagli anglicani «l'era dei martiri», il popolo inglese si allontanò in larga maggioranza dalla Chiesa romana e le sue simpatie si volsero sempre di più verso le religioni riformate e in particolare verso il calvinismo.
Del resto il regno di Maria fu solo una breve parentesi, troppo breve, in verità, perché il tentativo di restaurazione cattolica potesse riuscire.
Nel 1558 a Maria successe la sorellastra Elisabetta, che riconfermò l'atto di supremazia e la separazione della Chiesa inglese da quella di Roma. La Chiesa di Elisabetta era però ormai assai diversa da quella voluta da Enrico VIII. Enrico VIII non aveva intaccato la dottrina ed anzi aveva riconfermato la propria ortodossia, tant'è vero che durante il suo regno i cattolici che non giuravano l'atto di supremazia rischiavano di finire sul patibolo come traditori, ma i luterani rischiavano di finire sul rogo come eretici. Ora invece le dottrine protestanti avevano trovato un largo seguito nel popolo inglese e la Chiesa stessa, pur continuando a chiamarsi cattolica (ed anzi l'unica veramente cattolica, essendo quella papista irrimediabilmente degenerata), ne accolse molte tesi nella sua confessione di fede ufficiale.
Non tutti erano soddisfatti della nuova Chiesa anglicana: le correnti radicali e rigoristiche, che nel complesso vennero chiamate puritane, chiedevano che assieme alla dottrina anche l'organizzazione ecclesiastica fosse profondamente riformata sul modello delle comunità calvinistiche del continente. La Chiesa anglicana, invece, conservò integralmente l'antica struttura gerarchica che faceva perno sul potere dei vescovi. Finché durò il regno di Elisabetta, che sapeva contemperare la forza con la moderazione, il conflitto tra i puritani e gli episcopalisti (ossia i sostenitori dell'autorità dei vescovi) all'interno della Chiesa anglicana non degenerò in episodi gravi. Ma sotto i suoi successori la situazione precipitò e nel giro di alcuni decenni si giunse ad un'aperta guerra civile che mise in discussione le fondamenta stesse della monarchia inglese.
La regina d'Inghilterra sulle terre da lei governate


ENRICO VIII

Enrico VIII, che regnò dal 1509 al 1547, era figlio di quell'Enrico VII Tudor che nel 1485 alla fine della Guerra delle Due Rose, aveva pacificato il Paese riuscendo a riunire nella sua famiglia i diritti al trono inglese delle case dei Lancaster e degli York che si erano combattute nella Guerra delle Due rose. Una sorella di Enrico VIII, Margaret, era andata in sposa, nel 1502, al re di Scozia, Giacomo IV, preannunciando la futura unione dei due regni. Enrico VIII ebbe sei mogli: da due divorziò (Caterina d'Aragona, la prima moglie e Anna di Clèves, la quarta); altre due finirono decapitate (Anna Bolena, la seconda moglie, e Caterina Howard, la quinta); la terza moglie, Jane Seymour, morì dando alla luce un bambino, il futuro Edoardo VI, la sesta, Caterina Parr, gli sopravvisse. Prima di Edoardo, Enrico aveva avuto due figlie, entrambe poi diventate regine: Maria, da Caterina d'Aragona, e Elisabetta, da Anna Bolena.

L'«INVINCIBILE ARMATA»

Nel 1554 Filippo aveva sposato Maria d'Inghilterra ed era parso che su questo fronte la politica di restaurazione cattolica della Spagna non dovesse incontrare resistenze. Il matrimonio non era mai stato popolare in Inghilterra e dopo la morte di Maria non aveva lasciato che una scia di paure e di risentimenti. La conferma da parte di Elisabetta dello scisma anglicano coincise con un riavvicinamento del Governo inglese ai principi ed alle comunità protestanti che lottavano nel continente contro il cattolicesimo. L'Inghilterra offrì il suo aiuto agli ugonotti francesi e a quei protestanti olandesi che stavano conducendo un'eroica resistenza contro la dominazione spagnola. Filippo II, pensando di potere avere facilmente ragione dell'avversario, preparò una grande spedizione militare destinata all'invasione dell'isola. Con eccessiva fiducia, la poderosa ma eterogenea flotta radunata dagli Spagnoli fu chiamata l'«Invincibile Armata».
Ma nel 1588 l'Invincibile Armata fu disfatta prima ancora di toccare il suolo dell'Inghilterra in parte dall'azione coraggiosa e decisa della marina inglese, in parte dalle condizioni del tempo che contribuirono a disperdere la flotta spagnola. Cogliendo la sua prima grande vittoria navale, l'Inghilterra si affermava come potenza marittima e insieme come campione della causa protestante in Europa.

LA CONTRORIFORMA

Alla rivolta protestante la Chiesa romana non rispose certo con prontezza. Leone X (al secolo Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico), papa dal 1513 al 1521, si limitò a scomunicare Lutero senza capire bene quel che stava accadendo in Germania. Il suo successore, Adriano VI, l'ultimo papa non italiano prima di Giovanni Paolo II (era di Utrecht, nei Paesi Bassi), non sarebbe stato contrario a correggere alcuni vistosi abusi nell'apparato ecclesiastico, ma non regnò che due anni e con pochi consensi. Clemente VII, che gli successe nel 1523, era un altro Medici e aveva avuto gran peso in curia al tempo di Leone X: come papa non ebbe una gran fortuna. Alleatosi con Francesco I contro Carlo V, dovette assistere al sacco di Roma da parte delle truppe imperiali; in Germania non riuscì a impedire che la frattura tra cattolici e luterani diventasse insanabile degenerando in guerra civile; in Inghilterra non poté evitare lo scisma di Enrico VIII. L'unica cosa che gli riuscì fu di rimettere la sua famiglia nella signoria di Firenze, il che però era davvero poca cosa, anche per un papa mondano e nepotista come lui (e come tutti quelli del suo tempo).
La risposta di Roma alla sfida dei protestanti cominciò ad essere seriamente organizzata solo dal successore di Clemente VII, Paolo III (1468-1549). Anche lui era un papa mondano e nepotista, preoccupato soprattutto della sua famiglia, i Farnese: per suo figlio, Pier Luigi, sognava un grande Stato in Italia e nel 1545 riuscì a darglielo, nonostante l'opposizione di Carlo V, investendolo del ducato di Parma e Piacenza. Paolo III era però perfettamente consapevole della gravità della situazione in cui versava la Chiesa di Roma e, pur badando agli affari di famiglia, cercò di mettervi rimedio in qualche modo.
Cominciò col nominare una commissione incaricata di studiare i provvedimenti opportuni per una riforma della Chiesa: era un segno che, anche se con vent'anni di ritardo rispetto alla rivolta di Lutero (la commissione fu insediata nel 1536), la Chiesa intendeva far suo lo slogan della riforma. Nel 1542 riorganizzò l'Inquisizione. Quella tradizionale era costituita da tribunali che funzionavano presso ogni diocesi e nei quali accanto al vescovo operava l'inquisitore nominato dal papa; Paolo III (e più tardi Paolo IV e Sisto V, che ne completarono l'opera) ne fece un'istituzione strettamente centralizzata, affidata a una congregazione di cardinali con amplissimi poteri e con giurisdizione su tutto il mondo cattolico (per distinguerla dalla vecchia si disse Inquisizione «universale» o «romana» o brevemente «Sant'Uffizio»).
Infine Paolo III convocò un Concilio con l'obiettivo di dare una risposta globale, sul piano della dottrina e su quello dell'organizzazione ecclesiastica, alla riforma protestante. Il Concilio si aprì a Trento nel 1545 e si chiuse solo nel 1563. In questi diciotto anni si riunì a grandi intervalli, dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552, dal 1562 al 1563, secondo le opportunità e gli umori dei papi, a cui restò sempre assolutamente subordinato: i lavori di un Concilio si presumono assistiti dallo Spirito Santo, ma tra i padri conciliari girava una battutaccia, secondo cui lo Spirito Santo arrivava al Concilio, di volta in volta, nelle valigie spedite da Roma.
Il Concilio ribadì (e non poteva essere diversamente) tutte le dottrine e le pratiche contestate dai riformati: la tradizione ecclesiastica veniva confermata come fonte di verità accanto (e, per certi versi, al di sopra) alle Sacre Scritture; le buone opere venivano confermate come fattori di salvezza accanto e insieme alla grazia divina; di tutti e sette i sacramenti veniva confermata la validità e la necessità e così via.
Nella Professione di fede tridentina, che è la sintesi ufficiale delle conclusioni del Concilio, dopo le consuete formule del Credo, si ritrovavano puntualmente tutte le credenze giudicate superstiziose dai riformati (e non solo da loro, in verità), come l'esistenza del Purgatorio (un'invenzione piuttosto recente nella tradizione della Chiesa), il culto dei Santi e quello della Vergine, il culto delle reliquie e quello delle immagini, la pratica delle indulgenze («sommamente salutare - si legge - al popolo cristiano»).
La filosofia della complessa operazione che i cattolici hanno chiamato (e chiamano) «riforma», ma che comunemente è nota come «Controriforma» sta tutta nella chiusa della Professione di fede tridentina e si può riassumere in una sola parola: conformismo. Al cattolico si chiede obbedienza e basta. Da lui si pretende che la rinuncia ad esercitare le proprie capacità di critica si fortifichi con il disprezzo per la libertà di coscienza altrui: l'impegno a obbedire al pontefice e ad accettarne gli insegnamenti, quali che siano, non è scindibile, nello spirito della Controriforma, dall'impegno ad esigere dai propri sottoposti lo stesso genere di obbedienza.

... Riconosco la Santa cattolica e apostolica Chiesa di Roma, madre e maestra di tutte le Chiese, e prometto e giuro sincera obbedienza al Romano Pontefice successore del beato Pietro, principe degli Apostoli e vicario di Gesù Cristo.
Similmente accolgo e liberamente riconosco ogni cosa tramandata, definita e affermata dal sacrosanto Concilio Tridentino, e similmente condanno e ripudio tutte le cose contrarie e tutte le eresie condannate e rigettate dalla Chiesa.
Io stesso prometto, mi impegno e giuro di mantenere e confessare integra e immacolata sino all'estremo di mia vita, costantemente, con l'aiuto di Dio, questa vera fede cattolica (fuori della quale nessuno può essere salvo), che adesso spontaneamente professo e tengo per vera; e che curerò, per quanto sarà in me, che sia osservata, insegnata e predicata dai miei sottoposti o da coloro la cui cura spetterà a me nell'ambito del mio ufficio: così mi aiutino Iddio e questi santi Evangeli...

Questa filosofia dell'obbedienza e del conformismo può apparire ad una coscienza moderna ripugnante e persino un po' insensata: come si fa, infatti, ad estorcere (perché di questo si tratta) ai propri soggetti un'adesione al cattolicesimo che però si vuole «sincera», «libera», «spontanea»? Ma non era un modo di pensare stravagante: al contrario, era piuttosto diffuso. Era lo stesso modo di pensare che aveva indotto Enrico VIII a mandare sul patibolo come traditore dello Stato uno dei suoi più fedeli collaboratori, Tommaso Moro, che semplicemente rifiutava di accettare lo scisma della Chiesa anglicana; la stessa cosa - considerare tradimento l'obiezione di coscienza - avrebbero fatto nel Seicento gli Asburgo con i loro sudditi riformati che rifiutavano di rientrare nella Chiesa di Roma.
«Ringraziando Dio», aveva scritto Tommaso Moro qualche mese prima di essere decapitato, «io non agisco per ostinazione, ma per la salvezza dell'anima mia, non potendo indurre la mia mente a pensare in modo diverso in merito al giuramento. In quanto alla coscienza degli altri io non ne sarò giudice, né mai ho spinto alcuno a prestare o a rifiutare il giuramento». Chissà se Tommaso Moro, che la Chiesa di Roma ha fatto santo per non aver giurato l'Atto di Supremazia, se la sarebbe sentita di sottoscrivere la Professione di fede tridentina...

I MEDICI

Quella dei Medici è una delle più grandi famiglie principesche italiane. Mercanti e banchieri originari di Cafaggiolo, i Medici iniziarono la loro ascesa nel XIII secolo e nel secolo successivo conquistarono (di fatto, se non di diritto) la signoria di Firenze, quando, nel 1435, Cosimo il Vecchio (1389-1464) fu eletto gonfaloniere con l'autorità di scegliere i candidati alle magistrature cittadine: questo speciale potere gli permise di conservare formalmente le strutture repubblicane dello Stato fiorentino, ma insieme di governare a suo piacere, mettendo in tutti i posti che contavano amici, alleati o clienti. In questa forma indiretta la signoria di Firenze giunse nel 1469 nelle mani di Lorenzo il Magnifico (1449-1492), uno dei maggiori statisti del secondo Quattrocento, splendido mecenate e grande esponente dell'umanesimo italiano. Cacciati nel 1494 i Medici vi tornarono nel 1512. L'anno dopo Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico, diventava papa con il nome di Leone X (fu lui a dover affrontare la ribellione di Lutero). Scacciati di nuovo da Firenze nel 1517, i Medici vi tornarono definitivamente (e ormai anche ufficialmente come principi ereditari) nel 1530, imposti dalle armi di Carlo V, che in questo modo cercò di farsi perdonare dal papa Clemente VII, anche lui un Medici (nipote di Lorenzo il Magnifico e cugino di Leone X), il sacco di Roma. Nel 1537 la successione toccò al duca Cosimo I (1519-1574), considerato il fondatore del moderno Stato toscano: nel 1555, dopo una guerra di tre anni, Cosimo incorporò nei suoi domini il territorio di Siena e nel 1569 ottenne dal papa il titolo di Granduca di Toscana (confermato poi dall'imperatore nel 1576). La dinastia dei Medici granduchi di Toscana si estinse con Gian Gastone, morto nel 1737. La famiglia dei Medici diede due grandi regine alla Francia: Caterina, moglie di Enrico II, e Maria, seconda moglie di Enrico IV.
Leone X ritratto da Raffaello


NEPOTISMO

«Nepotismo» fu chiamata la pratica corrente tra i papi del Quattrocento (e proseguita almeno sino a tutto il Seicento) di attribuire ai propri parenti (in genere i nipoti, da cui il termine) cariche, beni, prebende, rendite ecclesiastiche, titoli nobiliari, in qualche caso (Alessandro VI con suo figlio Cesare Borgio, Paolo III con suo figlio Pier Luigi Farnese, ecc.) veri e propri Stati territoriali ritagliati per lo più dai domini ecclesiastici. Era pratica consueta che, appena eletto, il nuovo papa nominasse cardinali un certo numero di suoi parenti a cui poi venivano affidati i più importanti incarichi di curia.
Il «cardinal nepote» per antonomasia (detto anche «cardinal padrone») era quello che svolgeva le funzioni di uomo di fiducia, portavoce e consigliere personale del papa (una sorta di primo ministro, insomma) non di rado più importante del papa stesso.

MACHIAVELLISMO E RAGION Dl STATO

Le tesi di Machiavelli sono quelle del cosiddetto «realismo politico» (una tradizione fortemente radicata e tuttora largamente presente nella cultura politica europea) che fa del potere un fine assoluto e ostenta disprezzo per quanti, utopisti, idealisti, riformatori o rivoluzionari, considerano il potere, tutt'al più, come uno strumento per realizzare una convivenza migliore tra gli uomini. Non è affatto detto però che Machiavelli condividesse le tesi che enunciava. C'è chi le ha interpretate come una denuncia intenzionale dei meccanismi del potere; certo, ne erano un'analisi spietata. Forse Machiavelli era addirittura un idealista: in fondo non nascondeva la sua predilezione per il regime repubblicano (dove, almeno in teoria, governano le leggi e dove quindi i metodi arbitrari del principe machiavellico sono inammissibili), non solo non ammirava, ma detestava cordialmente preti e papi (di cui tutto si può dire, tranne che non avessero saputo conquistarsi e conservarsi il potere) ed è stato tra i primissimi a formulare un programma nazionale (a quei tempi una vera utopia!) consistente nella liberazione dell'Italia dalle ingerenze straniere e soprattutto da quelle clericali.
All'inizio il termine «stato» non aveva altro significato che quello di «condizione» o «situazione», con un accentuato carattere di permanenza durevole e quieta. Ancora diciamo: «essere in buono stato» o giacere «in stato di quiete». Tra i diversi significati del termine ha preso piede quello che identificava «stato» e «posizione», nel senso, tuttora vivo, di condizione economica e sociale: per riconoscere il successo conseguito da qualcuno nel mondo degli affari o del lavoro, si dice ancora che «si è fatta una posizione». Ma «stato» poteva indicare anche la condizione giuridica, essere cioè usato come sinonimo di ordine o ceto giuridicamente riconosciuto: gli Stati Generali, ossia l'assemblea rappresentativa dell'antica monarchia di Francia, si chiamava così perché vi erano rappresentati i tre ordini o ceti della Nazione, nobiltà, clero e «terzo Stato».
Il passaggio della parola «stato» dalla sfera del privato (quale sinonimo della condizione giuridica, economica o sociale di una persona) a quella della politica (quale sinonimo di Res Publica) ha avuto luogo nel Quattrocento italiano, quando le vecchie istituzioni comunali si erano svuotate di ogni reale potere e privati cittadini, accumulando ricchezze e clientele, erano giunti a dominare la scena politica, in molti casi senza neppure rivestire ufficialmente cariche di governo (è il caso, tra gli altri, di Cosimo de' Medici a Firenze). L'espressione «farsi stato» dilatava il suo significato dall'acquisto di ricchezze e prestigio alla conquista del potere, e quest'ultima poteva esprimersi dapprima nelle forme indirette dell'autorevolezza personale e dell'influenza politica più o meno vincolante, poi del dominio scoperto (come appunto era avvenuto ai Medici).
Niccolò Machiavelli (1469-1527) fu il primo teorico della politica ad adottare il termine «Stato» nel suo significato moderno. Machiavelli riconduceva tutte le varie forme di Stato alla dualità fondamentale tra monarchia e repubblica. È possibile che personalmente Machiavelli, che era stato funzionario della repubblica fiorentina in un momento in cui i Medici erano esclusi dal governo, propendesse per la forma repubblicana. Sta di fatto, però, che i suoi interessi teorici si concentravano sulle monarchie, su quegli Stati, cioè, che si incarnavano nella persona di un principe. E Il Principe è il titolo della sua opera più fortunata, che Machiavelli scrisse nel 1513, ma che fu pubblicata solo dopo la sua morte. Il Principe ebbe un enorme successo. Si trattò però di un successo di scandalo: le cose che vi erano scritte parvero ai più inaccettabili e pericolose.
In sostanza Machiavelli sosteneva che la politica è l'arte della conquista e della conservazione del potere e che in quest'arte non c'è posto per scrupoli morali o religiosi: come aveva detto Cosimo il Vecchio, «li Stati non si governano con i Paternosti». Il principe (e cioè, più in generale, il politico, l'uomo di Stato) forse ama il bene, ma, se vuol guardarsi dagli avversari, è quasi sempre costretto a praticare il male. Le virtù private (sincerità, generosità, altruismo, capacità di perdonare i torti ricevuti, ecc.) sono pericolose debolezze in politica, dove è sempre meglio essere temuti che amati, se non altro perché la capacità di incutere timore dipende da noi, mentre il fatto di essere amati dipende soprattutto dagli altri. Tutta una serie di atti e di comportamenti che sono assolutamente riprovevoli in un privato (dall'omicidio all'inganno, alla calunnia, alla dissimulazione, ecc.) sono invece leciti (se opportuni) o doverosi (se necessari) in un principe (e cioè in un politico, in un uomo di Stato), perché il solo criterio adeguato per giudicare le sue azioni è il successo: per dirlo con la formula che comunemente sintetizza il machiavellismo, il fine giustifica i mezzi e il fine in politica non è altro che la conquista e la conservazione del potere. Machiavelli non diceva che ciò fosse un bene: si limitava a constare che le cose andavano così.
Qualunque fossero le intenzioni di Machiavelli, nel clima di fanatismo e di ipocrisia determinato dalle lotte di religione le sue enunciazioni dovevano apparire a tutti cattolici e riformati, empie, intollerabili, blasfeme. In Italia, poi, dove la Controriforma trionfava e la repressione del dissenso, attraverso l'Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti, investì presto anche i palazzi principeschi, il pragmatismo disinvolto dei teorici del successo e del potere assoluto, dei quali Machiavelli era il caposcuola indiscusso, fu fatto oggetto di condanne indignate: l'intera opera di Machiavelli fu messa all'Indice. Ciò non vuole affatto dire che qualcuno, dentro o fuori della Chiesa, intendesse davvero rinunciare ai comportamenti analizzati da Machiavelli. Proibito era parlarne. Ma neanche questo era facile: la possibilità di ridurre a regole tecniche (e non morali) un'azione rivolta essenzialmente alla conquista del potere e al suo uso più sapiente, era ormai un momento irrinunciabile della riflessione politica.
Quando, sul cadere del Cinquecento, si prese coscienza che, piacesse o meno, la dissociazione fra morale o religione da un lato e politica dall'altro procedeva di fatto nella spietata prassi del potere assoluto, prese corpo un estremo tentativo di conciliazione, verboso e ambiguo che però diede vita ad un dibattito interessante. Lo scritto che diede il via alla discussione fu il trattato di un ex-gesuita piemontese, Giovanni Botero, intitolato Della ragion di Stato (Venezia, 1589), che esordiva con la famosa definizione: «Stato è un dominio fermo sopra popoli e Ragione di Stato è notizia di mezzi atti a fondare conservare ed ampliare un dominio così fatto». «Ragione» è la latina ratio, ossia il criterio che regola l'azione poca, a cui Botero, devotamente intento a difendere il primato della religione, riconosceva in realtà, almeno implicitamente, una sfera serata ed autonoma: «Ragion di Stato», ammetteva, «altro non è che ragion di interesse». In questi termini la «ragione» specifica assegnata allo Stato, ispirata esclusivamente alla logica del potere, tornava a identificarsi con il più sfacciato opportunismo. Ma, e qui stava la conciliazione di politica e religione, i sovrani cattolici potevano giovarsi di una sorta di generale sanatoria morale al prezzo, tutto sommato modesto, di una formale obbedienza alla Chiesa.
La subalternità della politica alla religione non era insomma affermata da Botero come un imperativo per la coscienza cristiana, ma piuttosto consigliata in termini di convenienza. Il sovrano empio, diceva tra l'altro, sarà maledetto da Dio e combattuto da lui in ogni circostanza, fino alla perdita finale del trono e della vita eterna. Il sovrano pio, al contrario, potrà contare sul favore divino e i santi si materializzeranno sui campi di battaglia per combattere in suo favore. (L'idea non era peregrina, ma corrispondeva a una credenza diffusa: la bellissima chiesa di Santa Maria della Vittoria in Roma, tanto per fare un esempio, ricorda ancora oggi la straordinaria partecipazione della Vergine alla battaglia della Montagna Bianca, vinta nel 1620 dall'imperatore sui suoi sudditi boemi eretici e ribelli).

UNA CHIESA PER IL PAPA

Nel momento stesso in cui negava l'esistenza di errori o di fenomeni di degenerazione nel corpo della Chiesa e confermava con arrogante puntiglio l'integrità della tradizione che faceva capo al papa di Roma, e cioè nel momento stesso in cui ritornava senza eccezioni o esitazioni al passato, il Concilio di Trento definiva un modo completamente nuovo di essere cristiani. La novità stava essenzialmente nello stato di emergenza che il Concilio aveva solennemente proclamato, dichiarando la Chiesa in pericolo e chiamando il popolo a difesa dell'istituzione minacciata. Più che una condizione transitoria, determinata dal dilagare degli scismi e delle divisioni, questa emergenza era la condizione naturale di una Chiesa tutta militante, fatta, per così dire, per la guerra. D'ora in poi essere cattolico avrebbe significato accettare questo stato di guerra permanente, e adeguarsi ad esso senza discutere, prendendo attivamente e volonterosamente parte alla lotta, oppure obbedendo, tacendo, dando almeno esteriormente segni di consenso. Il primo dovere del cattolico diventava il conformismo: «li secolari», aveva detto un vescovo al Concilio di Trento, «debbono umilmente ricevere quelle dottrine della fede che gli è data dalla Chiesa e non ne disputare, né pensarvi più oltre».
In questa prospettiva la vecchia frattura tra clero e laicato, eterna fonte di tensioni e di proteste, non solo non era stata sanata dal Concilio, ma volutamente approfondita. Se una riforma era urgente nella Chiesa, era quella del personale ecclesiastico, specialmente del clero delle parrocchie, generalmente impreparato ai compiti di mobilitazione e di vigilanza che ora era chiamato ad assolvere nei confronti del popolo. La realizzazione della riforma del basso clero toccò principalmente ai vescovi, a cui erano stati largamente riconosciuti dignità, poteri, responsabilità nuove, ma nel quadro (s'intende) della più stretta subordinazione all'autocrazia papale; i vescovi erano i generali dell'esercito ecclesiastico ed era loro compito precipuo addestrare i sottoposti, seguirne i progressi con frequenti ispezioni, spronarli con un conveniente sistema di premi e punizioni.
Non fu impresa da poco spiegare al clero delle parrocchie il senso delle decisioni del Concilio e, per esempio, convincere tanti poveri preti che condividevano ingenuamente l'esistenza dei propri parrocchiani (a cominciare dall'onesta consuetudine di metter su famiglia) della necessità di distinguersi dal popolo e di onorare con un stile di vita diverso la propria appartenenza alla gerarchia, e cioè alla sfera sacra del potere. Questo ruolo di gerarchi (per quanto umili) attribuito ai preti di parrocchia richiedeva poi capacità che facevano loro tradizionalmente difetto. Non solo occorreva sapere un po' di latino, ma nella predicazione e nella confessione bisognava trasmettere esattamente, senza improvvisazioni ed errori, gli insegnamenti della Chiesa; cosa tutt'altro che facile, viste le astrusità teologali per le quali i cristiani si massacravano a vicenda e vista la labilità del confine che divideva superstizione e religione, ortodossia ed eresia, magia e devozione.
Anche dal punto di vista amministrativo il Concilio di Trento aveva addossato al clero delle parrocchie compiti nuovi e gravosi: tra le tante novità di questa Chiesa militante e militarizzata era forse la più innovativa, simile alla scoperta, che i generali avrebbero fatto assai più tardi, che nella guerra moderna conta più l'efficienza dei furieri che il valore delle truppe d'assalto. I parroci avrebbero dovuto d'ora in poi tenere una precisa contabilità delle entrate e delle uscite, familiarizzarsi con i bilanci, inventariare diligentemente i beni della chiesa e sorvegliare sulla loro conservazione, esigere dai contadini decime e crediti, registrare puntualmente nei libri parrocchiali i battesimi, i matrimoni e le morti, censire periodicamente, famiglia per famiglia, la popolazione della parrocchia (redigere cioè i cosiddetti «stati delle anime»), annotare l'assiduità dei fedeli alle funzioni pubbliche, indagare sulle credenze e sui costumi privati dei parrocchiani e, naturalmente, riferire il tutto ai superiori. Occorsero decenni perché questa complicata e capillare macchina amministrativa e di controllo si mettesse in moto. Ma alla fine (e fu merito dei vescovi) funzionò e poté servire di modello per l'organizzazione di quell'altra mostruosa macchina di governo che sarebbe diventato lo Stato moderno.
In un apparato di potere, Chiesa o Stato che sia, c'è un solo valore che conta: l'obbedienza. L'obbedienza, però, è anche un'antica virtù del cristiano: i laici devono obbedienza ai religiosi, i monaci all'abate, i preti al vescovo e così via. In fondo, una delle più antiche e comuni immagini della Chiesa cristiana è quella di un gregge, affidato a pastori; e non si è mai vista una pecora disobbedire o ribellarsi. Talvolta nella tradizione della Chiesa l'obbedienza ha assunto anche valori specifici, più alti. Il monaco, ad esempio, obbedisce all'abate non solo per rispettare la regola e contribuire all'ordinato funzionamento della comunità, ma anche perché l'obbedienza, o piuttosto la rinuncia alla disobbedienza, è un esercizio di ascesi, talvolta più duro della rinuncia ai piaceri del sesso o della gola; è mortificazione e penitenza, un po' come il cilicio. Oppure, anziché rinuncia e mortificazione, l'obbedienza è una testimonianza: è l'affermazione di qualcosa, non una negazione. Pensiamo a San Francesco: in lui obbedienza significava soprattutto remissività disarmante, mansuetudine, non violenza; quella non violenza che, come nell'evangelico e proverbiale imperativo di «porgere l'altra guancia», presume di essere più efficace della violenza stessa e conta, prima o poi, di avere la meglio.
Queste antiche forme di obbedienza avrebbero continuato a essere praticate all'interno della Chiesa secondo le vocazioni e le capacità di ciascuno, ma l'obbedienza predicata dalla Controriforma era di una specie diversa. Non era certo l'ascesi del monaco o la mansuetudine del frate che la Chiesa di Roma poteva pensare di opporre alla libertà del cristiano proclamata dai riformati. Per sterminare l'eresia, la mansuetudine non serviva; occorreva semmai l'odio, il furore, la passione mistica, l'antica ferocia dei Domenicani (che infatti fu largamente utilizzata) e magari la vocazione al martirio, coniugati però con lo spirito di disciplina degli eserciti moderni. Se ai laici era richiesto un atteggiamento di generico conformismo, dai preti e soprattutto dagli appartenenti agli ordini religiosi, che erano un po' i corpi speciali dell'armata ecclesiastica, si poteva pretendere una forma eroica di conformismo.
Questa combinazione di esaltazione mistica e di mentalità militare che alla fine si rivelò la ricetta vincente della Controriforma, era stata intuita assai per tempo da Ignazio di Loyola (1491 o 1495-1556). Spagnolo, militare di carriera, nato in una famiglia di militari, durante una lunga convalescenza per una ferita alle gambe ricevuta in battaglia Ignazio ebbe tempo, tra il 1521 e il 1522, di maturare la sua conversione e di comporre la sua opera fondamentale, gli Esercizi spirituali. Da buon militare non aveva alcuna preparazione letteraria o teologica: decise dunque di studiare, ma insieme cominciò subito, come diceva, «ad aiutare le anime», il che parve sconveniente e pericoloso a molti. Mendicando e aiutando le anime, tra visioni, esercizi ascetici, pellegrinaggi e qualche soggiorno in prigione (dove ogni tanto lo portava il suo zelo religioso, sempre sospetto in tempi di eresie) girò diverse università raccogliendo intorno a sé un gruppo di seguaci, che cominciarono fin d'allora a chiamarsi «la Compagnia».
L'intenzione originaria del gruppo era di recarsi in Terrasanta, ma una provvidenziale guerra con i Turchi li bloccò in Italia dove trovarono un'ideale terra di missione: c'era tanto da fare in Europa, che non valeva davvero la pena di andare in mezzo ai Turchi! L'evento che fece di un gruppetto di visionari il nucleo della futura, potente Compagnia di Gesù fu la decisione di Ignazio di aggiungere ai tre tradizionali voti di obbedienza, povertà e castità quello specialissimo di obbedienza cieca al papa. Con ciò Ignazio individuava perfettamente l'essenza del cattolicesimo controriformista: non un papa per la Chiesa, ma una Chiesa per il papa. E l'obbedienza di cui parlava Ignazio era appunto quella richiesta a un soldato di fronte al nemico: assoluta e totale. La formula che la definiva, perinde ac cadaver, «come un corpo morto», è diventata proverbiale per indicare la completa mancanza di scrupoli o di riserve nell'eseguire gli ordini superiori, di qualunque genere siano.

I NUOVI ORDINI RELIGIOSI

Oltre alla Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola e approvata nel 1540 da Paolo III, diversi nuovi ordini religiosi nacquero o si svilupparono nell'atmosfera della Controriforma. Tra questi alcuni risultavano dalla riforma di ordini religiosi preesistenti: è il caso dei Cappuccini, usciti dalla grande famiglia francescana e riconosciuti autonomi da Clemente VII nel 1528, e quello delle Carmelitane e dei Carmelitani scalzi, riformati dalla mistica spagnola Santa Teresa d'Avila e dal suo discepolo, Giovanni della Croce (Juan de la Cruz) santo e poeta. Esplicitamente diretto a combattere l'eresia protestante fu l'ordine dei Teatini fondato nel 1523 da Gaetano da Thiene (da cui il nome) e da Giampiero Carafa, cardinale e poi papa col nome di Paolo IV (uno dei grandi papi della Controriforma: già inquisitore, ampliò ulteriormente i poteri dell'Inquisizione romana e fece compilare il primo indice dei libri proibiti).
Uno dei grandi settori in cui la Chiesa della Controriforma fu impegnata è quello che oggi chiameremmo dei servizi sociali: l'istruzione, l'assistenza ai poveri e ai malati, ecc. Molti ordini vi si specializzarono: quello dei Somaschi, fondato da Gerolamo Emiliani (1481-1537), si dedicò all'assistenza ai bambini abbandonati; quello dei Barnabiti (fondato nel 1530 presso la chiesa di San Barnaba a Milano) e la congregazione (non un vero e proprio ordine) degli Oratoriani di San Filippo Neri (1515-1595) all'istruzione (come del resto la Compagnia di Gesù, che però curava esclusivamente gli istituti di istruzione superiore o universitaria); i Camillini all'assistenza ai malati ecc.
Nel Seicento sorsero gli ordini degli Scolopi, fondato da Giuseppe Calasanzio, per l'istruzione gratuita ai figli del popolo (Scuole Pie), dei Lazzaristi o Preti della Missione fondati da San Vincenzo de' Paoli (Vincent de Paul) uno dei grandi animatori del cattolicesimo francese attivo specialmente nel campo dell'assistenza ai poveri, dei Trappisti (dall'abbazia di Notre-Dame de la Trappe) usciti nel 1668 dall'antico ordine dei Cistercensi in nome di un ritorno all'originario rigore della regola benedettina.

IL CASO FRANCESE

Le lotte tra protestanti e cattolici si erano da poco placate in Germania, dove nel 1555 era stata stipulata la Pace d'Augusta, quando tornarono a divampare in Francia. In Francia, il conflitto religioso coincise con un periodo di grave crisi della monarchia e ad un certo punto parve definitivamente tramontato quel potere quasi assoluto che i sovrani francesi avevano esercitato con tanta energia nell'ultimo secolo. Ma per uscire dal caos della guerra civile il popolo francese dovette tornare a raccogliersi disciplinatamente intorno alla monarchia, che in definitiva uscì rafforzata dalla terribile prova.
I protestanti francesi aderivano alla dottrina di Giovanni Calvino, che dal 1541 al 1564 guidò e ispirò da Ginevra l'azione dei suoi seguaci. I calvinisti francesi, comunemente chiamati ugonotti, rappresentavano solo una minoranza, ma una minoranza influente e combattiva: ad essa aderiva tra l'altro una grossa porzione della nobiltà, guidata dall'ammiraglio Gaspard de Coligny (1519-1572), uno degli eroi della guerra contro la Spagna. Morto il Coligny nel massacro della notte di San Bartolomeo (la festa di San Bartolomeo cade il 24 agosto), la guida del partito ugonotto fu presa dallo stesso cognato del re, poi erede al trono, Enrico di Borbone. A capo del partito cattolico stava invece la casata dei Guisa, guidata dal duca Enrico e dal cardinale Luigi, suo fratello minore.
Dopo il lungo conflitto con l'Impero e con la Spagna concluso nel 1559, la Francia avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo di tranquillità e di pacifico lavoro. Ma a partire dal 1559, dopo i grandi re della prima metà del secolo, Francesco I ed Enrico II, che avevano disputato a Carlo V l'egemonia in Europa e consolidato in patria l'autorità della monarchia, si succedettero alla guida del Paese i figli di Enrico II, Francesco II, Carlo IX e Enrico III, dalla personalità piuttosto debole (i primi due erano saliti al trono ancora ragazzi), sovrastati dalla singolare personalità della madre, la fiorentina (e «machiavellica») Caterina de' Medici (1519-1589).
In questa situazione di oggettiva debolezza della monarchia i grandi gruppi della nobiltà feudale ripresero forza e, in concorrenza l'uno con l'altro, tentarono di controllare il governo mediante l'influenza che riuscivano ad esercitare sulla famiglia reale. La frattura religiosa che divideva il Paese diede a ciascuno di questi gruppi la possibilità di trovare un vasto seguito popolare e di ottenere importanti alleanze esterne: i calvinisti furono sostenuti dall'Inghilterra, i cattolici dalla Spagna e dal papa. Incapace di sottrarsi a queste pressioni, Caterina de' Medici e i suoi figli tentarono di restare arbitri della situazione adottando un atteggiamento oscillante e opportunistico e cioè appoggiando ora l'uno ora l'altro partito e operando in ogni circostanza con un'assoluta mancanza di scrupoli.
Così, però, riuscirono soltanto ad aggravare le tensioni e a precipitare il Paese in una guerra civile che minacciò seriamente di distruggere quella fragile unità che la Francia aveva conquistato nei secoli precedenti. Fu una guerra spaventosamente devastatrice: si combatteva tra città e città, tra villaggio e villaggio, tra famiglia e famiglia. Scorrerie, uccisioni, stragi erano all'ordine del giorno e naturalmente con il pretesto della religione ebbero via libera le vendette private, le rivalità familiari, le cupidigie personali. La situazione parve volgere irrimediabilmente al peggio quando i cattolici, accusando il re Enrico III di debolezza nei confronti degli ugonotti, formarono una lega, finanziata dal papa e da Filippo II, re di Spagna, con il proposito di deporlo. Cacciato da Parigi da una rivolta popolare che univa confuse aspirazioni democratiche con il fanatismo cattolico, Enrico III decise di sbarazzarsi dei capi della Lega, Enrico duca di Guisa e suo fratello, il cardinale Luigi, e l'antivigilia di Natale del 1588 li fece uccidere da suoi sicari. Sette mesi più tardi toccava al re essere pugnalato da un seguace della Lega cattolica, il domenicano Jacques Clément. Il nome di Clément merita di essere ricordato perché il suo gesto originò un'interessante dibattito dottrinale nel quale molti cattolici difesero la liceità del regicidio.
L'assassinio di Enrico III non giovò affatto ai progetti della Lega e del papa. Enrico III, che era l'ultimo figlio di Enrico II e Caterina, era, bene o male, un cattolico. Morto lui, la successione al trono toccò a suo cognato, Enrico IV di Borbone, capo del partito ugonotto. I cattolici erano decisi a non permettere che la corona di Francia cadesse nelle mani dei protestanti e impedirono con le armi al nuovo re di insediarsi in Parigi. Enrico IV dette però prova di fermezza e insieme di opportunismo: stroncò le residue resistenze popolari, si convertì al cattolicesimo (lo aveva già fatto altre volte) per togliere di mezzo ogni possibile ostacolo al suo riconoscimento quale legittimo re di Francia, ottenne l'assoluzione del papa dalla scomunica, ma poi, sconfitte le truppe spagnole che ancora operavano in Francia e conclusa la pace con Filippo II, con l'editto di Nantes, riconobbe nel 1598 agli ugonotti il diritto di professare la propria religione. Era la prima volta che veniva sancita pubblicamente una sia pur limitata libertà di culto e di coscienza.
Pacificata in tal modo la Francia, Enrico IV dedicò ogni energia a ristabilire l'autorità della monarchia. Le consorterie nobiliari furono sciolte e private d'ogni influenza sul governo e le grandi casate aristocratiche tacitate con generosi emolumenti. Gli Stati Generali, ossia l'assemblea rappresentativa del popolo francese, che di fronte alla patente debolezza della monarchia avevano alzato il capo facendo intendere di voler fare chissà che cosa (e non avevano fatto niente) furono messi da parte. La direzione degli affari fu affidata a ministri devoti al re che nulla potevano fare senza l'autorizzazione e l'approvazione del sovrano. L'esercito e la marina furono potenziati per scoraggiare i nemici interni ed esterni.
L'opera di consolidamento della monarchia non si fermò qui. Enrico IV fu uno dei primi statisti europei a capire che la forza dello Stato si fondava in ultima analisi sulla prosperità del Paese e sulla sua capacità produttiva e che il peso delle tasse non doveva superare le possibilità contributive dei sudditi. «La lana dell'agnello tosato», diceva un saggio, «l'anno dopo ricresce, ma l'agnello scorticato muore». In breve tempo il suo ministro per gli affari economici e finanziari, l'ugonotto Sully, riuscì con sgravi fiscali e incentivi a risanare l'agricoltura francese rovinata dalle guerre civili e a incrementare commerci e industrie. Il governo di Enrico però intervenne nella vita economica non solo per incoraggiarne lo sviluppo ma anche per controllarlo e per indirizzarlo secondo i suoi fini: secondo i principi di quella che sarebbe stata poi detta «politica mercantistica», la ricchezza prodotta con la protezione e l'interessamento dello Stato doveva essere usata al servizio dello Stato stesso e cioè contribuire alla sua potenza.
La monarchia francese doveva attraversare altri momenti difficili: lo stesso Enrico IV fu assassinato nel 1610 da un fanatico cattolico, che non gli perdonava di aver concesso ai protestanti la libertà religiosa. Ma la politica di Enrico IV, cioè l'assolutismo monarchico, restò il modello a cui si ispirarono il suo successore, Luigi XIII, e la vedova di questi, Anna d'Austria, reggente durante la minore età del figlio, Luigi XIV, entrambi coadiuvati da ministri di eccezionale abilità (chi ha letto i romanzi di Alessandro Dumas del ciclo dei Tre Moschettieri ricorderà almeno due di questi grandi ministri: il cardinale di Richelieu e il cardinal Mazzarino).

LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO

L'episodio più celebre, e il più orribile, delle guerre di religione in Francia è la strage della notte di San Bartolomeo (la notte, cioè, tra il 23 e il 24 agosto del 1572) quando decine di migliaia di ugonotti vennero scannati nel sonno. A Parigi, dove vi si erano raccolti per presenziare alle nozze di Enrico di Borbone con la sorella del re, Margherita di Valois, quasi tutti i capi del partito ugonotto caddero nella trappola: lo stesso Enrico di Borbone scampò soltanto per essersi repentinamente convertito al Cattolicesimo, che altrettanto repentinamente abiurò non appena si trovò in salvo. La strage era stata concertata con i Guisa da Caterina de' Medici, che intendeva ridimensionare la crescente influenza del Coligny sul figlio Carlo IX, e forse immaginava di potersi liberare dei Guisa con l'aiuto degli ugonotti superstiti così come si era liberata degli ugonotti con l'aiuto dei Guisa. Per il momento, comunque, diventò la beniamina di tutto il mondo cattolico, che aveva accolto con esultanza la notizia del massacro (il papa Gregorio XIII, ritenne doveroso celebrare l'avvenimento facendo coniare una medaglia commemorativa con il motto ugonotorum strages).

PARIGI VAL BENE UNA MESSA

Al momento di salire al trono Enrico si rese conto che non sarebbe riuscito a governare la Francia senza l'appoggio cattolico. I cattolici si erano impadroniti di Parigi ed erano decisi ad impedire con ogni mezzo l'ingresso in città di un re protestante. Allora Enrico, che si preoccupava più del bene del Paese che delle beghe religiose, si convertì al cattolicesimo; in tal modo poté entrare in Parigi e dare inizio ad una politica di riconciliazione tra i partiti e di rafforzamento del potere monarchico. Si dice che in tale occasione pronunciasse la frase «Parigi val bene una messa» che esprime efficacemente il significato politico della sua conversione.

UGONOTTI

Il francese huguenot deriva dall'incrocio del tedesco Eidgenossen, che significa compagni giurati o confederati, con il nome proprio Hugues (Ugo). Il termine venne usato per la prima volta a Ginevra negli anni Venti del Cinquecento per indicare i patrioti che si opponevano alle mire annessionistiche del duca di Savoia: il loro capo era appunto Hugues de Besançon.
Nel decennio successivo passò a indicare i riformati e più specificamente quelli che si ispiravano alle dottrine di Calvino.

IL MIRACOLO OLANDESE

I Paesi Bassi del Nord, che comunemente sono chiamati Olanda, dal nome della loro provincia più importante, e i Paesi Bassi del sud, che corrispondono pressappoco all'attuale Belgio, appartenevano in origine al ducato di Borgogna, uno dei domini ereditati da Carlo V (che era nato appunto a Gand), nel cui ambito godevano di antichi privilegi, che ne salvaguardavano la sostanziale autonomia. Area intensamente urbanizzata, i Paesi Bassi rappresentavano nell'Impero di Carlo V la regione economicamente più florida, ricca di ottimi agricoltori, di ingegneri, di tecnici, di artigiani, di marinai. Dai Paesi Bassi era possibile trarre con relativa facilità quattrini sotto forma di introiti fiscali o di prestiti, purché, naturalmente, le richieste del Governo non eccedessero le capacità contributive e non soffocassero le attività economiche.
Carlo V aveva governato i Paesi Bassi con una relativa prudenza. Essendosi schierato con la Chiesa di Roma aveva imposto anche in queste province la lotta alle correnti protestanti che vi si erano diffuse, senza però forzare mai la mano. Quando, nel 1556, Carlo V abdicò, i Paesi Bassi passarono, con la Spagna, a Filippo II e furono coinvolti nella politica di intransigente restaurazione cattolica condotta da questo solitario, malinconico e poco fantasioso sovrano (perfino un po' maniacale nel suo instancabile attaccamento ai quotidiani, minuti doveri di re). Era una politica alla grande, che ha fatto della Spagna il campione del cattolicesimo nel mondo e, almeno per qualche tempo, la potenza egemone in Europa, ma che, spingendola a intervenire incessantemente con i suoi eserciti e con le sue flotte ovunque si levasse una minaccia o si offrisse un'opportunità di colpire i nemici della Chiesa e del sistema politico spagnolo, ne ha consumato le energie umane e finanziarie.
La Spagna doveva fare argine contro la pressione turca nel Mediterraneo e contemporaneamente doveva presidiare l'Atlantico e il Mare del Nord. Il possesso delle colonie americane assicurava alla Spagna un ingente flusso di argento, ma comportava uno sforzo enorme in termini di uomini e di denaro, sia per il mantenimento dei presidi militari, sia per l'organizzazione e la difesa di regolari comunicazioni marittime sulle lunghe rotte transatlantiche. Nel 1580 la dinastia regnante in Portogallo si era estinta e Filippo II aveva ereditato anche quella corona: un'enorme aumento di potenza, ma anche di responsabilità. E, naturalmente, Filippo II non poteva restare estraneo alle guerre di religione in Francia dove intervenne con uomini e denari.
Chi pagò il prezzo più alto per questa politica fu la Castiglia, che era il cuore della monarchia spagnola e che giunse alla fine del Cinquecento in condizioni di totale dissesto economico, dissanguata finanziariamente da un fiscalismo dissennato e spopolata per effetto dei continui reclutamenti forzati di fanti che venivano poi mandati a morire ai quattro canti del mondo. Rispetto alla Castiglia le altre regioni della Spagna (l'Aragona e la Catalogna, ad esempio) e gli altri Stati del sistema spagnolo (compresi i regni di Napoli e Sicilia, che pure furono duramente colpiti con tasse e reclutamenti di soldati) se la cavarono nel complesso assai meglio. Quanto ai Paesi Bassi, l'aumentato fiscalismo, l'intolleranza religiosa, lo scarso rispetto per le tradizionali autonomie cittadine del Governo spagnolo provocarono in breve un'estesa rivolta, in cui, almeno in un primo tempo, cattolici e protestanti restarono uniti.
Alle prime manifestazioni di protesta Filippo II rispose nel 1567 con l'invio di un corpo di spedizione di ventimila uomini agli ordini del duca d'Alba, un grande generale che in fatto di intransigenza, fanatismo e crudeltà superava di un buon tratto il suo re e che infatti divenne il personaggio-simbolo di quei metodi terroristici di governo, a cui tutte le potenze europee avrebbero fatto largo ricorso nei secoli successivi. Ma il suo tentativo di piegare la rivolta con il terrore fallì miseramente ed anzi ebbe l'effetto di rinsaldare l'unione di cattolici e protestanti nella resistenza all'occupazione spagnola. Solo l'arrivo nel 1578 di Alessandro Farnese, bravo militare ma ancor più bravo politico, cambiò la situazione: un po' con la minaccia delle armi e un po' con l'impegno di restaurare le libertà tradizionali, riuscì a sottomettere le province meridionali, a maggioranza cattolica.
Le sette province del Nord (Olanda, Zelanda, Utrecht, Geldria, Overyssel, Frisia e Groninga), a maggioranza calvinista, continuarono invece la lotta e nel 1581 proclamarono la propria indipendenza. Il nuovo Stato adottava la teoria contrattualistica secondo la quale il potere sovrano non deriva affatto da un'investitura divina, ma (come aveva per primo sostenuto Marsilio da Padova) da una delega popolare; è il popolo che affida al monarca l'autorità di governare nell'interesse di tutta la società e il popolo stesso gliela può togliere se è stata male utilizzata. Nella dichiarazione di indipendenza della Repubblica delle Province Unite il diritto dei popoli all'insurrezione era espresso a tutte lettere:

... È a tutti evidente che un principe è posto da Dio al governo di un popolo per difenderlo dall'oppressione e dalla violenza, come il pastore il suo gregge; e Dio non creò il popolo schiavo del suo principe, per obbedire ai suoi ordini a ragione ed a torto, ma creò piuttosto il principe per il vantaggio dei sudditi (senza i quali egli non potrebbe essere principe) e per reggerli secondo giustizia, per amarli ed aiutarli come il padre i suoi figli, o il pastore il suo gregge e per difenderli e proteggerli finanche a costo della vita. E quando egli non si comporti così, ma al contrario li opprime, tentando di violare loro antiche consuetudini e privilegi esigendo la loro servile ubbidienza, allora egli non è più un principe, ma un tiranno e i sudditi non devono considerarlo in altro modo. E in particolare, quando ciò è fatto deliberatamente, senza autorizzazione degli Stati [Generali], essi possono non soltanto rifiutarsi di riconoscere la sua autorità ma procedere legittimamente alla scelta di un altro principe per la loro difesa.
Questa è la sola via lasciata ai sudditi, le cui umili petizioni e rimostranze non riuscissero a persuadere il loro principe, o a dissuaderlo da provvedimenti tirannici; e questo è ciò che la legge di natura impone per la difesa della libertà che noi dobbiamo trasmettere ai posteri anche a costo della nostra vita...

La Repubblica delle Sette Province Unite aveva una labile costituzione federale, dove ciascuna provincia conservava, almeno in teoria, la piena sovranità. Senza la guerra, probabilmente, il nuovo Stato si sarebbe sfasciato subito. L'emergenza della guerra imponeva invece l'unione di tutte le province mentre il carattere temporaneo dei sacrifici connessi a questa unità li rendeva più tollerabili. In realtà l'emergenza sarebbe finita soltanto con il riconoscimento formale da parte della Spagna dell'indipendenza olandese, nel 1648, e cioè ottant'anni dopo lo scoppio della rivolta: un tempo più che sufficiente per cementare quella prima precaria unione.
Simbolo dell'unità nazionale olandese era lo statolder (in olandese stadhouder = «luogotenente» o «viceré») che era una carica ereditata dall'antica costituzione monarchica del Paese: simbolo dell'autonomia delle singole province e della natura repubblicana del nuovo Stato erano invece gli Stati Generali, ossia l'assemblea dei rappresentanti delle sette province. Questa commistione di monarchia e repubblica era presente nella stessa carica di statolder, che in Olanda e Zelanda era ereditaria, mentre, almeno formalmente, era elettiva nelle altre province. Comunque, affidata sin dal 1575 al principe Guglielmo d'Orange, uno dei primi e più tenaci animatori della resistenza olandese, essa restò sempre nella sua famiglia.
La guerra contro la Spagna non solo assicurò l'unità del Paese, ma ne garantì la prosperità economica. La separazione dalle province settentrionali produsse in quelle meridionali l'esodo dei protestanti verso il Nord. Si trattava di gente ricca di capacità e di capitali il cui afflusso determinò una sorta di boom economico. La continuazione della guerra, poi, consentiva di bloccare i traffici di Anversa, nel sud, che era tradizionalmente la città più sviluppata della regione, a tutto vantaggio di Amsterdam, la capitale dell'Olanda. Nello stesso tempo consentiva ai corsari olandesi di avventarsi sulle navi spagnole e di attaccare le colonie della Spagna in tutte le parti del mondo. A partire dal 1580, quando Carlo V raccolse la corona del Portogallo, a quelle spagnole si aggiunsero come legittimo obiettivo di guerra, le navi e le colonie portoghesi. Tra il 1580 e il 1648 la marina olandese divenne la più forte del mondo e l'Olanda si trovò padrona di un vastissimo Impero coloniale.
Il successo dell'Olanda parve ai contemporanei un miracolo, o, a seconda dei punti di vista, un'opera diabolica (di questo parere erano gli Spagnoli e, in genere, i papisti). Appariva in ogni caso un evento eccezionale, altamente improbabile. Più esattamente i miracoli erano tre: che un piccolo popolo di pacifici marinai, artigiani e mercanti avesse tenuto a bada (e alla fine avesse sconfitto) la Spagna, che era la maggiore potenza militare del mondo; che una labile confederazione di sette piccole repubbliche fosse riuscita a conservare la sua unità nelle circostanze più difficili dimostrando una solidità superiore a quella di tante arroganti monarchie; che un Paese privo di risorse naturali fosse diventato in meno di un secolo la maggiore potenza economica e marittima del mondo e il centro di un grande Impero. E, col senno di poi, di miracoli ne potremmo elencare parecchi altri: la straordinaria fioritura artistica e scientifica del Seicento olandese (Grozio, Rembrandt, Spinoza, Huygens erano olandesi), la precoce e quasi generale scomparsa dell'analfabetismo, l'instaurazione di un regime di tolleranza nel bel mezzo delle guerre di religione, ecc.

L'EUROPA E IL MONDO

La ripresa economica dell'Europa dopo i traumi del XIV secolo (guerre, pestilenze, carestie, rivolte sociali) coincise con l'inizio di una delle più straordinarie avventure della sua storia: l'espansione in altri continenti e la conquista di regioni lontane e sconosciute. Sino al XV secolo nelle diverse parti del mondo le varie civiltà umane si erano sviluppate in modo relativamente autonomo e spesso ignorandosi completamente l'un l'altra. Da allora la situazione si è rapidamente modificata. Nel giro di pochi secoli almeno un'esperienza ha accomunato tutti i popoli del mondo: quella dell'aggressione europea.
Nell'età feudale l'espansionismo europeo aveva dato vita al grande movimento delle crociate; dirette contro il mondo islamico, esse erano rimaste però circoscritte alla vecchia regione mediterranea. Nel XV secolo l'espansione in direzione del Mediterraneo era sbarrata dalla potenza turca, saldamente attestata sulle sponde orientali del mare. Ma l'Europa trovò un'altra strada verso nuove conquiste: l'Atlantico.
Fu il più occidentale Paese d'Europa, il Portogallo, a dare l'avvio alla nuova fase dell'espansione europea. Molte circostanze lo rendevano adatto a quest'opera, in primo luogo la favorevole posizione geografica, l'esistenza di una forte tradizione marinara e il possesso di efficienti strumenti tecnici di navigazione: nella prima metà del XV secolo veniva messa a punto la caravella, ossia quel tipo di vascello che per tutto il secolo sarebbe stato il principale protagonista delle esplorazioni atlantiche.
Diversi furono i motivi che spinsero i Portoghesi alla ricerca di nuove terre: la possibilità di colonizzare le isole dell'Atlantico (Madera e Azzorre) e di coltivarvi la canna da zucchero, ma anche grano e cereali (di cui c'era grande richiesta, dato il declino della produzione in tutto il continente europeo); la speranza di arrivare ad impossessarsi delle miniere d'oro del Sudan, di cui gli Europei avevano vaghe ma allettanti notizie; il disegno, infine, di giungere, circumnavigando l'Africa, sino ai Paesi dell'Asia che producevano le spezie (pepe, cannella, noce moscata ecc.) in modo da evitare la mediazione commerciale dei popoli mediterranei.
I successi dei Portoghesi si susseguirono con ritmo sempre più rapido. Nella prima metà del XV secolo si erano già impadroniti di Madera, delle Azzorre e delle Isole del Capo Verde; nel 1472 le navi portoghesi varcavano la linea dell'Equatore e nel 1488 si spingevano al Capo di Buona Speranza. Raggiunta l'estrema punta meridionale dell'Africa, l'avanzata nell'Oceano Indiano e poi nell'Oceano Pacifico fu ancora più rapida.
Gli Spagnoli si inserirono relativamente tardi in questa impresa di esplorazione e di conquista. Nel 1492 Cristoforo Colombo per conto del re di Spagna attraversò l'Atlantico, con l'intento di raggiungere il continente asiatico. Il viaggio lo condusse invece in terre ancora sconosciute: l'America.
Fin qui i Portoghesi avevano goduto una specie di monopolio sulle scoperte geografiche, formalmente riconosciuto anche dai papi che, come capi della Chiesa e vicari di Dio in terra, Si arrogavano una piena e generale autorità su tutti i popoli del mondo, anche quelli non cristiani: nel 1455, ad esempio, il papa Niccolò V aveva autorizzato il re del Portogallo a conquistare le terre africane fino agli estremi limiti meridionali, a ridurre in schiavitù gli abitanti e a sequestrarne i beni.
L'impresa di Colombo rompeva questo monopolio e rendeva necessario un accordo tra le potenze interessate. Nel 1494 si giunse, ancora una volta con l'intervento del papa, al trattato di Tordesillas che divideva il mondo in due emisferi, l'uno dei quali riservato agli Spagnoli, l'altro ai Portoghesi. L'accordo naturalmente suscitò le proteste degli altri Stati europei che ne erano stati esclusi. Solo qualche intellettuale però mise in dubbio il diritto dell'Europa di spartirsi il mondo e quello del papa di decidere della sorte di popoli che non solo non riconoscevano la sua autorità, ma non sapevano neppure chi diavolo fosse.
Fino ai primi anni del Cinquecento l'esplorazione prevalse sulla conquista. A partire dal 1510 circa Spagnoli e Portoghesi cominciarono ad occupare stabilmente le terre di recente scoperte. I due Imperi che così vennero a costituirsi ebbero però caratteri completamente diversi. I Portoghesi volevano prima di tutto assicurarsi una serie continua di basi navali e commerciali sulla rotta delle Indie, lungo le coste atlantiche dell'Africa, in Brasile e tutt'intorno all'Oceano Indiano (dove miravano ad eliminare la concorrenza di altre marine, in particolare di quella araba, che da tempo immemorabile assicurava le comunicazioni commerciali tra l'India, l'Africa e il Mediterraneo).
Solo in un secondo momento i Portoghesi diedero vita in Brasile, che era la sola regione d'America loro riservata dal trattato di Tordesillas, ad una colonizzazione vera e propria. Gli Spagnoli, al contrario, puntarono a sfruttare vaste e popolose regioni del Nuovo Mondo impadronendosi di Stati già organizzati. E infatti, sconfitti e uccisi i sovrani locali, occuparono subito gli unici grandi Imperi allora esistenti in America: quello degli Aztechi nel Messico, conquistato da Hernàn Cortés (1485-1547) tra il 1519 e il 1521, e quello degli Inca in Perù, conquistato da Francisco Pizarro (1475-1541) tra il 1529 e il 1533.
Dal loro Impero i Portoghesi trassero enormi ricchezze. Ma la difesa del monopolio commerciale sulla nuova via delle Indie costò grandi sacrifici al Portogallo e logorò lentamente le energie del Paese. Alle continue guerre contro gli Arabi, contro i Turchi, contro le popolazioni locali si aggiungevano le difficoltà della navigazione: si pensi che su 625 vascelli partiti dal Portogallo per le Indie tra il 1497 e il 1572 circa la metà (300 per l'esattezza) non fecero mai ritorno.
Quanto all'Impero Spagnolo, esso attraversò due successive fasi. La prima, quella della conquista, si esaurì nell'opera di asservimento delle popolazioni locali e nell'incetta di metalli preziosi (soprattutto, in un primo tempo, nella forma della pura e semplice rapina di gioielli, monili e altri oggetti di oreficeria). La seconda fase, durante la quale ebbe inizio lo sfruttamento sistematico delle miniere d'oro e d'argento, vide l'instaurazione di un'economia agricola con caratteri simili a quella dell'economia feudale europea: un ristretto ceto signorile, laico ed ecclesiastico, d'origine spagnola deteneva ogni potere ed ogni ricchezza; la produzione poggiava sullo sfruttamento di una larga massa di lavoratori indigeni asserviti, le cui condizioni, però, erano molto più dure di quelle dei contadini-servi europei. Così, mentre si dissolveva in Europa, il sistema servile rinasceva in forma più oppressiva in America.

LA CONQUISTA

Dopo la scoperta di Colombo gli Spagnoli avevano esplorato in pochi anni le più importanti isole delle Antille. Da Hispaniola (Santo Domingo) la colonizzazione si era estesa alle altre grandi isole come Porto Rico (1509), Giamaica e Cuba (1511). Gli Spagnoli si erano preoccupati soprattutto di impadronirsi dell'oro accumulato dagli indigeni, ma nel giro di pochi anni l'oro era finito e i primi conquistadores si erano trovati a dover risolvere il problema della loro permanenza in America.
Nelle Antille la sopravvivenza dei coloni dipendeva interamente dall'arrivo delle navi spagnole che li rifornivano di tutto ciò che era loro necessario: anche la farina per fare il pane veniva dalla Spagna. Gli Spagnoli, infatti, non erano riusciti ad impiantare stabilmente attività agricole nelle isole conquistate: gli Indios impiegati in questi lavori morivano quasi subito. Si trattava dunque da un lato di conquistare un minimo di autonomia economica, soprattutto per quanto riguardava i rifornimenti alimentari, e dall'altro di trovare nuove riserve di metalli preziosi tali da rendere economicamente vantaggiosa l'impresa di una sistematica colonizzazione. Cominciò allora, a partire da Cuba, un movimento di esplorazione del continente americano, diretto principalmente verso il Messico e, più a sud, verso l'istmo sul quale gli Spagnoli avrebbero fondato Panama e che ha preso il suo nome.
Nel 1518 Hernàn Cortés partì da Cuba verso il continente. Con lui erano circa 600 soldati, 16 cavalieri e una decina di cannoni: forze decisamente esigue di fronte alla potenza degli Aztechi che dominavano il Messico. A favore del piccolo esercito spagnolo giocavano però sia le divisioni tra le varie popolazioni, alcune delle quali (come ad esempio quella della città di Tlaxcala) sopportavano malvolentieri il predominio azteco, sia la superiorità tecnica garantita dalle armi da fuoco e dai cavalli, completamente sconosciuti in America. All'imperatore azteco Montezuma (o Moctezuma), poi, quegli stranieri dalla pelle bianca sembravano essere proprio gli inviati divini che, secondo una leggenda azteca, sarebbero venuti dall'oriente a governare l'Impero.
Con l'aiuto dei soldati di Tlaxcala Cortés poté giungere fino alla capitale dell'Impero Tenochtitlàn dove Montezuma lo accolse trattandolo come un semidio. Per non correre rischi, Cortés lo fece prigioniero e lo indusse, con altri capi aztechi, a giurare fedeltà al re di Spagna. A questo punto, però, la rivalità tra il governatore di Cuba, che aveva la sovrintendenza sull'impresa, e Cortés, rischiò di trasformare l'impresa in un disastro. Le popolazioni messicane, infatti, irritate dalle continue richieste degli Spagnoli, che erano sempre, ossessivamente, alla ricerca di oro, e dalle distruzioni di templi operate per promuovere la loro conversione al Cristianesimo, si erano ribellate agli Spagnoli e allo stesso Montezuma.
Cortés si trovò chiuso nella città, proprio mentre l'imperatore moriva. Di notte, perdendo quasi metà dei soldati, gli Spagnoli riuscirono a fuggire e a raggiungere la pianura davanti a Tenochtitlàn. Qui, ricevuti rinforzi e con l'aiuto di alleati indigeni, gli Spagnoli posero l'assedio alla città; fu facile tagliare le comunicazioni e costringere i Messicani dopo alcuni mesi di assedio ad arrendersi. Nell'agosto del 1521 Cortés rientrava in Tenochtitlàn, faceva bruciare l'ultimo imperatore Cuauhtemoc, e prendeva rapidamente nelle sue mani tutto l'Impero Azteco. Tenochtitlàn veniva distrutta e al suo posto veniva edificata Città del Messico, futura capitale del vicereame della Nuova Spagna.
Francisco Pizarro aveva partecipato alla spedizione con la quale Vasco Nurlez de Balboa, governatore della colonia spagnola sull'istmo di Panama, aveva raggiunto il Pacifico; si era mostrato abile e coraggioso e anche a lui era stato affidato il comando di una spedizione verso le regioni del sud. Altri esploratori avevano raccontato che in quelle terre esisteva un regno ricchissimo ancora sconosciuto agli Spagnoli: l'Impero Inca. Pizarro riuscì nel 1526 ad arrivare a Tùmbez, ai margini dell'Impero Inca e si rese conto di avere di fronte un regno vastissimo, ricco e potente. Lasciato il socio e compagno d'avventure Diego de Almagro (1575-1538) al comando della fortezza di Tùmbez, Pizarro tornò in Spagna, per pattuire con il governo le condizioni della conquista del Perù.
Ottenuta la nomina a governatore e capitano generale, rientrò a Panama dove organizzò la nuova spedizione. Finalmente, nel 1531, con 180 uomini, 27 cavalli e due pezzi d'artiglieria si portò a Tùmbez, da dove, ricevuto qualche rinforzo, iniziò la marcia verso l'interno. Quando giunse ad incontrare l'imperatore inca, Atahualpa, Pizarro aveva con sé un centinaio di uomini e una sessantina di cavalli; Atahualpa aveva invece quarantamila soldati ai suoi ordini. Ma Pizarro riuscì con l'inganno a impadronirsi dell'imperatore. Atahualpa offrì una quantità enorme di oro in cambio della libertà. Quando però gli Spagnoli ebbero l'oro, Pizarro fece uccidere Atahualpa e di colpo si trovò a capo di tutto l'Impero.
L'Impero degli Inca era organizzato in modo che i cambiamenti al vertice della gerarchia sociale non erano neppure avvertiti dalla popolazione. I contadini erano abituati ad accettare senza condizioni la volontà dell'Inca e non riponevano alcun interesse nelle vicende politiche. Questa tradizione di passività giocò tutta a favore dei conquistatori, a cui diede il modo di organizzare senza difficoltà e con pochissime risorse umane uno stabile dominio su una regione sterminata. L'unico serio episodio di resistenza si verificò tra il 1535 e il 1536, quando gli Inca ribelli strinsero inutilmente d'assedio la città di Cuzco, antica capitale dell'Impero, difesa da una guarnigione spagnola.
Ancora una volta furono i contrasti tra i conquistadores a mettere a repentaglio il dominio spagnolo. Nel 1537 Almagro prese le armi contro Pizarro, ma fu sconfitto e ucciso nel 1538. Nel 1541 toccò a Pizarro essere assassinato dai partigiani di Almagro che gli nominarono come successore un figlio dello stesso Almagro, che, a sua volta, fu spodestato nel 1542 dal nuovo governatore inviato dal Governo spagnolo.

GLI EUROPEI NEL NORD AMERICA

Dal Messico, che Cortés aveva conquistato tra il 1519 e il 1521, e dalla Florida nella quale si erano insediati gLi Spagnoli, partirono diverse spedizioni incaricate di percorrere i vasti territori ancora sconosciuti che si stendevano a Nord. Intorno ad essi circolavano le voci più strane: si parlava dell'esistenza di città meravigliose, come le «sette città di Cibola», che avrebbero avuto le mura d'oro incrostate di smeraldi, mentre una leggenda indiana localizzava in quei luoghi una favolosa fonte le cui acque avrebbero avuto il potere di donare l'eterna giovinezza. Le spedizioni, in particolare quelle di Coronado e di De Soto, servirono per il momento solo a sfatare queste leggende; ma più tardi i territori così esplorati vennero a costituire due nuove importanti province dell'Impero Spagnolo: il Nuovo Messico, dove nel 1609 veniva fondata Santa Fé, e la California, dove nel Settecento sorse una catena di missioni cattoliche affidate ai frati francescani. Questi, oltre a curare l'evangelizzazione degli indigeni, intrapresero proficue attività economiche con la fondazione di grandi aziende agricole.
Gli Spagnoli erano penetrati nel continente Nord americano muovendosi da Sud verso Nord; i Francesi seguirono invece l'itinerario inverso, da Nord verso sud. Giovanni da Verrazzano nel 1524 aveva esplorato la costa Nord americana e Jacques Cartier risalì tra il 1534 e il 1536 il fiume San Lorenzo sino al luogo dove, nel 1608, sarebbe stata fondata la città di Quebec. In questa regione i Francesi diedero vita alla colonia del Canada. Di qui nel corso del Seicento i Francesi, spingendosi verso Sud lungo la vallata del Mississipi, raggiunsero il Golfo del Messico. Sorse così, ad opera soprattutto di René Robert de La Salle, suo primo viceré, l'altra colonia francese del Nord America, la Louisiana (chiamata così in onore del re di Francia, Luigi XIV), che faceva capo alla città di Nouvelle Orléans (oggi New Orléans). Quanto agli Inglesi, che avevano già esplorato Terranova con Giovanni Caboto nel 1497, si insediarono stabilmente nel continente Nord americano sul finire del secolo successivo, ma si impegnarono in un'opera di sistematica colonizzazione solo nel Seicento.

CONQUISTATORI E CONQUISTATI

Quando Cristoforo Colombo e i primi Spagnoli si trovarono a contatto con le popolazioni indigene dell'America nacque un grave problema. Come dovevano essere trattati gli Indios? Quali rapporti dovevano essere instaurati tra gli Spagnoli e le popolazioni indigene? Gli Spagnoli si erano trovati di fronte a popolazioni non europee o non cristiane anche in Spagna e in Africa (Arabi Berberi, Ebrei); allora però il problema era apparso relativamente semplice perché trattandosi di «infedeli» le norme del diritto comunemente accettate ne autorizzavano l'asservimento come nemici catturati o vinti nel corso di una guerra «giusta», ossia di una guerra intrapresa per la difesa della «vera» religione.
In un primo momento sembrò che anche agli Indios americani potessero essere applicate queste norme, tanto che lo stesso Colombo non ebbe alcuna esitazione ad inviare un buon numero di indigeni in Spagna come schiavi. Nel 1500 essi però furono liberati e rimandati indietro dal re che deliberò che «nessuno poteva permettersi di catturare e ridurre in schiavitù un indiano di quelle isole». In quegli anni infatti in Spagna erano sorti dubbi sulla legittimità della schiavitù degli Indios americani. In generale si ammetteva che era possibile renderli schiavi se la guerra in cui erano catturati fosse una guerra giusta; ma chi doveva decidere se la guerra era giusta o no?
I conquistadores preoccupati di avere a disposizione uomini da far lavorare nei campi e nelle miniere tendevano a considerare tutte le guerre «giuste». Il re di Spagna invece cominciò ben presto a proteggere gli indigeni limitando severamente le possibilità di ridurli in schiavitù; in questa posizione del sovrano spagnolo erano senza dubbio presenti motivi morali e umanitari, ma agiva soprattutto una preoccupazione politica. I re di Spagna cercavano di impedire che i conquistadores con il possesso di un gran numero di schiavi diventassero troppo potenti.
In ogni caso, il problema della schiavitù degli Indios si collegava a quello del diritto di Spagnoli e Portoghesi ad occupare il Nuovo Mondo. Si arrivò alla conclusione che la conquista dei nuovi territori era giustificata dal fatto che in questo modo veniva diffuso il cristianesimo. Cortés, ad esempio, scriveva a Carlo V che il Signore aveva concesso ai re spagnoli di scoprire nuovi Paesi perché voleva che la fede cristiana potesse essere diffusa tra le popolazioni americane. Con queste premesse la conquista assumeva uno spiccato carattere religioso; era il papa stesso ad incaricare il sovrano spagnolo di evangelizzare i pagani e di diffondere la dottrina cristiana attraverso la conversione forzata delle popolazioni conquistate.
Si impose dunque ai conquistadores, prima di intraprendere una qualsiasi azione offensiva contro gli Indios, di dare lettura del requerimento (= «invito»), un singolare documento che spiegava agli indigeni come il re di Spagna avesse ricevuto dal papa l'autorizzazione ad impadronirsi dei loro territori e li invitava a sottomettersi pacificamente agli Spagnoli e a convertirsi di buon grado al Cristianesimo. Se questo invito non veniva accolto la guerra diventava «giusta» e tutto era permesso.
Solo con le Leggi Nuove del 1542 la schiavitù degli Indios venne completamente abolita: essa però continuò ad esistere di fatto ancora per molti anni, soprattutto nelle regioni più lontane dove era facile sfuggire alla sorveglianza dei procuratori del re incaricati di far osservare le leggi sugli schiavi. Del resto, almeno in casi eccezionali, i sovrani spagnoli tornarono ad autorizzare la schiavitù, come accadde tra il 1608 e il 1674 in Cile nella guerra contro gli Araucani, una popolazione particolarmente bellicosa.
Accanto alla schiavitù e anche dopo che questa venne abolita esistevano nelle colonie spagnole altre forme di lavoro forzato. L'encomienda, che nella Spagna medievale stava a indicare il patronato del signore sui suoi vassalli, in America e nella sua forma più antica consisteva nell'assegnazione ad un colono (repartimento) di un certo numero di indigeni, variante tra 40 e 150, perché li impiegasse nelle sue proprietà (haciendas). Gli Indios in questo caso non erano propriamente schiavi, ma non potevano allontanarsi dal luogo dove risiedevano, un po' come accadeva ai servi della gleba nel sistema feudale. Gli Spagnoli giustificavano questa forma di lavoro coatto con il pretesto che gli Indios erano pigri di natura e senza costrizione non avrebbero mai lavorato. In realtà, gli indigeni erano abituati a un ritmo di vita e di lavoro assai diverso, più lento e tranquillo di quello degli Europei. Per gli Spagnoli questa tranquillità comportava un danno economico ed era pertanto considerata un vizio da estirpare in ogni modo.
L'istituzione dell'encomienda era giustificata, tra l'altro, con motivazioni religiose. Sotto la guida dell'encomendero, infatti, gli Indios avrebbero dovuto essere istruiti e convertiti al Cristianesimo: erano, per così dire, affidati alle sue cure (encomendar in spagnolo significa appunto «raccomandare», «affidare»). La legge stabiliva gli obblighi che l'encomendero aveva verso gli Indios: doveva innanzi tutto costruire una chiesa per loro e istruire i figli dei cacicchi (i capi indigeni, responsabili verso gli Spagnoli della sottomissione delle popolazioni da loro dipendenti); ma doveva anche compensare il lavoro prestato dagli Indios con sufficienti razioni di cibo, regolare le ore di lavoro e rispettare il riposo della domenica. Ci si attendeva insomma che attraverso l'encomienda gli Indios potessero essere inseriti a poco a poco nella civiltà europea e nel modo di produzione spagnolo.
In pratica i padroni spagnoli cercavano di sfruttare al massimo il lavoro degli indigeni e tutte le regole venivano sistematicamente violate. Gli Indios venivano addirittura prestati, barattati o venduti. Quando l'apertura, nel 1545, delle ricchissime miniere d'argento di Potosì richiese il reclutamento di molte braccia, gli encomenderos non esitarono a inviarvi a lavorare squadre di propri dipendenti o addirittura a vendere gli Indios di cui avevano la tutela ai padroni delle miniere.
Questi eccessi suscitarono la disapprovazione e le proteste di uomini come il domenicano Bartolomé de Las Casas che contribuirono a far modificare il sistema dell'encomienda: invece dell'assegnazione di lavoratori coatti, ai coloni fu concesso di riscuotere speciali tributi dagli Indios: in questa forma l'encomienda restò in vigore fino al 1720. Di fatto però gli Indios continuarono a lavorare nelle proprietà bianche. L'obbligo di pagare un tributo li portava di solito a indebitarsi con i padroni bianchi e naturalmente, per pagare il debito, dovevano lavorare.
La forma peggiore di lavoro forzato, quella che più era temuta dagli indigeni, era la mita, che si richiamava ad un antico uso dell'Impero Inca, dove i sudditi erano obbligati a prestare una serie di servizi all'imperatore: si trattava in sostanza di corvées. Era adoperata dagli Spagnoli per ogni sorta di lavori pubblici ma soprattutto per rifornire di mano d'opera le miniere del Perù. Il servizio nelle miniere di Potosì durava un anno e vi erano impiegati 13.500 uomini forniti ogni anno dai cacicchi della regione. Le leggi prevedevano turni di riposo e orari di lavoro ben precisi, ma i padroni delle miniere non rispettavano le norme. Non pagavano rimborsi per le spese del viaggio e trovavano ogni pretesto per decurtare i salari dovuti, in modo che i lavoratori si indebitassero e fossero così costretti a continuare il lavoro nelle miniere oltre il termine stabilito. Per non perdere tempo i minatori dovevano dormire di notte nelle gallerie e non potevano lasciare il lavoro se nella giornata non avevano estratto una determinata quantità di minerale. La mortalità tra i lavoratori indigeni era così alta e il loro lavoro era considerato così orribile che quando un gruppo di indigeni partiva per la mita nel loro villaggio si celebrava il servizio dei defunti. Un viceré del Perù ebbe a dire a questo proposito che se si fossero potute spremere le monete coniate con l'argento di Potosì ne sarebbe venuto fuori più sangue che metallo.

BARTOLOMÈ DE LAS CASAS

Bartolomé de Las Casas (1474-1565) era figlio d'uno dei primi conquistatori e fu egli stesso tra i primi Europei a giungere in America (1506). Vide dunque di persona e molto per tempo quali fossero i sistemi usati dagli Spagnoli per «pacificare» gli Indios. Nel 1511 il sermone di un frate, Antonio de Montesinos, contro gli encomenderos, determinò in lui una crisi di coscienza, che lo portò a rinunciare ai titoli di proprietà, a farsi ordinare sacerdote e, infine, nel 1523, ad entrare nell'ordine domenicano. Ottenne nel 1516 il titolo di «procuratore universale e protettore degli Indios». Forte di tale investitura, fu protagonista di memorabili dispute teologiche, sempre sostenendo l'iniquità della conquista armata del Nuovo Mondo e il buon diritto degli indigeni a difendersi. Ispirò alcuni atti di politica coloniale spagnola, tra cui le Leggi Nuove del 1542. Nel 1544 fu nominato vescovo di Chiapas. Viaggiatore e scrittore infaticabile, lasciò una monumentale Storia delle Indie dove ricostruì le vicende delle esplorazioni e delle conquiste tra il 1492 e il 1520.
La Storia delle Indie fu pubblicata soltanto nel 1875. Famosissima fu viceversa la Brevissima relazione della distruzione delle Indie pubblicata nel 1552 e tradotta in diverse lingue. La Brevissima relazione diede origine alla cosiddetta «leggenda nera» della conquista spagnola cioè al racconto delle violenze degli Spagnoli sulle Indie Occidentali.

INDIOS E NERI

Molto presto ci si accorse che gli indigeni americani, appena entravano in contatto con gli Spagnoli morivano in gran numero. Molti di loro, naturalmente, erano stati uccisi dagli Spagnoli nel corso delle guerre della conquista; ma anche quando le guerre terminarono, la mortalità restò elevatissima. Le dure condizioni in cui gli indigeni erano costretti a lavorare per i dominatori spagnoli provocavano stragi. Gli Europei, poi, erano portatori di malattie contro le quali gl'indigeni non erano immunizzati: era sufficiente un'epidemia d'influenza o di morbillo per annientare una intera comunità. Infine la distruzione sistematica della propria cultura e delle proprie abitudini di vita privava gli indigeni della capacità e della volontà di resistere alle fatiche loro imposte. In generale sopravvissero più facilmente le popolazioni degli altipiani, mentre nelle isole e nelle zone tropicali gli indigeni nel giro di pochi anni scomparvero.
Gli Spagnoli avevano grande bisogno di manodopera. Chi emigrava in America, infatti, non partiva con l'idea di fare l'agricoltore o l'artigiano, ma pensava solo ad arricchirsi il più rapidamente possibile. Per qualsiasi genere di prodotto, dunque, i coloni dovevano fare affidamento esclusivamente sulle importazioni dalla madrepatria o sul lavoro degli indigeni. La rapida diminuzione (e talvolta la totale scomparsa) delle popolazioni locali nel lavoro dei campi e nelle miniere poneva dunque agli Spagnoli un grave problema: quello di trovare una manodopera altrettanto a buon mercato e di riempire i vuoti che sempre più numerosi si aprivano nelle comunità indigene.
La soluzione fu trovata nell'impiego degli schiavi neri, che si rivelarono lavoratori molto resistenti riuscendo ad affrontare anche quei lavori particolarmente faticosi nei quali gli Indios finivano in breve tempo col trovare la morte. L'uso dei neri come schiavi aveva tra l'altro il vantaggio di non suscitare opposizioni di carattere legale o morale. I neri infatti venivano acquistati da mercanti stranieri, per lo più portoghesi, che a loro volta li avevano comprati da capi tribù africani che vendevano prigionieri di guerra: questo lungo giro di compravendita insieme con la convinzione che i neri discendessero da Cam, il figlio maledetto di Noè, bastava ad eliminare ogni scrupolo.
La tratta assunse così proporzioni sempre più vaste, tanto che in alcune regioni dell'America tropicale, i neri, che si adattavano perfettamente al clima, sostituirono completamente gli indigeni. Questo commercio era sotto il controllo del re di Spagna, che rilasciava speciali licenze di importazione; quando però l'importanza dei neri crebbe, la tratta divenne un grosso affare internazionale e Nazioni come la Francia e l'Inghilterra gareggiarono per assicurarsi l'asiento, ossia il diritto di rifornire di schiavi neri l'America spagnola. In Brasile l'importazione di schiavi neri cominciò più tardi perché nei primi tempi la situazione economica della regione non richiedeva ancora un forte impiego di manodopera. L'impiego degli schiavi neri ebbe un grande sviluppo quando si impiantarono le piantagioni di zucchero e poi quando furono scoperte le miniere di Minas Gerais.
A parte gli schiavi, nelle terre spagnole del Nuovo Mondo potevano entrare solamente i sudditi del re di Spagna; inoltre questi dovevano essere «buoni cristiani» perché il loro comportamento avrebbe dovuto essere d'esempio agli indigeni. Per lo stesso motivo le autorità vigilavano affinché non giungessero in America malviventi, anzi chi commetteva qualche delitto in colonia di regola era rimandato in patria. Una norma, poi, richiedeva che i coloni fossero sposati perché si pensava che una famiglia desse più affidamento dal punto di vista della moralità che non persone sole. Naturalmente non era difficile aggirare queste leggi; chi voleva partire per le colonie poteva imbarcarsi come marinaio e poi disertare una volta giunto in America. Altri si imbarcavano clandestinamente.
Generalmente i bianchi spagnoli, i neri africani e gli Indios americani convissero senza eccessive complicazioni e spesso si fusero in una varietà di incroci razziali. In un primo tempo le autorità spagnole avevano cercato di tener separati gli indigeni dai bianchi ed avevano proibito a questi ultimi di risiedere nei villaggi degli Indios. In pratica non era stato possibile mantenere questa separazione. Era frequente che uno Spagnolo convivesse con una donna india: più raro invece era il matrimonio perché per lo Spagnolo significava perdere la «purezza di sangue». I figli nati da queste unioni erano i «meticci». Abbastanza frequenti erano le unioni tra neri e donne indie anche se le autorità cercavano di tenere divise le due comunità per paura che solidarizzassero contro i bianchi. Da queste unioni nascevano figli chiamati «zambos». Non accadeva quasi mai che un bianco sposasse una nera dal momento che questa era di solito una schiava; erano invece comuni le unioni libere che davano origine a figli chiamati «mulatti». Tra i bianchi si faceva poi una netta distinzione fra quelli nati in Spagna e quelli nati in America; questi ultimi venivan chiamati «creoli».
A queste distinzioni di razza corrispondevano normalmente precise differenze sociali. Una gerarchia sociale alquanto semplificata vedeva infatti al vertice i nobili spagnoli, di solito proprietari di latifondi o alti funzionari statali, poi i creoli, che costituivano la borghesia, attivi soprattutto nel commercio, poi i meticci, che formavano la maggioranza dei lavoratori salariati, ed infine i mulatti e gli schiavi neri. Gli Indios restavano estranei alla struttura sociale ed economica delle colonie: non erano inseriti nella produzione e praticavano piuttosto un'economia di sopravvivenza. La ricchezza poteva permettere il passaggio dall'uno all'altro di questi strati sociali. Mentre però era abbastanza facile per un meticcio ricco entrare nell'ambiente dei creoli, era molto più difficile che i creoli entrassero a far parte dell'aristocrazia spagnola. Ciò dipendeva dalla diffidenza della Spagna verso i creoli che, appartenendo alla borghesia coloniale, sopportavano a malincuore i sistemi di monopolio imposti dalla madrepatria.

LA TERRA

Preoccupazione costante del Governo spagnolo era di conservare un efficace controllo dei territori americani a dispetto delle enormi distanze e degli scarsi mezzi a disposizione delle autorità. Per evitare che i coloni acquistassero sul piano politico o su quello economico un peso tale da indurli a pericolosi atteggiamenti di indipendenza, cercò, tra l'altro, di impedire che eccessive estensioni di terra finissero nelle mani di un solo padrone. In verità l'assegnazione di enormi territori era stata una pratica abbastanza frequente nei primi tempi della conquista. Adelantados, cioè capi o promotori della conquista, come Cortés e Pizarro, che avevano organizzato a loro spese le spedizioni, erano stati compensati con la concessione di intere regioni. In seguito però queste concessioni furono revocate. Anche i poteri e le cariche in un primo tempo assegnati a Cristoforo Colombo erano stati quasi subito ridimensionati. Cortés, il conquistatore del Messico, fu esautorato nel 1535 e tornò a morire oscuramente in patria.
Nonostante queste precauzioni non si poté impedire la formazione di vasti latifondi. Nelle colonie spagnole tutta la terra apparteneva al re; i privati potevano entrarne in possesso solo per concessione regia. Ai coloni che emigravano in America veniva garantita la proprietà di piccoli appezzamenti e della casa che dovevano costruirvi sopra; era vietato costruire recinzioni e, salvo una piccola porzione, i terreni dovevano restare aperti al pascolo. Ai cittadini, oltre al terreno per costruire la casa in città, era assegnato anche un piccolo appezzamento fuori dall'abitato. Coloro, poi, che intendevano dedicarsi su larga scala all'allevamento del bestiame potevano richiedere estensioni maggiori di terreno da adibire a pascolo (estancias, haciendas).
In teoria queste assegnazioni non comportavano la proprietà del terreno, ma chi ne beneficiava ne diventava di fatto il padrone assoluto. Esisteva una serie di limitazioni che avrebbero dovuto impedire la concentrazione nelle mani di un solo proprietario di molte estancias. Così, per esempio, i proprietari non avrebbero potuto vendere i loro terreni prima di un certo numero di anni, o prima di avervi costruito case o iniziato lavori agricoli. In realtà la compravendita di terreni era frequente sebbene clandestina. Anche le usurpazioni erano comunissime: accadeva cioè che i terreni effettivamente posseduti fossero molto più vasti di quelli assegnati; in questo caso col pagamento di una multa si poteva regolarizzare l'usurpazione. Il fallimento di tutti i tentativi fatti per impedire la formazione di latifondi in America si deve alle crescenti difficoltà finanziarie del Governo spagnolo, il quale per far fronte al bisogno di denaro trovava comodo intascare le multe che legalizzavano le usurpazioni o addirittura mettere all'asta i terreni di uso pubblico. Queste vendite all'asta finivano naturalmente per favorire i più ricchi, quelli che di solito possedevano già grandi estensioni di terreno.
Altra causa del costituirsi del latifondo in America fu l'introduzione del maggiorascato, un'istituzione largamente presente in Europa, per cui, dietro pagamento di una speciale tassa, le proprietà terriere potevano essere trasmesse al solo primogenito (escludendo gli altri figli dall'eredità): in questo modo si salvaguardavano le proprietà contro la frammentazione conseguente alle divisioni ereditarie. Accanto al latifondo privato, e in virtù delle donazioni di terre che i privati stessi o le autorità facevano alle chiese, e ai conventi, nacque un latifondo ecclesiastico, che, come in Europa, era esente da imposte. Il fenomeno assunse proporzioni enormi, nonostante qualche tentativo del governo centrale (per ragioni essenzialmente fiscali) di bloccarne lo sviluppo. Nella Nuova Spagna all'inizio del XVII secolo un terzo di tutte le case, di tutti i terreni e di tutti gli altri beni immobili apparteneva agli ordini religiosi.
Gli Indios, naturalmente, furono i più danneggiati dalla formazione dei latifondi; anch'essi infatti possedevano terre, ma per i ricchi proprietari bianchi era facile appropriarsi dei loro campi acquistandoli per un tozzo di pane o semplicemente fingendo di acquistarli. Qui si può cogliere un'importante differenza tra il latifondo latino-americano e quello europeo. In Europa la grande proprietà terriera, era nata nel corso del Medio Evo in relazione alla particolare funzione politica, militare e sociale dei signori feudali, che, oltre che sfruttarne la forza lavoro, amministravano e proteggevano le popolazioni contadine da loro dipendenti. Quando quelle funzioni passarono nelle mani dei ceti borghesi e delle burocrazie statali, anche il sistema della signoria feudale cominciò a disgregarsi. Nell'America Latina, invece, e particolarmente nelle colonie spagnole, il latifondo nacque proprio per iniziativa di «borghesi» che investivano in terreni i capitali accumulati nell'esercizio di attività commerciali o industriali. In altre parole, mentre in Europa il denaro dei borghesi operava la dissoluzione del latifondo, in America Latina lo faceva nascere. A questa differenza se ne lega un'altra ancora più importante. I grandi possedimenti feudali europei erano unità economiche che producevano innanzi tutto per l'autoconsumo; vi si ricavava cioè una grande varietà di prodotti - dal grano e altri generi alimentari, alla canapa e al lino per gli abiti, al legname da costruzione, ecc. - che servivano alla sussistenza dei contadini impegnati nel feudo. Solo una piccola parte della produzione globale era destinata al commercio. Proprio per questo l'avvento della borghesia significò in Europa il tramonto della società feudale: l'interesse della borghesia, che traeva dal commercio i suoi guadagni, portava all'eliminazione progressiva del sistema dell'autoconsumo ed alla commercializzazione progressiva di tutta intera la produzione.
Nell'America Latina, invece, il latifondo costituiva un'unità economica che produceva essenzialmente per il commercio, nel senso che solo una piccola parte della produzione era destinata al consumo degli Indios asserviti, mentre tutto il resto veniva venduto all'estero ed esportato in Europa. E proprio in vista della vendita del prodotto si affermò presto la necessità di una specializzazione produttiva, nel senso che ogni possedimento produceva soltanto quei generi che risultavano più adatti alle condizioni ambientali ed alla natura del terreno (monocoltura). Nacquero così le grandi piantagioni di canna da zucchero e di tabacco (e più tardi quelle di caffè e di cotone) mentre altre regioni si specializzarono nell'allevamento del bestiame o nello sfruttamento delle miniere.

REDUCCIONES E BANDEIRANTES

L'attività missionaria nell'America Latina si sviluppò parallelamente alla conquista militare. Alla fine del periodo coloniale esistevano trentacinque vescovati e sette arcivescovati. Quasi tutti gli ordini religiosi, e in primo luogo domenicani, francescani, gesuiti, avevano preso parte alla colonizzazione: spingendosi nell'interno avevano fondato missioni che, presidiate da soldati, avevano il compito di convertire gli indigeni al cristianesimo e di preparare il terreno per l'arrivo dei coloni.
Nel Paraguay, lungo il corso dell'alto Paranà, al confine con il Brasile, i gesuiti crearono l'organizzazione missionaria senza dubbio più originale: le reducciones, vasti territori concessi dal governatore in esclusiva alla Compagnia di Gesù perché provvedesse alla conversione e all'educazione delle popolazioni guaranì. I coloni non potevano metterci piede e gli indigeni non potevano essere sottoposti ad alcuna forma di lavoro coatto. Persuasi che gli indigeni fossero ingenui come fanciulli e che fosse il contatto con i bianchi a rovinarli, i gesuiti costruirono villaggi dove gli Indios vivevano sotto la loro guida e la loro protezione. In questi villaggi i missionari insegnarono agli Indios tecniche agricole e artigiane moderne e promossero un notevole sviluppo economico, i cui frutti, caso forse unico nella storia della colonizzazione europea, non venivano esportati, ma distribuiti tra la popolazione o comunque reinvestiti nella colonia stessa, salvo, s'intende, il tributo dovuto alla Corona spagnola.
Le riduzioni erano avversate da tutti i coloni perché sottraevano manodopera indigena e costituivano un pessimo esempio per gli Indios e per gli schiavi neri da loro dipendenti. Il pericolo più grave a cui le riduzioni erano esposte era costituito però dalle scorrerie dei bandeirantes, come venivano chiamati in Brasile i membri delle bande di avventurieri che nel corso del XVII e XVIII secolo, partendo per lo più da San Paulo, si spingevano all'interno alla ricerca d'oro e di schiavi. In Brasile, infatti, a differenza delle colonie spagnole, la schiavitù degli Indios era autorizzata (fu proibita solo nel 1758) e la caccia all'indio era un'attività remunerativa. Gli Indios delle riduzioni erano particolarmente apprezzati come schiavi, perché dotati di un'educazione e di capacità professionali di tipo europeo. Per sfuggire alle razzie i gesuiti spostarono più a Sud le loro riduzioni, ma a metà Settecento, con l'intenzione espressa di liquidarne una volta per tutte l'esperienza. sette riduzioni furono cedute dalla Spagna al Portogallo. Guidati dai gesuiti i Guaranì cercarono di resistere, ma furono massacrati. In seguito il territorio ceduto al Portogallo tornò alla Spagna, ma nel frattempo la Compagnia di Gesù era stata sciolta e le riduzioni, affidate ai francescani, non tornarono più alla prosperità di prima.

LE CITTŔ SPAGNOLE IN AMERICA

Nell'America spagnola la costruzione di una città doveva essere regolata da precise norme: piazze ed isolati sorgevano secondo linee rette. Per prima cosa si delimitava la piazza centrale e da qui si facevano partire le strade. Anche quando i centri spagnoli si sovrapponevano a quelli indigeni preesistenti, la città veniva ristrutturata in modo da acquistare una forma regolare e geometrica. Solo in qualche caso sorsero città prive di un preciso piano edilizio; si trattava per lo più di centri che assumevano all'improvviso grande importanza, per esempio per la scoperta nelle vicinanze di giacimenti minerari, e che quindi richiamavano in poco tempo un elevato numero di abitanti. Fu quello che accadde alla città di Potosì, sulle Ande, che dopo la scoperta di grandi giacimenti d'argento raggiunse in pochi anni 160.000 abitanti. Se per le città spagnole questo sviluppo disordinato e irregolare fu un'eccezione, per quelle brasiliane costituì invece la regola.

UN'ECONOMIA A CICLI

La storia dell'America Latina rimase legata per un lungo periodo alla ricerca dei metalli preziosi. Lo sfruttamento delle risorse minerarie non ebbe un andamento regolare e continuo: in certi periodi la produzione di metalli preziosi era intensa, in altri quasi inesistente. Per importanza, poi, prevaleva di tempo in tempo l'uno o l'altro metallo sicché si parla di cicli dell'oro e di cicli dell'argento, che si sono alternati. Un primo ciclo dell'oro terminò verso il 1530 quando finì il saccheggio dei depositi accumulati nel corso dei secoli dalle civiltà precolombiane e quando si esaurirono i giacimenti facilmente rinvenibili in superficie. Un nuovo ciclo iniziava quando si verificava qualche fatto nuovo, come la scoperta di nuovi giacimenti o l'introduzione di tecniche di estrazione più avanzate e redditizie. Per l'oro segnarono l'inizio di tali cicli l'apertura delle miniere di Buritica verso la metà del XVI secolo e quella delle miniere brasiliane di Minas Cerais nel XVIII secolo. Per l'argento un ciclo di intensa produzione cominciò con la scoperta delle miniere del Potosì nel 1545 e quelle di Zacatecas nel 1546. Per l'argento fu decisiva l'applicazione della nuova tecnica dell'amalgama col mercurio che permetteva di estrarre il metallo più velocemente e da minerali meno ricchi.
La caratteristica produzione a cicli non era limitata ai metalli preziosi: anche prodotti agricoli, come il legno, lo zucchero, il caffè, il cacao e l'allevamento del bestiame ebbero nella storia americana un andamento simile. Ciò significa che in una regione, per un dato periodo, si praticava la produzione di un solo genere agricolo; quando questa si esauriva o non era più conveniente se ne cominciava un'altra. Caratteristica di questo modo di produrre era l'estrema rapidità con cui poteva essere iniziata una coltivazione, ma anche la velocità con cui veniva abbandonata. La caduta dei cicli produttivi comportava gravi scompensi economici e sociali perché tutta una società organizzata per un certo tipo di produzione si trovava da un momento all'altro a dover cambiare sistema di vita. La monoproduzione (= «una sola produzione») e specialmente la monocoltura agricola erano forme di specializzazione produttiva che giovavano soprattutto agli interessi della madrepatria. Essa infatti poteva rifornirsi nelle varie colonie di tutte le materie prime che le erano necessarie, ottenendole a prezzi molto bassi e in cambio poteva vendere a prezzi altissimi i manufatti e le altre merci che le colonie, per il fatto stesso della specializzazione, non potevano produrre.
La produzione a cicli, caratteristica di tutta l'America meridionale e centrale, ha segnato in particolare la storia del Brasile, la cui formazione è stata diversa da quella delle colonie spagnole. Innanzi tutto i Portoghesi vi giunsero quasi per caso e l'importanza economica della scoperta non fu compresa immediatamente: l'unica sua risorsa era all'inizio il Pao Brasil, un legno rosso usato in tintoria che diede il nome all'intero Paese. Il Brasile produttore essenzialmente di legname contava alla fine del XVI secolo appena 60.000 abitanti, ma i bianchi in proporzione erano numerosi (25.000) mentre pochi erano gli Indios e gli schiavi neri. Verso il 1570 si aprì un nuovo ciclo di produzione: quello dello zucchero. Dalle isole atlantiche la coltivazione della canna da zucchero si diffuse in Brasile dove venne praticata con sistemi primitivi che distruggevano in breve tempo la capacità produttiva dei terreni. Quando un terreno era esaurito, veniva bruciata una zona della foresta e il fazendeiro, cioè il padrone della fazenda, con i suoi schiavi si spostava su questa nuova area. Lo sviluppo della colonia portoghese risale a questo periodo: la popolazione aumentò, ma soprattutto fu intensificata l'importazione di schiavi neri che vennero impiegati in gran numero nelle piantagioni di zucchero. Fu questo il grande momento della regione del Nord-Est, dove erano concentrate le fazendas; città come Recife (Pernambuco) e Bahia raggiunsero uno splendore notevole riempiendosi di abitanti e abbellendosi di ricchi edifici e di monumenti barocchi. Caduta la produzione dello zucchero in seguito alla concorrenza delle Antille, nel Brasile cominciò un nuovo vertiginoso ciclo di produzione: quello dell'oro. Questo terzo ciclo iniziò verso il 1720 con la scoperta delle miniere d'oro di Minas Gerais e proseguì per un cinquantennio; a partire dal 1729 nella stessa zona furono scoperti anche i diamanti. Lo sfruttamento delle miniere portò alla nascita improvvisa di grandi città: Ouro Preto, ad esempio, sorse nel giro di pochi anni e raggiunse i 100.000 abitanti. Ma con la fine del ciclo dell'oro queste città decaddero altrettanto rapidamente. Anche l'ascesa di Rio de Janeiro è legata al ciclo dell'oro: era qui infatti che i prodotti di Minas Gerais si imbarcavano per l'Europa.
L'indipendenza del Brasile non modificò nell'Ottocento il sistema di produzione a cicli: se era cambiato il regime politico la realtà sociale ed economica rimaneva la stessa. Ancora da Rio partì l'altro grande ciclo produttivo: quello del caffè. Ma furono soprattutto la città e lo Stato di San Paolo a beneficiare della ricchezza prodotta da questa coltura che rappresentò fin verso i primi decenni del XX secolo la base dell'economia brasiliana. Quella del caffè fu una produzione molto redditizia ma soggetta a periodiche crisi di sovrapproduzione: in certi anni i piantatori giunsero a distruggere parte del raccolto per non dover abbassare i prezzi. Così nel 1905 il caffè venne addirittura usato nelle locomotive al posto del carbone!
Verso la fine del secolo scorso cominciò il ciclo del caucciù: decine di migliaia di uomini si addentravano nelle foreste dell'Amazzonia alla ricerca dell'albero da cui trarre il latice che vendevano a prezzi altissimi o per lavorare nelle piantagioni. Erano i seringueiros, la cui fortuna durò fino a quando le piantagioni dell'Asia del Sud-Est non furono in grado di produrre gomma in quantità maggiore e a minor prezzo. Nel 1913 le esportazioni del Sud-Est asiatico superarono quelle del Brasile e da quel momento l'avventura della gomma terminò. Manaus, la città che era cresciuta vertiginosamente con il traffico della gomma ridiventò una piccola città di provincia.

AMERICA LATINA: INGLESI E FRANCESI

La rapidità con cui gli Spagnoli si impadronirono della loro fetta d'America ha del prodigioso: in meno di cinquant'anni conquistarono una sterminata regione che si estendeva per molte migliaia di chilometri, mentre, per fare un confronto, gli Inglesi, nei secoli successivi, procedendo dalle coste atlantiche verso l'interno del continente nordamericano avrebbero impiegato duecento anni per percorrere duecento chilometri, in media un chilometro all'anno. Si trattava, evidentemente, di due modelli molto diversi di colonizzazione. L'avanzata degli Spagnoli in quei primi decenni ebbe il carattere della pura conquista: la colonizzazione e gli stanziamenti vennero più tardi. I conquistadores, cioè, non si fermavano a dissodare il terreno o a impiantare attività produttive come avrebbero invece fatto i coloni inglesi dell'America settentrionale: la sete dei metalli preziosi li spingeva ad esplorare e conquistare sempre nuovi territori e ad abbandonarli appena l'oro si esauriva o cadevano le speranze di trovarne.
Alla fine del XVI secolo, comunque, in quella che era ormai l'America «latina» (detta così perché interamente nelle mani di due popoli latini, gli Spagnoli e i Portoghesi) la fase della conquista era terminata da un pezzo ed era cominciata quella della colonizzazione. I possedimenti spagnoli, divisi in due vicereami, si estendevano con continuità lungo tutto il continente dal Messico al Cile. Qui la conquista aveva dovuto arrestarsi fermata dai bellicosi Araucani; solo nel XIX secolo questi territori entrarono a far parte dell'America bianca divisi tra Cile e Argentina. Verso l'interno restava invece una larghissima fascia di terreno, corrispondente all'America equatoriale e tropicale della pianura, che era già stata attraversata dagli esploratori, ma dove la colonizzazione non era ancora giunta. L'America spagnola alla fine del XVI secolo era limitata ai grandi altipiani e all'istmo, alle aree, cioè, dei grandi imperi precolombiani, dove c'era abbondanza di uomini e di ricchezze e dove il clima risultava più adatto agli Europei.
L'organo principale dell'amministrazione spagnola per l'America era il Consiglio delle Indie che risiedeva in Spagna: sotto il controllo del re preparava le leggi destinate ai territori americani, sorvegliava l'operato dei funzionari statali e svolgeva le funzioni di tribunale supremo. In America l'autorità regia era rappresentata dai Viceré, designati direttamente dal re e scelti tra i membri delle più illustri famiglie della nobiltà spagnola; di norma restavano in carica per pochi anni e i loro poteri erano limitati dalle Audiencias, organi collegiali con funzioni giudiziarie e amministrative. Le Audiencias, formate da un numero variabile di Oidores (uditori), vigilavano sul comportamento dei funzionari e davano pareri ai viceré su tutti gli affari più importanti. Le diverse colonie erano suddivise in unità amministrative e giudiziarie minori a ciascuna delle quali era preposto un Corregidor che di solito aveva il particolare compito di controllare gli Indios. Le città godevano di una certa autonomia; il consiglio comunale, il Cabildo, era formato da due sindaci, gli Alcades, e da alcuni consiglieri, i Regidores.
I possedimenti portoghesi presentavano caratteristiche alquanto diverse: intanto non si poteva ancora parlare di colonie ma piuttosto di basi commerciali, isolate le une dalle altre e minacciate dalla penetrazione di altri coloni europei. I grandi spazi vuoti attirarono infatti presto l'interesse dei concorrenti e nel corso del Seicento nel tratto di costa tra il Rio delle Amazzoni e l'Orinoco sorsero diversi insediamenti francesi, inglesi e olandesi. Dal punto di vista amministrativo il territorio controllato dal Portogallo era articolato in Capitanie, una sorta di feudi dotati di larga autonomia, mentre l'autorità suprema spettava al Governatore Generale del Brasile che solo nel 1714 assunse il titolo di Viceré.
Il sistema fondato sulle Capitanie, che i Portoghesi avevano già sperimentato negli arcipelaghi atlantici, resistette fino al 1604, quando fu creato per le colonie portoghesi in America il Conselho da India. Nella prima fase della colonizzazione la Capitania era una vasta concessione data dalla Corona portoghese ad un personaggio che assommava ruoli politici ed economici. I Capitani dovevano prendersi cura dell'agricoltura e del commercio, attirare coloni e finanziare il loro insediamento sino a che la nuova colonia fosse in grado di bastare a se stessa. Ciò implicava tra l'altro il rifornimento della mano d'opera necessaria o riducendo in schiavitù gli Indiani o comperando schiavi africani: entrambi i metodi erano piuttosto onerosi. In generale l'amministrazione di una Capitania richiedeva la disponibilità di ingenti capitali, e infatti certi Capitani erano dei finanzieri che, senza neppure esser mai stati in Brasile, si limitavano a investirvi del denaro.
Le Capitanie, si è detto, erano concessioni analoghe ai feudi. Come questi erano ereditarie e comportavano per il titolare il rispetto di una serie di obblighi sotto pena di sequestro in caso di violazione o di fellonìa. I Capitani ricevevano in assoluta proprietà dieci leghe di costa divise in bande discontinue; avevano il diritto di esportare annualmente in Portogallo un certo numero di schiavi indiani, di controllare il traffico fluviale all'interno della Capitania e di concedere terre a coloni. Potevano trattenere un decimo della tassa sull'estrazione delle pietre e dei metalli preziosi o di altre tasse che riscuotevano per conto del re. Avevano il monopolio dei mulini e percepivano diritti su quelli che lavoravano su licenza. Durante i primi dieci anni ricevevano una parte delle tasse sul pesce e sul legno da tintura (il legno Brasile, uno dei generi di esportazione più interessanti) inviato in Portogallo.
I Capitani potevano fondare città e accordare loro privilegi; nominavano dei funzionari che erano tenuti al giuramento di fedeltà nei loro confronti. Esercitavano la giurisdizione penale, compresa la pena di morte, sugli indigeni e sui bianchi delle classi inferiori e potevano infliggere fino a dieci anni di esilio ai nobili. Esattamente come i grandi feudatari del Medio Evo i Capitani godevano di larghe immunità: gli ufficiali regi o corregidores non potevano penetrare nelle Capitanie ed i titolari di queste non potevano essere sospesi senza essere stati ascoltati personalmente dal re.
All'inizio vi furono quindici Capitanie concesse a dodici donatari, ma in seguito l'evidente mancanza di coesione tra esse indusse Giovanni III a creare un governo centrale o Capitania generale. Quando nel 1549 il governo del Brasile fu centralizzato, il capitano generale divenne il delegato del re. Egli doveva assicurare la difesa comune delle Capitanie, controllare i Capitani e assicurarsi che le imposte dovute al re fossero effettivamente riscosse.
Dal punto di vista della politica economica le colonie erano totalmente dipendenti dalla madrepatria. Secondo le idee del tempo, infatti, le loro risorse dovevano essere integralmente al servizio della madrepatria. Se un prodotto americano faceva concorrenza ad uno spagnolo veniva soppresso; i giacimenti di ferro, per esempio, presenti in diverse colonie non erano sfruttati per non fare concorrenza alle miniere spagnole; quando, all'inizio del XVII secolo, la produzione locale di vino crebbe al punto da rendere superflue le importazioni dalla Spagna, si ordinò di estirpare gran parte delle vigne americane. Le colonie non potevano commerciare che con la madrepatria e anche gli scambi tra le colonie dipendenti dalla stessa Corona dovevano passare attraverso Siviglia e Cadice che erano i capolinea, rispettivamente spagnolo e portoghese, del commercio americano. Le colonie fornivano in genere materie prime, metalli e pietre preziose, sostanze tintorie, cuoi e zucchero, mentre la Spagna e il Portogallo inviavano in America i manufatti di cui i coloni potevano aver bisogno. In verità uno dei problemi che la Spagna non seppe risolvere fu quello di adattare il proprio apparato produttivo alle esigenze dei coloni sviluppando le produzioni più richieste: così gran parte dei manufatti che la Spagna inviava nelle colonie erano fabbricati altrove, in Olanda, in Inghilterra, a Genova, ecc.
Il monopolio commerciale della madrepatria faceva sì che i coloni americani dovessero dipendere per molti generi di consumo dall'arrivo dei convogli di navi che in determinati periodi dell'anno attraversavano l'Atlantico. È facile immaginare quali inconvenienti ne nascessero: a parte il prezzo esorbitante delle merci, su cui gravava il costo del trasporto, spesso i convogli giungevano con forti ritardi, o non giungevano affatto, oppure non portavano merci della qualità richiesta e nella quantità necessaria, ecc. Era inevitabile che i consumatori americani cercassero di rimediare a questi inconvenienti ricorrendo in maniera massiccia al contrabbando.
I Paesi che erano stati esclusi dalla spartizione dell'America, la Francia, l'Inghilterra, i Paesi Bassi erano ben contenti di smerciare clandestinamente in America i loro prodotti e organizzarono il contrabbando su vastissima scala. Le autorità spagnole fingevano spesso di ignorare questo traffico illegale in parte perché erano impotenti a fermarlo, in parte perché i loro funzionari si lasciavano facilmente corrompere, ma soprattutto perché il contrabbando svolgeva una funzione indispensabile alla vita delle colonie americane. Molte volte si svolgeva alla luce del sole: per salvare le apparenze le navi contrabbandiere fingevano di essere in avaria ottenendo così il permesso di entrare in porto; per riparare i presunti danni scaricavano in terra le merci, che poi venivano vendute più o meno clandestinamente; infine la nave ripartiva e ripeteva la stessa operazione in un altro porto.
Il monopolio commerciale della Spagna e del Portogallo era d'altra parte apertamente sfidato dalla guerra di corsa, organizzata o favorita dai governi dei Paesi che erano in guerra o in attrito con loro. I primi a sfidare la potenza navale spagnola furono i corsari francesi e inglesi. Quando l'Inghilterra si trovò ufficialmente in guerra con la Spagna (e con il Portogallo, che dal 1580 era unito alla Spagna) gli attacchi dei corsari si intensificarono e numerose città furono prese e saccheggiate. Con l'insurrezione dei Paesi Bassi contro la Spagna a francesi e inglesi si erano affiancati i corsari olandesi.

LA CONQUISTA DELL'AMERICA LATINA DA PARTE FRANCESE E INGLESE

I tentativi francesi di penetrazione nell'area continentale dell'America Latina risalivano addirittura alla metà del XVI secolo, ma per lungo tempo non ebbero alcun successo. Solamente nel 1650 la Francia si assicurò il possesso di Caienna, primo nucleo della Guyana francese. L'Inghilterra e l'Olanda invece vi si erano stanziate già prima, nel 1595 e nel 1621. L'Olanda nel 1630 riuscì a strappare al Portogallo una lunga striscia di costa brasiliana, ma nel 1654 aveva dovuto lasciarla in seguito ad una rivolta dei piantatori di zucchero. Caratteri diversi ebbe la penetrazione delle Nazioni europee nelle Antille. La scomparsa delle popolazioni indie e la corsa all'oro verso il continente aveva lasciato queste isole quasi disabitate ad eccezione di alcune zone di Cuba, Santo Domingo, Porto Rico. Francia Inghilterra e Olanda furono così facilitate nell'insediare basi commerciali prima nelle Piccole Antille (1625) e poi anche nelle Grandi Antille (1635). La Francia fu favorita anche dal fatto che le basi dei filibustieri, molti dei quali erano protestanti francesi riparati in America al tempo delle guerre di religione, si trasformarono facilmente in colonie.