LE MONARCHIE NAZIONALI
L'affermarsi del
sistema feudale aveva significato il prevalere dei poteri locali, che una solida
copertura di immunità (giudiziarie, fiscali, ecc.) teneva al riparo da
intromissioni del potere centrale. La crisi di quel sistema significò il
progressivo ritorno ad un forte potere centrale, fermamente deciso a stroncare
qualsiasi forma di insubordinazione. I signori feudali avevano amministrato le
popolazioni europee esercitando una serie di poteri sovrani (o
«regalìe») come le funzioni giudiziarie e di polizia, la
riscossione delle imposte, l'arruolamento di forze armate, ecc., che
costituivano elemento integrante del feudo. L'obbiettivo dei sovrani europei era
di riprendersi questi poteri, e cioè, in sostanza, di spogliarne i
signori feudali, che li esercitavano a proprio arbitrio e, per lo più, a
proprio profitto, per attribuirli a ufficiali o funzionari pagati, ai quali di
volta in volta venivano assegnati specifici e temporanei incarichi di governo, e
che potevano essere revocati in qualsiasi momento. È evidente che questo
genere di funzionari si mostrava assai più malleabile e disposto ad
obbedire alle direttive del proprio principe di quanto non fossero i feudatari,
a cui immunità e regalìe venivano concesse una volta per tutte ed
erano di norma ereditarie.
La vecchia struttura di governo fondata sul
feudo non poteva essere smantellata da un giorno all'altro, anche perché
ad essa corrispondeva una classe sociale, l'aristocrazia feudale, che era
comunque potentissima e non aveva alcuna intenzione di farsi mettere da parte.
Gli stessi sovrani, del resto, condividevano la cultura, i valori, i modi di
vita di questa classe e non erano disposti a sbarazzarsene: si trattava
piuttosto di educarla all'obbedienza, di inserirla con le buone o con le cattive
nel nuovo sistema centralizzato di potere, di trasformare gradualmente i
riottosi vassalli di un tempo in premurosi cortigiani o in efficienti funzionari
regi. Si trattava, anche, di affiancarle una nobiltà diversa, con gli
stessi privilegi, ma con caratteristiche più conformi ai bisogni dello
Stato: la nobiltà degli uffici o, come anche si dice, la
«nobiltà di toga» (per distinguerla dalla «nobiltà
di spada»).
Così, quasi dappertutto in Europa le vecchie
strutture dello Stato feudale continuarono ad esistere, sia pure
progressivamente svuotate di poteri reali, e sopravvissero a lungo al proprio
esautoramento. Le nuove strutture amministrative, fondate sull'ufficio, le
crebbero accanto, forti di schiere sempre più numerose di ministri, di
giudici, di funzionari, di impiegati. A queste schiere di funzionari pagati, che
costituivano le burocrazie regie, si affiancarono gli eserciti permanenti
(attivi cioè anche in tempo di pace) costituiti da mercenari, che
liberarono i sovrani dalla necessità di ricorrere all'aiuto militare dei
vassalli. Era un altro modo di esautorare i nobili signori feudali, per i quali
fare la guerra era un piacere prima che un mestiere, e che alle proprie
capacità militari dovevano tutto: prestigio sociale, influenza politica,
ricchezza. Ora essi furono a poco a poco disarmati, e tutto quel che ancora
avevano, cariche, stipendi, pensioni, prebende, lo dovevano al favore (spesso
capriccioso) del principe.
La burocrazia e l'esercito permanente liberarono
i sovrani dai condizionamenti e dai ricatti dei propri vassalli. La loro
volontà era finalmente in grado di farsi valere senza riserve e senza
patteggiamenti. Per questa libertà di azione che i sovrani europei
vennero progressivamente acquistando (e non solo, come vedremo, nei confronti
della nobiltà feudale), il loro potere si disse «assoluto»,
cioè privo di vincoli e di limitazioni. Ma la complicata transizione dal
modello feudale di organizzazione dello Stato a quello assoluto non avvenne
ovunque allo stesso modo, né riuscì sempre a compiersi del tutto.
Tra il Quattrocento e il Cinquecento tale processo poteva dirsi ben avviato solo
nell'Europa occidentale (Francia e Inghilterra soprattutto); nell'Europa
centrale (il Sacro Romano Impero) e in quella orientale l'autorità dei
grandi feudatari si dimostrò più resistente e un potere monarchico
centralizzato stentò ad affermarsi e in qualche caso, in Polonia, per
esempio, non ci riuscì mai.
Nell'Europa occidentale l'episodio che
pose fine al predominio politico della classe feudale fu la cosiddetta guerra
dei Cento Anni (che in realtà durò anche di più: dal 1334
al 1453) e coincise con una spaventosa serie di sciagure, pestilenze e carestie
da cui la popolazione europea uscì stremata. La situazione che dette
origine alla guerra è caratteristica della confusione di poteri cui
poteva dar luogo il sistema feudale: come sappiamo, il re d'Inghilterra
possedeva in Francia vasti feudi. Nella sua qualità di sovrano inglese
era pari al re di Francia ed era anzi un suo rivale; nella sua qualità di
feudatario francese era invece un suo vassallo. Questa complicata situazione
parve dovesse risolversi quando, approfittando di un momento di debolezza
dell'avversario, il re d'Inghilterra cercò di conquistare anche la corona
di Francia. Di fronte all'invasione inglese molti nobili francesi tradirono il
proprio sovrano e gli altri non furono capaci di difenderlo. L'esercito
francese, composto da aristocratici che combattevano a cavallo e carichi di
pesanti armature, fu più volte sconfitto da quello inglese, che aveva
perso quasi del tutto l'antico carattere feudale, essendo reclutato in
maggioranza tra le classi sociali più umili dell'Inghilterra.
Naturalmente questa gente non combatteva a cavallo, ma a piedi: i fanti inglesi
erano forniti però di un'arma formidabile, l'arco lungo, nell'uso del
quale avevano raggiunto una straordinaria abilità, anche perché il
tiro era lo sport abituale in ogni villaggio inglese. Quando la famosa
cavalleria francese caricava, gli arcieri inglesi miravano ai cavalli e una
nuvola di frecce, scoccate tutte insieme, spezzava la foga dell'attacco: caduti
da cavallo e impacciati dalle armature, i cavalieri francesi si dibattevano
inutilmente a terra e cadevano facilmente preda degli avversari.
Il re
inglese riuscì davvero ad un certo punto ad impadronirsi della corona di
Francia. Ma l'invasione aveva scatenato l'odio dei Francesi contro gli stranieri
e la loro resistenza non poté essere piegata. Ormai gli Inglesi non si
trovavano più a combattere soltanto contro quella parte dell'aristocrazia
feudale francese che non aveva tradito il suo re, ma contro tutto il popolo
francese. Di questa seconda fase della lotta, caratterizzata da una larga
partecipazione delle forze popolari e diventata perciò una lotta di
liberazione nazionale, fu protagonista Giovanna d'Arco, una semplice pastorella
che, dicendosi ispirata da Dio, riuscì a conquistare la fiducia dei
soldati e a farsi assegnare dal re una vaga funzione di comando. Le sue prime
azioni militari furono coronate da successo e da quel momento la liberazione
della Francia fu in pratica assicurata. L'eroina, però, catturata durante
uno scontro, fu processata e condannata al rogo come strega.
La guerra
aveva creato alla corona di Francia, tra le altre cose, gravissimi problemi
finanziari. Da tempo i re contrattavano con i rappresentanti della
nobiltà e con quelli del clero l'entità delle imposte che questi
due ordini si impegnavano a pagare e la stessa pratica era stata stabilita anche
con diverse città. Durante la guerra e in relazione alle crescenti
necessità della corona, questi negoziati divennero più frequenti e
più burrascosi, ma soprattutto si spostarono dal piano locale e
provinciale a quello nazionale. Emersero così come una delle fondamentali
istituzioni del regno gli Stati Generali, ossia l'assemblea rappresentativa
della Nazione (l'equivalente del Parlamento inglese). Questa assemblea era
costituita dai rappresentanti, appunto, dei tre Stati (o ordini) della
nobiltà, del clero e del cosiddetto «terzo Stato» e cioè
teoricamente di tutti gli altri, di fatto della borghesia (gli abitanti delle
città). Tra il 1355 e il 1357, nel momento di maggiore debolezza della
corona, gli Stati Generali, trascinati dai rappresentanti della borghesia
parigina, riuscirono ad affermare il principio (analogo a quello sancito in
Inghilterra dalla Magna Charta) che nessun tributo avrebbe più potuto
essere riscosso dal re senza il consenso degli Stati. Ma le divisioni interne
all'assemblea non permisero di consolidare queste prime conquiste.
Al
termine della guerra Carlo VII (1403-1461), il re che portò a termine la
liberazione del Paese, e il suo successore Luigi XI (1423-1483) riuscirono a
farsi riconoscere il diritto di esigere in perpetuo alcuni tributi, come la
taglia, una tassa sulla terra da cui nobiltà e clero erano esenti e che
pertanto gravava solo sui contadini. Potendo contare su entrate sicure che non
aveva più bisogno di negoziare con nessuno, la corona si liberava di
fatto del controllo degli Stati Generali, che infatti solo in momenti di grave
crisi della monarchia sarebbero tornati ad esercitare o a rivendicare un ruolo
importante nello Stato. Quanto all'aristocrazia, che aveva dato così
cattiva prova di sé durante la guerra, non poté fare altro che
sottomettersi all'autorità del re: gli ultimi recalcitranti esponenti del
disordine feudale furono liquidati senza complimenti da Luigi XI. Alla fine del
Quattrocento il Regno di Francia era una delle più solide monarchie
nazionali del continente europeo. In Inghilterra, invece, al termine della
guerra dei Cento Anni era scoppiata una feroce guerra civile per il controllo
del trono tra due fazioni dell'aristocrazia. Fu la guerra delle Due Rose,
così detta dagli emblemi dei due gruppi rivali: una rosa rossa e una rosa
bianca, rispettivamente per la casa di Lancaster e per quella di York. Alla
fine, esaurita dalle continue lotte e dalle numerose esecuzioni che facevano
seguito ad ogni cambiamento di governo, la nobiltà inglese dovette
piegarsi di fronte a Enrico VII che nel 1485 si impadronì della corona
dando inizio alla nuova dinastia dei Tudor. Riconosciuto dal Parlamento, con
l'appoggio della borghesia e del popolo minuto che erano rimasti estranei alle
lotte interne alla nobiltà, Enrico poté riportare la pace nel
Paese e instaurare un governo accentratore e sotto molti punti di vista
«assoluto».
GIOVANNA D'ARCO
Caduta nelle mani degli Inglesi, Giovanna
d'Arco fu processata da un tribunale ecclesiastico e condannata al rogo come
eretica e strega. Fu bruciata a Rouen il 1431. Nel 1456, però, a guerra
finita, e pienamente ristabilita in Europa l'autorità della monarchia
francese, Giovanna fu riabilitata dalla Chiesa che, mezzo millennio più
tardi (nel 1920), l'avrebbe addirittura fatta santa e proclamata patrona di
Francia. La controversa leggenda di Giovanna d'Arco (1412-1431), detta «la
Pulzella d'Orléans» (il francese pucelle è diminutivo del
latino puella = «ragazza», ironicamente incrociato con pulicella o
pullicella, diminutivi di pulex = «pulce» e di pullus =
«pollo»), inizia già all'indomani dell'incoronazione a re di
Francia di quel Carlo VII che proprio Giovanna aveva contribuito a far
consacrare, combattendo vittoriosamente per liberare il suo Paese dagli Inglesi.
Uno dei primi documenti letterari riferiti alla straordinaria storia di questa
semplice figlia di contadini, che dall'età di tredici anni era
«visitata» da voci considerate divine, risale infatti al 1429, quando
Giovanna era ancora in vita: si tratta di un breve poemetto, Le Ditté de
Jeanne d'Arc, composto da Christine de Pisan. Ma la fortuna letteraria di
Giovanna annovera nomi ben più rilevanti. Anche William Shakespeare,
nella prima parte dell'Enrico VI, ci presenta la Pulzella: qui però, tra
il primo e il quinto atto, Giovanna si trasforma da vergine ispirata a
«turpe e maledetta ministra dell'inferno», che attende un figlio di
incerta paternità. Sulla stessa strada della demolizione della leggenda
di Giovanna si è messo nel XVIII secolo Voltaire (1694-1778) con La
Pulcelle d'Orléans (l'edizione definitiva è del 1762), un poema
eroicomico in ventun canti, sul genere dell'Orlando Furioso di Ariosto. Giovanna
d'Arco vi viene dipinta come una rozza e licenziosa servetta di
osteria:
Scaltra, gagliarda, ogni faccenda piglia,
alza pesi con
man grassa e nervosa,
versa fiasconi e serve con piacere
l'artigian,
l'avvocato, il cavaliere.
Cammin facendo, mena schiaffi a quanti
con
indiscreta illiberal maniera
or di dietro la tastano, or
davanti:
travaglia e ride da mattina a sera,
striglia e guida i
cavalli calcitranti,
li abbevera, li cura, e più leggera
d'una
piuma lor salta sulla groppa,
qual romano soldato, e via
galoppa.
Il ruolo di vergine guerriera e il tema della missione
ispirata da Dio furono reintegrati completamente nell'Ottocento, tra gli altri
dal poeta tedesco Friedrich Schiller (1759-1805) con la tragedia La pulcella
d'Orléans, rappresentata nel 1801, e da ben tre opere che, sul finire del
secolo scorso, lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) le ha
dedicato. Nel 1923 fu rappresentato per la prima volta il dramma storico Santa
Giovanna, del letterato irlandese George Bernard Shaw, nel quale la Pulzella,
capace di dialogare direttamente e semplicemente con Dio, incarna una sorta di
religiosità naturale, estranea alle ipocrisie e alle superstizioni della
Chiesa.
Altre numerose opere, anche in musica (esiste una Giovanna d'Arco
di Giuseppe Verdi), sono state ispirate direttamente o indirettamente (per
esempio il dramma Santa Giovanna dei macelli di Bertolt Brecht) alle gesta e al
personaggio della patrona di Francia, tra cui anche una straordinaria opera
cinematografica, La passione di Giovanna d'Arco del regista danese Carl Theodor
Dreyer, realizzato nel 1928.
BUROCRAZIA
Nel latino del tardo impero burra era una
stoffa di lana molto grossolana. Da burra è venuto il francese bure o
burel che dal XII o XIII secolo ha indicato una particolare stoffa per
tappezzare mobili e in particolare scrittoi o scrivanie. Dal Cinquecento bureau
è venuto a indicare la scrivania, poi il locale dove questo particolare
mobile era collocato, e quindi gli uffici, dove le scrivanie troneggiano, e in
particolare gli uffici pubblici. Bureaucratie (da cui l'italiano
«burocrazia») è un termine forgiato nel Settecento in Francia
sul modello di aristocratie per indicare il potere (greco kràtos =
«forza», «autorità») degli ufficiali pubblici. Sta a
indicare sia la funzione (il «potere») della pubblica amministrazione,
sia l'insieme dei suoi funzionari e impiegati. Per estensione è usato
talvolta per indicare anche l'insieme degli impiegati di enti o istituzioni
private, che, per dimensioni o funzioni, presentano caratteri simili a quelli
degli enti e uffici pubblici.
NAZIONE E PATRIA
«Nazione da Nascere, come Uccisione da
Uccidere»: così si legge nel grande Dizionario della lingua italiana
di Nicolò Tommaseo pubblicato tra il 1859 e il 1879. In effetti, in tutti
i diversi significati in cui la si usa o la si è usata, la parola
«nazione» è associata in qualche maniera all'idea di
generazione di origine, di discendenza. Boccaccio parlando di un tale dice che
non era «di gran Nazione», e intende dire che era di modesta origine,
di umili natali. Dante dice del Veltro che «sua nazion sarà tra
Feltro e Feltro» e qui «nazione» sta per luogo di origine o Paese
natale. Questi significati non sono più nell'uso moderno.
Oggi il
termine è a volte usato come sinonimo di Stato (esempio: Le Nazioni
Unite, la Società delle Nazioni) oppure di popolo inteso come elemento
costitutivo dello Stato (i deputati al Parlamento, ad esempio, sono detti
«rappresentanti della Nazione») o come controparte del governo (ogni
tanto i governi, specialmente quando si trovano nei guai, lanciano appelli alla
Nazione) oppure nel significato più generico di «genti» (le
Nazioni civili, le Nazioni barbare). «Nazione», però, ha anche
un suo significato specifico, che è il più diffuso e che sembra
abbastanza chiaro: tutti capiscono quel che vogliono dire espressioni come
«la Nazione italiana», «la Nazione francese», ecc. Eppure
darne un'esatta definizione non è facile.
In latino la parola natio
(genitivo nationis) aveva pressappoco gli stessi significati che in italiano, ma
con un raggio di applicazione più vasto. Poteva indicare
indifferentemente la razza di un animale, la qualità di una merce (si
diceva: cera pura natione pontica per indicare il tipo di cera prodotto nel
Ponto), o una classe di persone (per esempio: famelica hominum natio =
«razza di gente famelica»); in quest'ultimo caso la parola prendeva
un'intonazione ironica e spregiativa, come quando noi diciamo «razza
padrona» oppure: «che razza di imbecille!». Applicata ad un
popolo, la parola sottolineava l'origine comune (nel senso di razza o di stirpe)
e la peculiarità dei costumi, ma nulla di più.
Questa
genericità di significato è rimasta a lungo legata alla parola.
Nel Medio Evo e nei primi secoli dell'Età Moderna, ad esempio,
istituzioni, comunità o assemblee che raccoglievano gente di diversa
provenienza (i conclavi dei cardinali, le Università degli Studi, le
comunità mercantili, ecc.) si dividevano di solito per Nazioni. Queste
Nazioni però non coincidevano affatto con quelle di oggi:
all'Università di Parigi, ad esempio, la Nazione inglese comprendeva,
oltre agli Inglesi veri e propri, i Tedeschi, i Danesi, ecc.; a Genova la
Nazione dei mercanti tedeschi comprendeva anche gli Olandesi e i Fiamminghi; e
così via. «Patria» è termine tanto equivoco quanto
«nazione»: vuol dire il luogo dove si è nati o dove
tradizionalmente risiede la famiglia in cui si è nati (dal latino terra
patria = «terra del padre» o più genericamente, «degli
avi»). Ma quanto è grande questo luogo? Se sono nato nella
parrocchia di San Camillo, nella città di Roma, che è la capitale
d'Italia, l'Italia, Roma e la parrocchia di San Camillo hanno tutte e tre ottimi
titoli per essere considerate la mia patria. Toccherà a me, allora, di
volta in volta, decidere quale è la patria che conta di più per
me. E bisogna poi aggiungere l'Europa, l'Occidente e, perché no? il
mondo: con l'avvertenza che se l'europeismo può essere una forma di
nazionalismo (in quanto l'Europa si definisce in opposizione o in concorrenza a
ciò che non è Europa), il «cosmopolitismo» (dal greco
kòsmos = «mondo» «universo» e polìtes =
«cittadino») è la negazione di ogni divisione o rivalità
nazionale (un verso di una canzone anarchica dice: «Nostra patria è
il mondo intero»).
Nel Medio Evo i legami di solidarietà
più forti erano certamente quelli a livello parrocchiale o cittadino, e
cioè, come diremmo oggi con una punta di disprezzo (ma questo stesso
disprezzo è conseguenza del trionfo ottocentesco dei nazionalismi!), a
livello di «campanile»; o altrimenti, quelli a livello europeo (se per
Europa intendiamo la Cristianità occidentale, in opposizione al mondo
ortodosso e, ancora di più, a quello islamico). Il livello intermedio era
proprio quello dove l'amor di patria era meno vivo: Francia, Spagna,
Inghilterra, Italia erano per i più entità astratte, mere
espressioni geografiche, e sono diventate «patrie» solo al termine del
lungo processo di formazione degli Stati nazionali, concluso grosso modo nel
secolo scorso, o, per meglio dire, nel periodo tra la Rivoluzione Francese e la
Grande guerra.
GUERRA, PESTE E CARESTIA
Quella della guerra dei Cento Anni fu
un'epoca di crisi generale in Europa. La popolazione, cresciuta oltre le
limitate capacità dell'agricoltura di produrre beni alimentari, si
trovò esposta alla fame cronica e a frequenti carestie. La scarsa e
cattiva alimentazione tendeva ad abbassare le difese naturali dell'organismo
umano mentre il sovraffollamento delle città non poteva che peggiorare le
condizioni igieniche. Così le epidemie presero a colpire ripetutamente e
duramente la popolazione europea. La peggiore, la «peste nera» della
metà del Trecento (quella di cui parla anche Boccaccio nel Decameron),
proveniente dall'India, percorse da Sud a Nord tutta l'Europa, causando decine
di milioni di morti. Complessivamente nel corso del Trecento la popolazione
europea perse almeno un terzo dei settanta milioni di abitanti che contava
all'inizio del secolo.
Alla fame, alle pestilenze, alle devastazioni della
guerra si affiancarono tensioni sociali sempre più gravi. Rivolte e
disordini scoppiarono un po' dovunque tra le classi più umili, sia delle
città, sia delle campagne. A Firenze, nel 1378, i Ciompi, ossia gli
operai salariati dell'arte della lana, si ribellarono ai loro padroni e
tentarono di formare un'autonoma organizzazione di mestiere; dopo alcuni
successi iniziali (ottennero perfino di entrare nel governo della città)
il loro movimento fu represso, con il conseguente scioglimento di diverse
«arti minori» (quelle dei lavoratori dipendenti e di minuti artigiani)
a tutto beneficio dei mercanti e dei ricchi imprenditori delle «arti
maggiori».
Vent'anni prima, nella primavera del 1358, una violenta
rivolta contadina, detta jacquerie (da Jacques Bonhomme, ossia, potremmo
tradurlo, Giacomo Bonomo, un personaggio leggendario, simbolo del contadino
francese) aveva scosso la Francia: causata dalla povertà e dalla fame,
era una forma violenta di protesta contro la guerra, contro le tasse di guerra,
contro le rapine e i saccheggi delle bande di soldati che vagavano da un capo
all'altro del Paese, e infine contro l'oppressione dei signori feudali. La
rivolta era stata rapidamente e spietatamente repressa dai nobili. Ma altre
jacqueries tornarono a scoppiare improvvise nei decenni successivi, non solo in
Francia, ma anche nelle Fiandre, in Germania, in Boemia e non solo per cause
connesse alla guerra, ma per la generale, crescente insofferenza delle
popolazioni rurali verso gli obblighi feudali a cui erano sottoposte.
Nel
1381 in Inghilterra i contadini si ribellarono contro i tributi di guerra e
contro il tentativo dei signori di restaurare nelle sue forme più dure la
servitù della gleba, di cui molti di loro si erano liberati e gli altri
volevano liberarsi. Assalirono e incendiarono i castelli, devastarono le
proprietà dei nobili e le loro riserve di caccia, assassinarono
proprietari e ufficiali regi, badarono soprattutto a dar fuoco agli archivi che
conservavano la documentazione relativa agli obblighi feudali dei coloni,
affinché se ne perdesse la memoria. Poi, in centomila, marciarono su
Londra guidati da Wat (o Walter) Tyler, un reduce della guerra in Francia, dove
si impadronirono di palazzi e fortezze, e uccisero il Cancelliere del regno,
l'arcivescovo Sudbury, responsabile dell'imposizione delle nuove tasse sui
contadini. Non era una jacquerie: il movimento aveva dei capi, una
organizzazione unitaria, un programma politico consistente nell'eliminazione
della servitù contadina e nella confisca e nella distribuzione ai
contadini delle terre della Chiesa.
Il re, il quattordicenne Riccardo II
(1367-1399), si mise ufficialmente dalla parte dei ribelli e, accettando il
primo punto del loro programma, emanò un provvedimento generale di
emancipazione dei contadini. Si guardò bene, però, dall'accogliere
l'altro. Nello stesso tempo manovrò per decapitare il movimento e
disperdere gli insorti, molti dei quali, del resto, erano già tornati
alle loro case. Mentre si intratteneva a colloquio con lui, fece prendere a
tradimento e uccidere Wat Tyler. Poi, continuando nella sua finzione,
mostrò di voler assumere direttamente il comando degli insorti che erano
rimasti a Londra (non più di trentamila), e un po' con le buone un po'
con le cattive riuscì ad allontanarli. A quel punto seguì,
inevitabile, la repressione del movimento contadino e si scatenò la
feroce vendetta dei signori contro quanti vi avevano partecipato. Il Parlamento
si affrettò ad annullare gli statuti di emancipazione concessi, anche se
il proposito di restaurare nelle campagne inglesi la servitù della gleba
si rivelò impraticabile.
JACQUERIE
Il nome jacquerie è entrato nell'uso
per indicare le insurrezioni contadine che, come quella del 1358, presentano un
carattere spontaneo e non organizzato, e che sembrano non avere altro obiettivo
che l'esecuzione di una sommaria giustizia (il massacro dei presunti colpevoli o
la devastazione dei loro beni) contro i responsabili delle sofferenze del popolo
(signori feudali, usurai, esattori delle imposte, ecc.). La mancanza di
programmi e di organizzazione è considerato il principale elemento di
debolezza di questi movimenti. In effetti le jacqueries iniziano di solito con
improvvise e terrificanti esplosioni di violenza, ma tendono a esaurirsi in
breve tempo e finiscono quasi sempre per essere soffocate in un bagno di
sangue.
UNA RIFORMA SEMPRE RINVIATA
La Chiesa di Roma era cresciuta nel corso
dei secoli come grande potenza terrena: si era impadronita di immense
proprietà terriere in ogni parte dell'Europa occidentale, i suoi vescovi
e i suoi abati avevano esercitato ovunque funzioni amministrative e di governo
in virtù di speciali prerogative feudali; i suoi pontefici, dopo essersi
costruiti un vasto dominio territoriale nell'Italia centrale, avevano tentato di
imporre la propria autorità ai sovrani d'Europa. Molti, come abbiamo
visto, dentro e fuori la Chiesa si domandavano che cosa avesse a che fare tutto
ciò con il messaggio evangelico che invitava alla povertà, alla
mansuetudine, alla carità insegnando il rifiuto del potere e della
violenza.
Nello stesso tempo l'organizzazione ecclesiastica aveva
acquistato una struttura fortemente gerarchica che faceva capo al pontefice.
Anche il potere autocratico del pontefice e la struttura gerarchica della Chiesa
sembravano contrastare con gli insegnamenti del cristianesimo primitivo, che,
almeno nell'immagine che se ne facevano i riformatori, si era organizzato in
comunità di eguali, fondate sulla collaborazione e sulla fratellanza e
non, come la Chiesa moderna, sul principio d'autorità e sulla
disciplina.
Dal punto di vista religioso, un aspetto particolarmente
sconcertante dell'autoritarismo ecclesiastico era poi la netta separazione tra
clero e laicato. Il clero era investito di tutti i poteri e di tutte le funzioni
(interpretazione e insegnamento della dottrina evangelica, amministrazione dei
sacramenti e celebrazione dei riti, godimento dei beni e delle rendite
ecclesiastiche); il laicato era escluso da ogni partecipazione attiva e
consapevole alla vita della Chiesa. L'uso del latino nelle cerimonie religiose,
l'uso cioè di una lingua che la grande massa dei fedeli non era
più in grado di capire, era un poco il simbolo di questa riduzione dei
laici al ruolo di semplici e inerti spettatori.
Di tutti questi problemi si
fece interprete nella seconda metà del Trecento l'inglese John Wyclif (o
Wycliffe, 1320 ca. - 1384). L'idea centrale del suo pensiero era che Dio,
signore assoluto del mondo, non delega a nessuno i suoi poteri, sicché
ogni uomo si trova immediatamente in presenza di Dio: con lui, se così ci
si può esprimere, ognuno deve vedersela da solo. Ciò significava
che le pretese papali di rappresentare Dio in Terra erano semplicemente assurde
e che la mediazione della Chiesa tra il credente e Dio era sostanzialmente
inutile. L'uomo è irrimediabilmente corrotto dal peccato, i suoi presunti
meriti non contano nulla, e solo Dio può salvarlo con la sua
grazia.
Da queste premesse Wyclif traeva alcune importanti conseguenze: se
il papa non rappresentava nessuno all'infuori di se stesso, anche le sue pretese
di supremazia sui sovrani di questo mondo erano infondate. Semmai, toccava
proprio ai re, immagini della regalità di Cristo, esercitare un potere
eminente sull'autorità sacerdotale. La Chiesa pretendeva di essere
l'unica interprete autorizzata del Vangelo; in realtà, essa stessa doveva
essere giudicata in base al Vangelo. La Chiesa, del resto, non si identificava
affatto con la gerarchia sacerdotale, ma piuttosto con la comunità degli
eletti, e cioè dei cristiani a cui Dio aveva concesso la sua grazia.
Nessun sacerdote (e tanto meno il papa) aveva dunque il diritto di esercitare le
sue funzioni se il suo comportamento non era conforme al Vangelo; ancor meno
aveva diritto di godere di beni e rendite ecclesiastiche.
E non era certo
conforme al Vangelo aspirare, contro la legittima autorità civile, a un
potere stravagante e ingiusto, accumulare ricchezze a danno dei poveri,
turlupinare i fedeli con indulgenze e pratiche religiose tutte esteriori,
derubare il popolo con le decime. La Chiesa doveva riscoprire i valori
evangelici della semplicità, dell'umiltà, della povertà;
doveva, soprattutto, schierarsi con gli umili e con i poveri.
Di poveri in
quegli anni ce ne erano molti in Inghilterra a causa sia della guerra con la
Francia (la guerra dei Cento Anni), sia delle pestilenze e delle carestie che
avevano colpito tutta l'Europa e che continuavano periodicamente a imperversare,
sia, infine, dell'atteggiamento dei signori feudali e dei proprietari terrieri
che, di fronte alle difficoltà che tutta l'economia europea si trovava ad
attraversare, cercavano di rifarsi sui contadini loro dipendenti aggravandone
gli obblighi servili, o addirittura scacciandoli dalle terre loro affidate per
trasformarne i campi in pascoli, che risultavano più remunerativi (per i
padroni): «le pecore», si diceva, «mangiano gli
uomini».
Intorno al 1380 si formò il movimento detto dei
«Lollardi», animato da una quantità di poveri preti e di
predicatori laici che, in aperta contrapposizione con la Chiesa ufficiale e
ispirandosi alle dottrine di Wyclif, percorrevano l'Inghilterra da un capo
all'altro, proclamando l'uguaglianza di tutti gli uomini e incitando i contadini
a ribellarsi contro l'oppressione feudale. Uno di loro, John Ball, in una sua
predica, ripeteva i versi che, come un ritornello rivoluzionario, avrebbero
accompagnato la lunga marcia della democrazia in Inghilterra:
Quando
Adamo zappava
ed Eva filava
chi era allora gentiluomo?
E
commentava:
... All'origine dei tempi tutti gli uomini erano uguali.
La servitù fu introdotta dall'azione ingiusta degli iniqui in contrasto
con la volontà di Dio, giacché se Dio avesse avuto l'intenzione di
fare gli uni servi e gli altri signori, avrebbe stabilito questa distinzione fin
da principio [...]. Il tempo è venuto di estirpare ed eliminare i cattivi
signori, i giudici ingiusti, i legulei, che ostacolano il bene comune. Allora ci
sarà la pace per il presente e la sicurezza per
l'avvenire...
Erano anche prediche come queste che avevano portato i
contadini inglesi nel 1381 a marciare su Londra chiedendo tra l'altro la
confisca delle terre della Chiesa a beneficio dei poveri. Wyclif non
partecipò alla marcia, che pure godeva di tutte le sue simpatie, ma certo
vi parteciparono parecchi Lollardi. Il loro movimento, che era insieme di
protesta sociale e religiosa, aveva raggiunto in breve tempo una straordinaria
diffusione. Si diceva che un inglese su quattro fosse lollardo, segno che le
idee di riforma erano più che mai popolari. E la cosa non era vera solo
per l'Inghilterra. In Boemia, ad esempio, nel cuore dell'Europa, sorse in questo
tempo un movimento affine ai Lollardi, ispirato alle dottrine di Jan Hus, un
ammiratore di Wyclif.
Ma a chi sarebbe toccato promuovere la riforma della
Chiesa, primo passo per un riforma generale della società? Erano gli anni
in cui il prestigio dei pontefici attraversava un momento di grave smarrimento
La «cattività avignonese» si era conclusa in uno scisma, anzi
in una serie di scismi, e prima due e poi tre papi contemporaneamente (li
chiamavano «la Maledettissima Trinità») si erano disputati la
cattedra di San Pietro, senza che nessuno riuscisse a capire chi fosse il papa e
chi l'antipapa (tanto che se Santa Caterina da Siena parteggiava per l'uno, San
Vincenzo Ferrer parteggiava per l'altro). Parve allora che l'autorità dei
concili potesse tornare ad avere il sopravvento su quella del pontefice, come
era stato nei primi tempi della Chiesa, e che un Concilio potesse prendere
l'iniziativa della riforma.
Ma l'esperienza conciliare non fece affatto
buona prova. Alla fin fine i Concili erano espressione non del popolo di Cristo,
ma della gerarchia ecclesiastica, e difficilmente avrebbero potuto, per
compiacere il primo, assumere iniziative contrarie agli interessi della seconda.
Il Concilio di Costanza, durato quattro anni, dal 1414 al 1418, riuscì a
mala pena a sanare lo scisma deponendo tutti e tre i papi regnanti ed
eleggendone un quarto. Quanto alla riforma della Chiesa, si limitò a
condannare le dottrine dei due maggiori riformatori del tempo, John Wyclif e il
suo continuatore boemo Jan Hus.
Professore dell'università di Praga,
Hus aveva preso a predicare (in lingua cèca) contro il primato del papa e
contro la vendita delle indulgenze. Uno dei papi allora regnanti lo aveva
scomunicato. Ma il Concilio di Costanza riuscì a far di peggio: lo
invitò a chiarire di persona le sue posizioni e quando Hus si
presentò a Costanza, munito di un salvacondotto dell'imperatore, lo fece
arrestare (illegalmente), lo processò (altrettanto illegalmente), lo
condannò a morte, lo mandò al rogo. In Boemia scoppiò una
rivolta e gli hussiti sopravvissero come organizzazione politico-religiosa sino
a confluire, un secolo più tardi, nel grande movimento della Riforma
protestante. Quanto a Wyclif, che era morto da oltre trent'anni, il Concilio
ordinò che il suo cadavere fosse dissotterrato perché potesse
essere anche lui gettato sul rogo.
Il successivo Concilio di Basilea
(1431-1440) avrebbe dovuto finalmente procedere alla riforma della Chiesa in
capite et in membris (nel suo capo e in tutte le sue membra), come volevano i
sostenitori della supremazia del Concilio sul papa, o anche solo in membris,
come voleva il papa. Riuscì invece soltanto a riaprire lo scisma
eleggendo imprudentemente un antipapa, a cui il papa reagì convocando un
anticoncilio. La vicenda si concluse con il pieno discredito dell'idea
conciliare e con il definitivo trionfo dell'autocrazia papale (nel cui ambito al
Concilio non restava che una vaga funzione consultiva).
LA MOSCOVIA
Nel XII secolo il principato di Kiev si era
smembrato in tanti Stati spesso in lotta fra di loro e avviati anche
economicamente sulla strada di una lenta decadenza. Quando, nel secolo
successivo, si abbatté su di loro l'improvviso e terribile attacco
mongolo, essi non erano più in grado di opporre una seria
resistenza.
I Mongoli erano degli straordinari conquistatori. Agli inizi
del XIII secolo avevano abbandonato le loro sedi originarie nell'Asia centrale e
si erano riversati sulla Cina del Nord, che avevano sottomesso. Più tardi
si erano rivolti verso Occidente e nel 1223 avevano affrontato e distrutto un
grande esercito russo inviato a fermarli. Poco dopo cominciò l'invasione
vera e propria della Russia. Nel giro di una ventina d'anni conquistarono una
dopo l'altra numerose città: Rjazan, Suzdal, Rostov, Cernigov, la stessa
Kiev.
La marea mongola si arrestò alla fine sui confini della
Polonia, ma un grande Impero Mongolo, l'Impero dell'Orda d'Oro, con capitale a
Saraj presso il Volga, dominava ormai gran parte della Russia. A Occidente altri
territori russi erano destinati a cadere in mano di Polacchi e di Lituani. Si
spezzava così quell'unità del popolo russo che il Principato di
Kiev era riuscito a realizzare.
Il dominio mongolo si ispirò a
criteri di grande moderazione. Il sovrano mongolo, il Khan dell'Orda d'Oro, non
spodestò i principi russi sconfitti, ma si limitò a pretendere da
loro la sottomissione e, soprattutto, tributi. Con uno spirito di tolleranza
sconosciuto nel mondo cristiano, i Mongoli, che erano in maggioranza musulmani,
rispettavano la religione cristiano-ortodossa e non pretesero di modificare i
costumi o le leggi del popolo russo. Su tutto il territorio a loro soggetto,
poi, organizzarono un'efficiente amministrazione, curando in special modo il
settore dei trasporti e delle comunicazioni.
Per certi aspetti, dunque, il
dominio mongolo costituì addirittura un'esperienza vantaggiosa per la
Russia. Esso però causò l'isolamento del popolo russo (ad
esclusione della repubblica di Novgorod, che continuò ad avere attivi
rapporti con l'Occidente) dal resto dell'Europa e gli effetti di tale isolamento
si fecero sentire a lungo, anche dopo il crollo della potenza mongola.
La
riscossa nazionale russa fu opera di un piccolo principato, quello di Mosca,
nato tra il XII e il XIII secolo nato dallo smembramento dello Stato di Kiev e
presto caduto sotto il controllo dei Mongoli. Sebbene destinato a liberare la
Russia dal dominio mongolo, il principato di Mosca riuscì a crescere di
potenza e d'autorità proprio grazie ai Mongoli. I principi moscoviti,
infatti, erano in un certo senso gli uomini di fiducia del Khan: per suo conto
riscuotevano dagli altri principi russi i tributi dovutigli e il loro esercito
era sempre pronto a reprimere qualsiasi tentativo di ribellione contro la sua
autorità.
Esercitando questa funzione di esattori e di poliziotti al
servizio dell'Orda d'Oro, i principi di Mosca si arricchirono ed estesero a poco
a poco il proprio territorio sino a raggiungere una posizione di egemonia su
tutta la Russia. Anche il metropolita (la più alta autorità
religiosa dopo il patriarca) della Chiesa ortodossa, che era il capo spirituale
del popolo russo, dovette riconoscere questa loro supremazia: nel 1328
stabilì la propria sede a Mosca e da quel momento il clero russo
seguì docilmente la politica dei principi moscoviti.
Nel XV secolo
la Moscovia si affermò definitivamente come il nucleo del nuovo Stato
nazionale, destinato ad assorbire progressivamente ogni altro territorio russo.
I maggiori successi in questo senso furono ottenuti sotto il regno di Ivan III
il Grande (1462-1505). Combattendo contro i principi rivali e contro la
Lituania, Ivan III si impadronì di Jaroslav, di Perm, di Rostov, di Tver.
Nel 1478 riuscì a sottomettere la potente repubblica di Novgorod, che si
era alleata alla Lituania. Il successore di Ivan III continuò la sua
opera annettendo Pskov e Rjazan.
Mentre il principato di Mosca cresceva in
estensione e in potenza, lo Stato dell'Orda d'Oro andava disgregandosi a causa
di discordie interne e di guerre con altri potentati mongoli. Così, nel
corso del XV secolo, i rapporti di forza tra i Russi e i loro dominatori si
modificarono profondamente a tutto vantaggio dei primi. I principi di Mosca, che
erano stati i più fedeli vassalli del Khan mongolo, ne approfittarono per
sottrarsi a ogni dipendenza nei suoi confronti. Nel 1480 Ivan III rifiutò
di pagare al sovrano mongolo il consueto tributo e per far ciò non fu
neppure costretto a combattere. La sua potenza era tale, ormai, che gli
bastò minacciare una grande campagna militare per indurre l'antico
padrone a non avanzare più alcuna pretesa nei suoi
confronti.
Terminava così dopo due secoli e mezzo il dominio mongolo
sulla Russia: dopo altri settant'anni i Mongoli furono cacciati via anche dai
territori posti a Nord del Caucaso e del Mar Caspio. Ma il nuovo Stato russo
conservava molte caratteristiche del governo mongolo, in primo luogo la
concezione stessa dello Stato, che proprio durante il regno di Ivan III si
sarebbe arricchita dell'eredità politica e culturale dell'autocrazia
bizantina. Come nell'Impero Mongolo, così nello Stato russo ogni
individuo era tenuto a prestare un'obbedienza assoluta e a fornire un servizio
illimitato al sovrano. Il sovrano accentrava ogni potere e si valeva nel governo
di una burocrazia e di un esercito dipendente direttamente da lui. Ma il sovrano
era anche il padrone di tutte le terre e di tutte le ricchezze del Paese e i
privati che le possedevano, le possedevano esclusivamente per concessione del
sovrano. Come disse un influente uomo di chiesa russo agli inizi del Cinquecento
«l'autorità dello zar (così aveva cominciato a chiamarsi Ivan
III) è simile a quella di Dio».
LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
In un certo senso l'antico Impero Romano
poté dirsi veramente e definitivamente caduto solo il 29 maggio 1453,
quando i Turchi ottomani guidati da Maometto il Conquistatore riuscirono a
impadronirsi di Bisanzio (Costantinopoli) e uccisero il suo ultimo imperatore,
Costantino XI: tra l'Impero Romano d'Oriente e l'Impero Bizantino non c'era mai
stata, infatti, alcuna soluzione di continuità, salvo la parentesi
dell'Impero Latino d'Oriente creato dai Crociati nel 1202 (quarta crociata) per
volontà e nell'interesse di Venezia. Dopo qualche decennio di vita
stentata, l'Impero Latino era stato liquidato (con l'aiuto di Genova, rivale di
Venezia) dalla dinastia greca dei Paleologhi.
Dall'Occidente l'Impero
Bizantino doveva ancora attendersi ricatti e tradimenti, ma il vero pericolo era
costituito dai Turchi ottomani (detti così da Osman, il fondatore, agli
inizi del Trecento, di un loro principato in Asia Minore). Nel 1361 gli
Ottomani, che nel frattempo avevano esteso il loro Impero sull'Anatolia, dopo
esser intervenuti più volte nei domini bizantini d'Europa, si erano
impadroniti di Adrianopoli nella Tracia, e qui, nel 1402, avevano trasferito la
propria capitale, chiaro segno della volontà di spostare in Europa l'asse
del loro Impero.
L'agonia dell'Impero Bizantino, che tentò
disperatamente ma inutilmente di trovare aiuti in Occidente, accettando tra
l'altro la riunione della Chiesa Ortodossa con quella Romana, durò altri
cinquant'anni. Quando, il 6 aprile del 1453, cominciò l'assedio di
Bisanzio, l'ultimo imperatore, Costantino XI, disponeva di appena 10.000 uomini,
contro i cento o centocinquantamila del suo avversario. Dopo aver battuto per
otto settimane le gigantesche fortificazioni che difendevano la città,
impiegandovi alcuni grossi cannoni che si era fatto costruire da un rinnegato
ungherese, Maometto II ordinò l'assalto generale, che travolse la
resistenza degli assediati. La città fu messa a sacco per tre giorni
interi e la popolazione sterminata, salvo gli artigiani e gli uomini più
robusti, che vennero fatti schiavi. «Ripulita» così la
città, Maometto II pensò dapprima di ripopolarla solo con Turchi,
ma poi ammise anche Greci, Ebrei, Armeni, assicurando a tutti ampia
libertà di professare la propria religione. Ribattezzata Istanbul,
divenne la nuova capitale dell'Impero Ottomano.
La caduta di Costantinopoli
sgomentò le potenze occidentali, che vedevano avvicinarsi la minaccia
turca. In effetti, sempre durante il regno di Maometto II, i Turchi riuscirono a
conquistare in una successione impressionante Atene (1458), la Morea (1460),
Trebisonda (1462), l'Albania (1466-67), la Caramania e l'Anatolia orientale
(1466-72), le colonie genovesi del Mar Nero (1475), la Crimea e l'Erzegovina,
fino a raggiungere la stessa Italia meridionale dove, nel 1480, attaccarono e
presero Otranto. L'espansione in Europa continuò poi con la presa di
Belgrado (1521), di Rodi (1522) e di Buda (1529) mentre più o meno nello
stesso tempo con l'annessione dell'Algeria e della Tunisia tutto il Nord Africa,
ad esclusione del Marocco, cadeva sotto il dominio ottomano.
Anche in
Russia la caduta di Costantinopoli ebbe importanti ripercussioni: Mosca, che si
era sempre opposta alla riunificazione della Chiesa orientale con quella
occidentale, divenne di fatto la capitale del mondo ortodosso. Anche dal punto
di vista politico fu Mosca a raccogliere l'eredità spirituale dell'Impero
Bizantino. Nel 1472 Ivan III sposò Zoe (o Sofia), nipote dell'ultimo
imperatore bizantino e il matrimonio gli servì per indicare nello Stato
russo il continuatore di Bisanzio e quindi dell'antica Roma (teoria delle tre
Rome: se Bisanzio era stata la seconda Roma, Mosca era la terza e ultima). Lo
stesso Ivan III assunse per sé e per i suoi successori il titolo di zar
(che non è altro che il latino Caesar = «Cesare»), ossia di
imperatore, riformò il cerimoniale di corte secondo il modello bizantino
e adottò la concezione autocratica del sovrano (personaggio sacro, o
piuttosto semidivino, dipendente solo da Dio e superiore a ogni altra
autorità o istituzione, Chiesa compresa) che era propria della tradizione
politica bizantina.
LA POTENZA ASBURGICA E LA «MONARCHIA D'EUROPA»
All'inizio dell'età moderna, ossia
tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, per la scomparsa di
una serie di antichi potentati feudali assorbiti nelle maggiori monarchie, la
carta politica dell'Europa appariva notevolmente semplificata. Della Francia e
dell'Inghilterra abbiamo detto. La penisola iberica, dopo la cacciata degli
Arabi dal regno di Granata nel 1492, risultava divisa tra il regno di
Portogallo, tutto proiettato, come vedremo, a costruirsi un Impero d'oltremare,
quello di Castiglia e quello d'Aragona. Ma questi due ultimi regni, per il
matrimonio, celebrato nel 1469, tra i rispettivi principi ereditari, Isabella e
Ferdinando (entrambi detti Cattolici, un titolo di cui si sono fregiati tutti i
re di Spagna, così come quello di Cristianissimo è stato
l'attributo dei re di Francia), costituivano dal 1479 un unico blocco, la
Spagna, una nuova, grande potenza, che presto avrebbe aspirato all'egemonia
sull'Europa.
A differenza della Francia, dove l'omogeneizzazione delle
diverse province (e cioè la formazione di una «nazione
francese») era già relativamente avanzata, La Spagna non era affatto
uno Stato unitario, giacché le corone di Castiglia e Aragona restarono
separate a tutti gli effetti anche quando, morta Isabella nel 1504 e Ferdinando
nel 1516, entrambe furono ereditate dal nipote Carlo d'Asburgo. Ciascuna delle
due corone, poi, comprendeva domini diversi. Quella d'Aragona comprendeva
l'Aragona propriamente detta, la Catalogna (con Barcellona) e Valenza. Fuori
della penisola iberica all'Aragona erano legati il regno di Sicilia e quello di
Napoli, mentre il regno di Navarra era un suo protettorato. La Corona di
Castiglia oltre la Castiglia, comprendeva il regno di Leòn, annesso dal
1230, l'Andalusia con Cordova e Siviglia e, dopo la scoperta dell'America, le
colonie spagnole in quel continente.
La Spagna era dunque una sorta di
larga confederazione di Stati, ognuno dei quali conservava le sue leggi, i suoi
ordinamenti costituzionali, le sue strutture amministrative (per non parlare
delle culture, delle nazionalità e delle lingue diverse). Più
precisamente ciascuno di questi Stati ha avuto una diversa evoluzione
costituzionale: così ad esempio, in Castiglia le antiche assemblee
rappresentative, le Cortes, sono state assai presto messe da parte dalla Corona,
mentre in Aragona hanno conservato tenacemente le loro capacità di
controllo e di resistenza. L'unione di questi Stati, in definitiva, si
realizzava soltanto nella persona del re e restò sempre assai
problematica. Un altro esempio: le colonie americane, originariamente dipendenti
dalla corona di Castiglia restarono anche nei secoli successivi chiuse ai
sudditi delle altre corone di Spagna.
La corona imperiale era diventata
elettiva nel 1356 in forza della Bolla d'oro dell'imperatore Carlo IV di
Lussemburgo, che aveva ristretto il diritto di voto a sette principi elettori,
tre ecclesiastici e quattro laici: gli arcivescovi di Magonza, Colonia e
Treviri, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia, il re di Boemia, il
marchese di Brandeburgo. Dal 1438, quando la scelta era caduta su un Asburgo (o
Absburgo o Habsburg dal castello di Habichtsburg, che alla lettera vuol dire
«castello dei falchi», in Svizzera, sua sede originaria), la corona
imperiale, pur restando sempre elettiva, non sarebbe più uscita da questa
casa. Il Sacro Romano Impero era diviso in una quantità di piccoli e
grandi Stati feudali, domini ecclesiastici, città libere, ecc., che
teoricamente dipendevano dall'imperatore, ma che di fatto godevano di
larghissima autonomia.
La forza dell'imperatore stava tutta negli antichi
domini ereditari della casa d'Asburgo in Austria (a cui si aggiunsero i regni di
Boemia e di Ungheria) ed anzi che la corona imperiale sia rimasta dal
Quattrocento in poi appannaggio degli Asburgo si spiega soprattutto con il fatto
che essi erano in Germania i soli che ne potessero sopportare il peso. Anche
l'acquisto del regno di Ungheria, fu insieme un onore e un onere. Con la Polonia
e la Russia, l'Ungheria costituiva uno dei baluardi cristiani contro l'avanzata
dell'Impero Ottomano che dai Balcani puntava ormai al cuore dell'Europa.
Così, agli Asburgo d'Austria toccò, oltre il compito di governare
quella composita e indisciplinata realtà che era il Sacro Romano Impero,
anche quello, forse più gravoso, di proteggere gli Stati cristiani, amici
o nemici che fossero, contro il pericolo turco.
Nella prima metà del
Cinquecento si svolse una lunga lotta tra la Francia da una parte, la Spagna e
l'Impero dall'altra, la cui posta era rappresentata principalmente dall'Italia.
Divisa in un certo numero di Stati regionali (il Regno di Napoli, le repubbliche
di Firenze, di Genova, di Venezia, lo Stato di Milano, ecc.) l'Italia era l'area
forse più ricca e sviluppata d'Europa, ma la divisione politica e la
debolezza militare dei suoi Stati, grandi e piccoli, l'avevano resa facile preda
delle potenze maggiori. In un Mediterraneo che era diventato il teatro
principale della quotidiana lotta dell'Europa cristiana contro i Turchi e contro
i loro alleati Nord-africani (i cosiddetti Barbareschi che conducevano con i
loro agili vascelli un'incessante guerra corsara nel Mediterraneo occidentale),
l'Italia costituiva poi una sorta di avamposto di straordinaria importanza
strategica.
A partire dal secondo decennio del secolo Spagna e Impero erano
entrambi retti da Carlo d'Asburgo. Carlo (quinto come imperatore, ma primo di
questo nome tra i re di Spagna), per una serie di fortunati eventi, aveva
ereditato dalla madre, figlia di Ferdinando e Isabella, i regni di Castiglia e
Aragona, le colonie spagnole d'America e i regni di Sardegna, Napoli e Sicilia e
dal padre l'Austria e i Paesi Bassi; nel 1519 infine i principi tedeschi lo
avevano eletto imperatore del Sacro Romano Impero. In questo enorme ma
eterogeneo insieme di possedimenti, la cui continuità territoriale era
interrotta dal potente regno di Francia, l'Italia rappresentava, specialmente
attraverso il porto di Genova, l'unica via di comunicazione effettivamente
utilizzabile. Carlo V si sforzò dunque di assumere il controllo della
penisola, sia mediante il governo diretto di vasti territori come il Regno di
Napoli e il Ducato di Milano (quest'ultimo a partire dal 1535), sia
assicurandosi l'alleanza di Stati, come quelli di Genova e di Firenze, che erano
formalmente indipendenti ma che di fatto diventarono «satelliti» della
Spagna.
Naturalmente la Francia, prima con il re Francesco I (1494-1547),
poi con il figlio di questi, Enrico II (1519-1559), cercò in tutti modi
di spezzare l'accerchiamento che la minacciava, il che la spingeva
inevitabilmente in Italia, dove del resto era presente fin dagli anni Novanta
del Quattrocento, quando prima Carlo VIII (1470-1498) e poi Luigi XII
(1462-1515) si erano impadroniti per breve tempo rispettivamente del Napoletano
e del Milanese. Anche se alla fine dovette rinunciare all'Italia, la Francia
riuscì nel suo intento: alla metà del Cinquecento, dopo decenni di
lotte sanguinose, vista l'impossibilità di piegare la resistenza
francese, Carlo V divise i suoi possedimenti tra il figlio e il fratello: al
figlio, Filippo II, toccarono la Spagna, i Paesi Bassi, i possedimenti italiani
e le colonie del Nuovo Mondo; al fratello, il futuro imperatore Ferdinando I,
marito di Anna, regina di Boemia e di Ungheria, i domini austriaci.
Questo
accomodamento, sancito nel 1559 con la pace di Cateau Cambrésis, non
valse affatto a riportare la pace. Altri conflitti sarebbero presto scoppiati
per il predominio in Europa (o, come anche si diceva, per la «monarchia
d'Europa»). Nessuna potenza sarebbe riuscita ad assicurarselo stabilmente
anche se di volta in volta questa o quella potenza (Spagna, Francia,
Inghilterra) è parsa avvicinarsi all'obiettivo. L'Europa non era mai
stata un mondo pacifico. Ma ora la guerra, se pure non divenne più
frequente, risultò più distruttiva e meglio organizzata: gli
eserciti erano più numerosi e meglio armati che in passato, le armi da
fuoco cominciavano ad essere usate su larga scala, le navi irte di cannoni
stavano diventando formidabili fortezze galleggianti. In nessun'altra regione
della Terra e in nessun periodo precedente della storia europea le tecniche
della distruzione avevano fatto progressi altrettanto notevoli.
Può
stupire che l'Europa, così profondamente divisa e perennemente
travagliata dalla guerra, non abbia finito con l'autodistruggersi. Ma
distruzioni e morte non sono le sole conseguenze della guerra. La guerra
è anche un grossa occasione per far quattrini a spese altrui e può
fornire un potente stimolo alle attività produttive e al progresso
tecnico-scientifico. La grande richiesta di ferro, di armi, di materiali di ogni
genere necessari al mantenimento di eserciti sempre più numerosi fece
fiorire numerose industrie, alcune delle quali per far fronte alla domanda
crescente dovettero attrezzarsi per una produzione di massa, e cioè
dovettero organizzarsi in modo completamente diverso da quello del vecchio
artigianato medievale. La ricerca di armi sempre più micidiali impose
l'adozione di tecniche di lavorazione più efficienti e tra gli scienziati
che appunto in questo periodo fondarono la moderna scienza sperimentale ben
pochi furono quelli che non portarono il proprio contributo a questo
particolarissimo genere di «progresso».
Così, in questa
dura esperienza di guerra oltre ad avvezzarsi ad adoperare la violenza come
strumento per risolvere ogni sorta di controversie, l'Europa si costruì
un potenziale bellico e industriale di gran lunga superiore a qualsiasi altro
nel mondo. Questa superiorità tecnica e questa vocazione alla violenza le
permisero di conquistare il mondo intero nel giro di pochi secoli e di
assicurarsi attraverso la spoliazione sistematica delle regioni sottoposte al
suo dominio enormi ricchezze, sulle quali ancora oggi si fonda in gran parte il
suo prestigio di area altamente sviluppata.
Estensione dei domini di Carlo V
LA CRISTIANITŔ DIVISA
Ad esasperare vecchie e nuove
rivalità in quell'eterno campo di battaglia che era l'Europa sorse nei
primi decenni del Cinquecento un nuovo elemento di conflitto: la Riforma
protestante, che, partita dalla solita richiesta di una riforma della Chiesa,
doveva questa volta risolversi nella definitiva divisione della
Cristianità occidentale e cioè nella ribellione di una sua gran
parte contro l'autorità del vescovo di Roma. Proprio nel momento in cui
l'Europa si lanciava alla conquista e all'evangelizzazione forzata del mondo, il
cristianesimo si divideva in una molteplicità di sette e di confessioni
diverse, disposte a lottare fra di loro con la stessa ferocia e lo stesso
accanimento con cui avevano combattuto pagani, miscredenti e infedeli.
Il
disagio per l'incorreggibile mondanizzazione e corruzione dell'apparato
ecclesiastico era largamente sentito nel mondo cristiano, ma si trattava di un
disagio talmente antico che molti non lo avvertivano neppure più o ci
scherzavano sopra. Di certo i papi, reduci dai recenti successi sulle correnti
conciliariste sottovalutavano i pericoli della situazione. Così, quando
la protesta che era andata crescendo sotto la crosta dell'abitudine e
dell'assuefazione esplose rovinosamente travolgendo l'unità della Chiesa,
fu una sorpresa per tutti.
La sorpresa non stava tanto nelle opinioni
teologiche, tutt'altro che nuove, che i teorici della Riforma professavano o nei
sentimenti a cui i suoi predicatori davano voce: lo sdegno anticlericale, le
aspirazioni a una più intima e pura esperienza religiosa, le speranze di
rigenerazione sociale, la fiducia nelle possibilità dell'amore fraterno
di avere la meglio sulla frode e sulla forza nei rapporti tra cristiani. Stava
piuttosto nel fatto che quelle idee e quei sentimenti apparissero incontenibili
e che, dopo secoli di delusioni e di sconfitte, dessero finalmente l'impressione
di poter vincere.
Non vale assolutamente la pena di addentrarsi nei meandri
del conflitto teologico che oppose i riformatori alla Chiesa di Roma e che
divise lo stesso schieramento della Riforma in una quantità di correnti.
Pur dando vita a dottrine molto diverse tra loro, i principali esponenti della
Riforma, primi fra tutti il tedesco Martin Lutero (1483-1546) e il francese
Giovanni Calvino (1509-1564), concordavano su alcuni principi fondamentali, che
erano poi gli stessi che, un secolo e mezzo prima, erano stati enunciati da John
Wyclif. Il primo di tali principi era quello del libero esame, secondo il quale
ogni cristiano ha il diritto di rivolgersi alle Sacre Scritture come all'unica
fonte di verità e di interpretarle secondo la propria coscienza:
ciò significava rifiutare l'autorità del papa e più in
generale del clero in fatto di dottrina.
Il secondo era quello della
salvezza per mezzo della fede; la salvezza dell'anima non poteva essere ottenuta
attraverso digiuni, penitenze, pellegrinaggi, reliquie, intercessioni di santi
ed altre pratiche superstiziose, ma solo con la purezza della fede e con il
completo abbandono alla misericordia di Dio. Ciò significava togliere
ogni valore (o almeno gran parte del loro valore) alle cerimonie di culto ed ai
sacramenti, sull'amministrazione dei quali riposava il potere ed il prestigio
dei sacerdoti. Nei suoi rapporti con Dio il cristiano non aveva più
bisogno della mediazione del sacerdote o, per meglio dire, ogni cristiano era
sacerdote a se stesso.
I riformatori protestanti credevano di ritornare
all'antica e autentica tradizione cristiana. In realtà si trattava di un
modo relativamente nuovo di intendere il cristianesimo, per certi aspetti
più vicino agli ideali di autonomia, di iniziativa, di
responsabilità individuale che la società europea aveva adottati
dopo i secoli della servitù feudale. Ma il cattolicesimo romano seppe
adattarsi altrettanto bene allo spirito dei nuovi tempi, facendo leva sui
valori, anch'essi essenzialmente moderni, dell'efficienza, della disciplina,
dell'organizzazione; e reagì vigorosamente all'attacco dei protestanti.
L'Europa religiosa si spezzò in due: i Paesi del Nord aderirono in
maggioranza alla Riforma, quelli del Sud restarono tenacemente attaccati alla
Chiesa di Roma.
Non fu una separazione pacifica: ogni atto di tale processo
fu anzi segnato da violenze, distruzioni, stragi, persecuzioni reciproche. Il
teatro principale del conflitto fu, fin verso la metà del Cinquecento, la
Germania, dove l'imperatore Carlo V prese le parti della chiesa cattolica,
mentre una serie di principi e di città libere si schierarono con la
Riforma, nella sua versione luterana. Nel 1555 l'imperatore e i luterani
giunsero ad una sorta di tregua, la Pace d'Augusta, che però non fu mai
accettata dal papa, che restò sempre legato al principio che con gli
eretici non si viene a patti. Ma presto altre regioni d'Europa furono coinvolte
nella lotta e nel secolo successivo uno dei più giganteschi macelli della
storia europea, la guerra dei Trent'anni, fu devotamente combattuta da tutti i
belligeranti (almeno all'inizio) nel nome di Dio.
Questa frantumazione
della Cristianità occidentale costituì un passo importante verso
la formazione di una coscienza civile e laica dell'Europa. L'Europa medievale,
sintesi di elementi romani e germanici, era stata in parte opera delle armi
franche (da Carlo Martello a Carlo Magno) ma soprattutto della Chiesa di Roma,
dei suoi preti, dei suoi monaci, dei suoi missionari. Quello che contava a quei
tempi era l'Europa cristiana, e anche questa solo nei limiti dell'obbedienza al
papa di Roma, la cui autorità, però, si fermava sulle sponde
dell'Adriatico. Perché nascesse l'Europa quale oggi la pensiamo era
necessario che il carattere cristiano della sua civiltà si smorzasse a
favore di altri valori e che l'idea dell'universalità della Chiesa di
Roma e quella dell'unità dei cristiani perdessero il fascino totalizzante
che avevano avuto nel Medio Evo: era necessario, cioè, che il fanatismo
facesse posto ad un principio, almeno, di ragionevolezza.
Tra Cinque e
Seicento c'è stato un secolo e più di guerre di religione, nelle
quali cristiani di tutte le osservanze si sono fatti a pezzi con grande zelo. Se
il cristianesimo fosse stato davvero l'anima dell'Europa, gli Europei avrebbero
avuto ampi motivi per smarrire il senso della propria identità. E invece
sono usciti da quell'esperienza con la coscienza più viva che mai di
appartenere a una civiltà comune: segno che questa civiltà non si
identificava più con una particolare fede religiosa. Al contrario, una
delle sue caratteristiche migliori, emersa dalla constatazione della somma
stupidità di tutti i sacri macelli voluti dal fanatismo, stava proprio
nell'accettazione della legittima esistenza non solo di molti modi diversi di
credere in Dio, ma anche dei moltissimi modi di non crederci
affatto.
IL SACCO DI ROMA
Uno degli episodi più noti e
terribili delle guerre combattute in Italia tra Carlo V e Francesco I fu, nel
maggio del 1527, il sacco di Roma. Esattamente un anno prima il papa, Clemente
VII, il re di Francia, Francesco I, e alcuni potentati italiani (Venezia,
Firenze e Milano) si erano alleati per scacciare dall'Italia gli Asburgo o
quanto meno per ridimensionarne la presenza. Le cose però erano subito
volte al peggio per gli alleati e Carlo V già nel settembre del 1526,
assediava Roma con un formidabile esercito formato in parte di truppe spagnole e
in parte di mercenari tedeschi. Dopo sette mesi la città fu espugnata e
saccheggiata con tale furore che il suo splendore rinascimentale ne restò
per molto tempo offuscato. Clemente VII restò nelle mani dell'imperatore
e non poté che rimettersi in tutto e per tutto alla sua
volontà.
UN EUROPEO AL DI SOPRA DELLA MISCHIA
Erasmo Desiderio, più noto come
Erasmo da Rotterdam (dove era nato nel 1466 o nel 1469), può essere
considerato il primo vero cittadino d'Europa non solo perché disprezzava
le rivalità e i pregiudizi nazionali o perché visse in molti Paesi
d'Europa sentendosi dovunque a casa sua, ma perché, senza affatto
rinnegare quella Chiesa, della quale nel 1492 era stato ordinato sacerdote e a
cui aveva dato un grosso contributo di dottrina e di erudizione (per esempio
curando l'edizione critica del Nuovo Testamento e di numerose opere di padri
della Chiesa), fu il primo autorevole, convinto assertore di quei valori intorno
ai quali si sarebbe faticosamente costruita l'Europa moderna: la ragionevolezza,
la tolleranza, l'amore per l'uomo, per la cultura e per quella rara ma
contagiosa virtù che è l'intelligenza.
Erasmo aveva trascorso
la giovinezza nei Paesi Bassi e aveva studiato a Parigi. Aveva soggiornato a
lungo in Inghilterra dove si era legato di stretta amicizia a Tommaso Moro,
l'autore dell' Utopia; per anni era vissuto anche in Italia e in Francia. Dal
1521 si stabilì a Basilea, dove morì nel 1536. Era in
corrispondenza con dotti e principi di tutta Europa, che lo amavano, lo
apprezzavano, ma non sempre ne seguivano gli insegnamenti, coinvolti come erano
nelle furibonde risse politiche e religiose del primo Cinquecento. Vissuto in
un'età di guerre e di divisioni Erasmo era un ostinato apostolo della
pace e della collaborazione tra gli uomini: «la guerra», diceva,
«piace a chi non l'ha vista». Si rivolgeva agli individui, non alle
folle e faceva appello al buon senso, non alle emozioni della gente. Contro la
tetraggine dei fanatici faceva ricorso all'ironia e contro la loro intransigenza
cercava e trovava sempre le vie della mediazione e dell'accordo. Prete, ma
anticlericale, riusciva ad irritare allo stesso modo cattolici e protestanti.
Nelle zuffe del suo tempo badò bene a non schierarsi e a non farsi
utilizzare, non perché volesse sottrarsi a una scelta difficile e
rischiosa, ma perché nessuna delle parti in lotta meritava di essere
scelta. Non era uomo di partito: diceva di sentirsi «guelfo con i
ghibellini e ghibellino con i guelfi». Era, e fino alla fine volle restare,
«al di sopra della mischia».
Una delle sue opere più
famose è l'Elogio della follia, scritta nel 1511, quando Erasmo era
ospite di Tommaso Moro in Inghilterra. L'Elogio della follia fu subito (e
continua ad essere) quel che si dice un best seller, uno dei libri più
venduti. Si tratta di una satira in 68 capitoli dove vengono passate in rassegna
le diverse specie di matti che imperversavano a quel tempo: letterati,
grammatici e poeti, giuristi e filosofi, e soprattutto monaci, frati e teologi,
«i più matti di tutti». Alla stupidità e alle effimere
manie di questi pericolosi scocciatori Erasmo contrapponeva la sublime follia
del vero cristiano, che condivide generosamente i suoi beni con gli altri,
perdona tranquillamente ai nemici (e così li disarma), si sforza di
capire le ragioni dell'avversario e magari di trarne qualche insegnamento.
Dall'Elogio della follia riportiamo alcuni brani dei capitoli XL e XLI, dedicati
ai superstiziosi: vi si parla del Purgatorio e delle indulgenze, del culto dei
Santi e della Madonna e dell'interesse dei preti ad alimentare la superstizione
degli stupidi.
... Che dire poi di coloro che si assolvono (nella lor
fantasia!) dai loro peccati (oh che piacere! oh che illusione!) e coll'orologio
alla mano par che misurino il tempo che staranno in Purgatorio e computano
matematicamente tutto, secoli anni, mesi, giorni, ore e minuti? Altri poi fidano
su piccoli segni magici, su brevi preghiere inventate da qualche pio impostore
per spasso o per guadagno, e perciò non c'è cosa che non si
ripromettano, beni, onori, piaceri, sazietà, salute sempre prospera, vita
lunga, verde vecchiaia, e infine, un posticino in Paradiso, proprio accanto a
Cristo. Non troppo presto però, anzi il più tardi possibile
[...]
Distribuiscono ad ognuno di questi santi varie mansioni, ad ognuno di
essi attribuiscono particolari cerimonie per onorarli, dimodoché nel mal
di denti ti viene in aiuto un santo, un altro assiste le partorienti, un terzo
ti restituisce ciò che ti è stato rubato. E c'è un quarto
che, durante un naufragio, ti arride per salvarti, un altro che ti protegge le
greggi, e così si potrebbe continuare, ché passarli tutti in
rassegna sarebbe troppo lungo. Ci son dei santi che han poteri estesi in
parecchi campi, soprattutto la Vergine Madre di Dio, a cui la gente attribuisce
quasi più autorità che a suo figlio.
Ma che chiedono mai a
codesti santi gli uomini se non ciò che ha connessione con la pazzia?
Orsù, dunque, di tanti ex-voto che vedete accumulati su tutti i muri di
certe chiese e perfino sulle volte, ne avete mai visti per essere sfuggiti alle
branche della pazzia, per aver messo la testa a posto almeno un po'? [...] Non
ce n'è uno solo che renda grazie per essersi liberato dalla pazzia
[...].
Tanto brulica di vaneggiamenti la vita di tutti i cristiani! E
ciò nonostante sono i sacerdoti ad autorizzarli, ad alimentarli, senza
affliggersene di sicuro, ché sanno che questa è una piccola fonte
di guadagno, che non finisce mai...
Erasmo da Rotterdam nel ritratto di Albrecht Dürer
MARTIN LUTERO TRA PRINCIPI E CONTADINI
Martin Lutero, figlio di un minatore, monaco
dell'ordine degli Agostiniani, professore a Wittemberg, fu l'iniziatore del
movimento della Riforma. Nel 1517 pubblicò, affiggendole alla porta del
duomo di Wittemberg, 95 tesi che condannavano l'abuso dell'assoluzione nella
confessione e la scandalosa pratica della vendita delle indulgenze. Era un atto
di sfida all'autorità ecclesiastica. Roma, dove regnava il pontefice
Leone X, rispose con la scomunica. La scomunica, e il relativo bando
dall'Impero, venne però solo nel 1521. In un primo tempo, infatti, a Roma
si era sottovalutato l'episodio, forse nella speranza che si trattasse
dell'iniziativa intemperante di uno dei soliti oscuri, importuni monaci
tedeschi, una bega da frati facile da soffocare. Ma Lutero non era un monaco dei
soliti. Quando gli arrivò il decreto di scomunica lo diede pubblicamente
alle fiamme e questo suo gesto fu il segnale della rivolta generale contro
Roma.
L'appello di Lutero fu accolto entusiasticamente in Germania da ogni
sorta di gente: da semplici contadini, da signori, da borghesi, da principi,
tutti uniti dall'esigenza di una vita religiosa più libera e insieme
più seria di quella offerta dalla Chiesa di Roma, impegnata soprattutto
ad escogitare sempre nuovi metodi per strappare ai fedeli quattrini e
obbedienza. Ma per i contadini e in genere per la gente umile vivere secondo gli
insegnamenti del Vangelo significava anche eliminare le ineguaglianze tra ricchi
e poveri, porre fine alle ingiustizie dei potenti, edificare secondo
princìpi di fratellanza una nuova società. Al contrario per i
principi, per i grandi feudatari, per i ricchi borghesi delle città la
rivolta contro Roma era un'ottima occasione per liberarsi dell'esosa
fiscalità ecclesiastica e per rafforzare il proprio potere economico e
politico impadronendosi delle ricchezze che la Chiesa aveva accumulato nel corso
dei secoli.
Erano due interpretazioni non facilmente conciliabili. Tra il
1524 e il 1525, i contadini, soprattutto in Svevia e in Franconia si ribellarono
contro i loro signori, e pubblicarono un programma, i Dodici articoli che
integrava le rivendicazioni di stile evangelico con quelle di carattere
economico e sociale:
Le nostre comunità avranno diritto di
eleggersi i loro parroci e questi dovranno predicare la parola di Dio unicamente
secondo il Vangelo.
Non pagheremo se non le decime in grano da servire al
sostentamento dei parroci; l'avanzo andrà a beneficio dei
poveri.
Sarà soppressa la schiavitù perché Cristo col
prezioso suo sangue ci ha tutti redenti senza distinzione.
Non si
trattava di rivendicazioni generiche: attraverso le richieste elencate nei
Dodici articoli è possibile farsi un'immagine precisa delle condizioni
dei contadini e dei problemi che assillavano le popolazioni rurali. Per esempio,
i signori da tempo(e non solo in Germania, ma in tutta Europa) si erano
riservati i diritti di caccia e di pesca, sottraendo questa risorsa, che nella
dieta del tempo costituiva la principale fonte di proteine animali, ai
contadini. In più, conducevano le loro battute di caccia sui terreni
aperti, senza badare ai danni che loro stessi o la selvaggina potevano arrecare
alle colture.
... Saranno libere per il contadino - stabiliva uno dei
Dodici articoli - l'uccellagione e la pesca, e così pure la caccia,
perché la selvaggina dei signori non danneggi e non consumi di più
il nostro, il che finora abbiamo sopportato in silenzio...
Paludi,
pascoli e boschi appartenevano ai villaggi ed erano gestite in comune dai
contadini. Queste terre erano incolte, ma non improduttive. Al contrario,
costituivano una fonte ricchissima di foraggio, di cibo (si pensi ai funghi, ai
mirtilli e agli altri infiniti prodotti della colletta nei boschi), di
combustibile (legna da ardere) e di legname (che era il principale materiale da
costruzione). Queste risorse, indispensabili all'equilibrio dell'economia
contadina, avevano attirato da tempo l'attenzione dei signori e delle
città, che avevano incominciato a impadronirsi dei boschi o a
regolamentarne l'uso, come se fossero roba loro. A questo proposito nei Dodici
articoli veniva stabilito che:
... I boschi ritorneranno in possesso
delle Comunità.
Chiunque si sarà ingiustamente appropriato di
terreni appartenenti alla Comunità sarà tenuto a
restituirli...
I contadini dovevano ai loro signori per le terre
avute in concessione prestazioni di lavoro gratuite (corvée) e tributi
diversi, regolati da patti espressi o dalle consuetudini di ciascun luogo. Molte
volte corvée e tributi erano invece pretesi dai signori ad arbitrio. Ogni
iniziativa dei signori in questo senso sembrava violare, agli occhi dei
contadini, antiche regole di giustizia:
... Non saremo tenuti a dare
maggiori prestazioni personali di quelli a cui erano tenuti i nostri avi: queste
prestazioni dovranno essere stabilite con un preciso contratto tra il signore e
i suoi dipendenti, e non dovrà esserci più posto per l'arbitrio
iniquo.
Il tributo dei beni feudali sarà stabilito su basi
più eque delle attuali, affinché non ci accada più di
lavorare la terra senza alcun guadagno.
Si osserveranno le buone leggi
antiche e non se ne faranno di nuove ad arbitrio...
Questa immagine
delle «buone leggi antiche» era un mito, assai diffuso tra le classi
popolari di tutta Europa. Esse favoleggiavano di un'antica età, in cui
l'innocenza e la buona fede reciproca avevano garantito un'equa ripartizione dei
frutti della terra tra padroni e contadini e giuste relazioni tra signori e
sudditi. Questa età, naturalmente, non era mai esistita e il passato
delle comunità contadine in Europa era stato in certi momenti anche
peggiore del presente: in ogni tempo, tutto era dipeso, non dalla buona
volontà, ma dai reali rapporti di forza tra signori e contadini.
Che
questo passato di giustizia non fosse mai esistito conta poco. L'importante era
il desiderio di giustizia che si esprimeva in quel mito. Per quest'idea di
giustizia i contadini tedeschi hanno preso le armi, si sono battuti e, sconfitti
nella battaglia di Koenigshofen, si sono fatti serenamente scannare.
Lutero
sulle prime non era stato ostile ai contadini ed aveva pubblicato un libretto
dal titolo eloquente: Esortazione alla pace a proposito dei Dodici articoli dei
contadini di Svevia. Ma quando il movimento contadino, prendendo d'assalto i
castelli dei signori, si rivelò per quello che era, una rivolta
antifeudale, Lutero fu costretto a scegliere. Tra i contadini e i signori, tra i
poveri e i principi Lutero scelse decisamente i signori e i principi, che erano
i più forti e i soli in grado di assicurare, contro l'imperatore e contro
il papa, il definitivo successo alla sua riforma (che era poi l'unica cosa che
gli stesse davvero a cuore). Ma proprio a causa di questa sua scelta e
nonostante le originarie affermazioni di libertà, la Chiesa luterana
tornò presto a metodi autoritari nella vita religiosa e a princìpi
conservatori nella vita sociale e politica.
PROTESTANTI
Nel 1529, quando la Germania stava per
precipitare nelle guerre di religione Carlo V, in un estremo tentativo di
trovare un accordo, chiamò cattolici e luterani a esporre le ragioni dei
loro dissensi di fronte alla Dieta di Spira. Lutero, a nome dei suoi
presentò una Protestatio (che in latino, però, non vuol dire
«protesta», ma «dichiarazione pubblica, ufficiale») da cui
il nome di «protestanti» attribuito ai luterani. Il termine è
stato poi usato per tutte le confessioni (calvinisti, anglicani, ecc.) uscite
dalla riforma religiosa del Cinquecento.
L'AFFARE DELLE INDULGENZE
L'indulgenza è propriamente una
remissione di pene per peccati già perdonati; non è quindi il
perdono o la cancellazione dei peccati stessi. La quantità delle pene
condonate è espressa in termini di tempo sulla base di un complicato
codice ascetico medievale, che parte dal presupposto (teologicamente tutt'altro
che fondato) che sia possibile commisurare in qualche modo le azioni buone e le
cattive, i peccati e i relativi esercizi di mortificazione e di penitenza. Se si
accetta questo presupposto, un'azione meritoria, come ad esempio l'elemosina, si
può considerare equivalente a quell'altra azione meritoria che è
l'esercizio della penitenza. In altre parole un'elemosina di entità
proporzionata alla gravità del peccato commesso comporta un'indulgenza
pari alla penitenza prevista per quello stesso peccato. Nell'interpretazione
volgare l'indulgenza non solo condona la pena, ma cancella oggettivamente il
peccato, indipendentemente dal perdono divino (che è invece, per
definizione, gratuito, ossia effetto di grazia, atto arbitrario e
imperscrutabile di Dio). Se così fosse, sarebbe davvero possibile
accumulare crediti nei confronti del padreterno mediante un'opportuna serie di
opere buone.
La vendita delle indulgenze (già condannata, tra gli
altri, da John Wyclif) ebbe un fortissimo incremento sul finire del secondo
decennio del Cinquecento, quando l'affare fu preso in appalto in tutto il
territorio dell'Impero dai maggiori banchieri del tempo, i Fugger. Era un enorme
giro di quattrini il cui ricavato era destinato a finanziare a Roma il grande
rinnovamento edilizio voluto dai papi (in particolare la costruzione, allora
avviata, della basilica di San Pietro) e, in Germania, a rimborsare le grosse
somme di denaro pagate da Carlo V ai principi elettori per la sua elezione, e
anticipate, appunto, dai Fugger. L'affare della vendita delle indulgenze fu
organizzato in grande stile, con una vera e propria campagna pubblicitaria
affidata a solerti predicatori. Tra tutti si distinse per zelo organizzativo e
sfacciataggine teologica il domenicano Johann Tetzel. È facile immaginare
l'esasperazione di quanti, fautori di un cristianesimo ragionevole ed
evangelico, erano costretti ad assistere impotenti allo scandalo di pratiche
simoniache e superstiziose spacciate dalle massime autorità religiose per
devozione.
LA PACE DI AUGUSTA
La pace di Augusta (1555) riconosceva a
principi e città libere dell'Impero che avevano aderito alla confessione
luterana il diritto di introdurre nei propri territori la Riforma; non si
trattava propriamente di un riconoscimento della libertà di coscienza,
giacché la concessione riguardava solo i principi e i governi, non i
sudditi. Il trattato di pace riconosceva inoltre le secolarizzazioni già
avvenute «secolarizzazione» è il trasferimento
all'autorità civile di beni o istituti della Chiesa). Per il futuro,
invece, non stabiliva nulla di preciso. Un decreto dell'imperatore, contestato
però dai protestanti e raramente o mai applicato, imponeva ai vescovi
cattolici che fossero passati alla Riforma di rinunciare alle rendite e ai beni
di cui godevano. La questione sarebbe riesplosa con violenza più tardi,
nel corso della guerra dei Trent'anni, quando si pose anche il problema dei
territori che avevano aderito non alla riforma luterana, ma a quella calvinista
(ignorata dalla pace di Augusta).
CALVINO
Giovanni Calvino (1509-1564) fu un altro dei
grandi riformatori religiosi del Cinquecento. Francese di nascita, per sfuggire
alle persecuzioni di cui era oggetto si rifugiò nel 1536 a Ginevra dove
rimase sino alla morte, lavorando attivamente e con successo per fare della sua
nuova patria il centro politico e intellettuale di tutto il mondo protestante.
Peccato che, anche lui, diventato padrone assoluto della città, poco
avvezzo, come del resto i cattolici e i luterani, alla tolleranza, trovò
il modo di accendere roghi e di bruciare eretici (il medico spagnolo Michele
Serveto, nel 1553, colpevole di non credere nella Santissima
Trinità).
Come Lutero, anche Calvino era convinto che la natura
umana fosse profondamente corrotta dal peccato e che pertanto la salvezza degli
uomini si affidasse soltanto alla benevolenza di Dio. Ma mentre nei luterani
(come del resto nei cattolici) la preoccupazione per la salvezza dell'anima
diventava facilmente un'inquietudine ansiosa e ossessiva, per Calvino ogni
inquietudine doveva cedere il posto ad un atteggiamento di fiduciosa
sottomissione alla volontà di Dio. Servire Dio era la legge del
cristiano; ma Dio si serve mettendo a frutto i talenti che ci ha dato (come,
appunto, nella nota parabola dei talenti). Così, una caratteristica del
Calvinismo è diventata l'esaltazione dell'impegno civile e sociale del
cristiano. Il lavoro, l'operosità, l'intraprendenza economica sono i modi
in cui l'uomo può contribuire alla realizzazione della volontà
divina e rappresentano perciò dei veri e propri obblighi
religiosi.
Naturalmente, dato che la volontà di Dio è
imperscrutabile, nessuno può essere sicuro che il Signore lo abbia scelto
per la salvezza. Ma il successo nel lavoro e la ricchezza onestamente accumulata
sono stati considerati in molte comunità calvinistiche un indizio di
elezione. In ogni caso, era più prudente in quelle comunità non
mostra svogliati o male in arnese. I calvinisti hanno sempre amato assai poco
gli sfaccendati e i vagabondi (questo i cattolici sono stati più
tolleranti). Proprio per queste sue caratteristiche qualcuno ha ipotizzato che
il calvinismo abbia dato un contributo importante alla formazione dello spirito
capitalistico in Europa. Di certo le regioni a maggioranza calvinista (la
Svizzera, l'Olanda, tra le altre) sono state tra le prime ad avviarsi sulla
strada dello sviluppo capitalistico.
UNA CHIESA PER IL RE
Quando in Germania cominciavano le lotte di
religione, in Inghilterra regnava Enrico VIII. Enrico VIII era un benemerito
della Chiesa cattolica: nel 1521 aveva scritto un opuscolo contro l'eresia
luterana, L'asserzione dei sette sacramenti, e il papa, Leone X, riconoscente,
gli aveva conferito il titolo di Defensor fidei. Nel 1529 però il
«difensore della fede», ancora fresco di nomina, ruppe clamorosamente
con la Chiesa di Roma. Il contrasto con il papa era più politico che
religioso: Enrico VIII aveva deciso di non tollerare più che la folta e
ricca schiera degli ecclesiastici inglesi obbedisse a un principe straniero
quale era il pontefice.
Quello che lo aveva convinto a questo passo era
stata una faccenda quasi privata: il rifiuto del papa Clemente VII, di annullare
il suo matrimonio con Caterina d'Aragona. I matrimoni dei re non sono mai
faccende del tutto private e i papi non avevano mai avuto difficoltà a
sciogliere matrimoni secondo le convenienze dei principi loro amici. Clemente
VII, però, si trovava in una situazione assai particolare: era alla
mercé di Carlo V, che gli aveva messo a sacco Roma nel maggio del 1527, e
Caterina era figlia di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia e
cioè, appunto, zia di Carlo V. Irritato dagli indugi del papa, Enrico,
sentito il parere di diverse facoltà teologiche, fece pronunciare il
divorzio dall'arcivescovo di Canterbury (poi confermato dal Parlamento) andando
incontro alla scomunica papale.
La separazione da Roma, a parte dissensi
individuali e un abbozzo di rivolta popolare, non produsse gravi sconcerti. Se
Enrico VIII avesse attaccato la dottrina cattolica avrebbe probabilmente
scatenato nel Paese un conflitto religioso e nel caso migliore avrebbe dovuto
affrontare resistenze assai gravi. Ma egli si proponeva soltanto di creare una
Chiesa nazionale che, anziché dipendere dal papa, riconoscesse come suo
capo lo stesso re d'Inghilterra: una Chiesa su misura per sé. Intorno a
questo programma non era difficile trovare larghi consensi, tanto più che
esso comportava la soppressione di monasteri e l'incameramento di beni
ecclesiastici: le terre della Chiesa, che un secolo e mezzo prima i Lollardi
avevano chiesto che fossero distribuite ai poveri, furono invece generosamente
distribuite ai ricchi, nobili titolati e semplici gentiluomini di
campagna.
Nel 1534 il Parlamento approvò l'Atto di supremazia, che
riconosceva il re come protettore della Chiesa inglese e capo del suo clero. Da
quel momento il rifiuto di accettare l'Atto di supremazia venne considerato alto
tradimento. Tra i non molti che rifiutarono il giuramento di supremazia ci fu
Tommaso Moro, l'autore dell'Utopia, uno dei più grandi letterati del
tempo, amico di Erasmo. Tommaso Moro era stato Cancelliere del regno e uno dei
più stretti collaboratori di Enrico, ma non aveva approvato né il
suo divorzio da Caterina d'Aragona, né, tanto meno, la rottura con Roma e
finì decapitato nel 1535. Un altro umanista inglese, favorevole a una
riforma della Chiesa, ma contrario allo scisma inglese, fu Reginald Pole, un
brillante ecclesiastico che aveva studiato in Italia e che, tornato in Italia
come esule, fu fatto cardinale dal papa.
Il solo vero momento di grave
tensione religiosa venne quando, dopo il breve regno di Edoardo VI (1547-1553),
salì al trono Maria, che era una fervente cattolica e che tentò di
riportare la Chiesa inglese all'obbedienza di Roma: nominò Reginald Pole
arcivescovo di Canterbury, sposò l'erede del trono di Spagna, Filippo,
figlio dell'imperatore Carlo V, e infine, sciocchezza più grave di tutte,
si diede a perseguitare gli anglicani mandandone alcune centinaia a morte. Con
ciò Maria si guadagnò il titolo di «sanguinaria» con cui
è passata alla storia, ma fallì completamente il suo obiettivo.
Ottenne anzi l'effetto opposto: disgustato dalla violenza e dal fanatismo
mostrati dai papisti in quella che fu detta dagli anglicani «l'era dei
martiri», il popolo inglese si allontanò in larga maggioranza dalla
Chiesa romana e le sue simpatie si volsero sempre di più verso le
religioni riformate e in particolare verso il calvinismo.
Del resto il
regno di Maria fu solo una breve parentesi, troppo breve, in verità,
perché il tentativo di restaurazione cattolica potesse riuscire.
Nel
1558 a Maria successe la sorellastra Elisabetta, che riconfermò l'atto di
supremazia e la separazione della Chiesa inglese da quella di Roma. La Chiesa di
Elisabetta era però ormai assai diversa da quella voluta da Enrico VIII.
Enrico VIII non aveva intaccato la dottrina ed anzi aveva riconfermato la
propria ortodossia, tant'è vero che durante il suo regno i cattolici che
non giuravano l'atto di supremazia rischiavano di finire sul patibolo come
traditori, ma i luterani rischiavano di finire sul rogo come eretici. Ora invece
le dottrine protestanti avevano trovato un largo seguito nel popolo inglese e la
Chiesa stessa, pur continuando a chiamarsi cattolica (ed anzi l'unica veramente
cattolica, essendo quella papista irrimediabilmente degenerata), ne accolse
molte tesi nella sua confessione di fede ufficiale.
Non tutti erano
soddisfatti della nuova Chiesa anglicana: le correnti radicali e rigoristiche,
che nel complesso vennero chiamate puritane, chiedevano che assieme alla
dottrina anche l'organizzazione ecclesiastica fosse profondamente riformata sul
modello delle comunità calvinistiche del continente. La Chiesa anglicana,
invece, conservò integralmente l'antica struttura gerarchica che faceva
perno sul potere dei vescovi. Finché durò il regno di Elisabetta,
che sapeva contemperare la forza con la moderazione, il conflitto tra i puritani
e gli episcopalisti (ossia i sostenitori dell'autorità dei vescovi)
all'interno della Chiesa anglicana non degenerò in episodi gravi. Ma
sotto i suoi successori la situazione precipitò e nel giro di alcuni
decenni si giunse ad un'aperta guerra civile che mise in discussione le
fondamenta stesse della monarchia inglese.
La regina d'Inghilterra sulle terre da lei governate
ENRICO VIII
Enrico VIII, che regnò dal 1509 al
1547, era figlio di quell'Enrico VII Tudor che nel 1485 alla fine della Guerra
delle Due Rose, aveva pacificato il Paese riuscendo a riunire nella sua famiglia
i diritti al trono inglese delle case dei Lancaster e degli York che si erano
combattute nella Guerra delle Due rose. Una sorella di Enrico VIII, Margaret,
era andata in sposa, nel 1502, al re di Scozia, Giacomo IV, preannunciando la
futura unione dei due regni. Enrico VIII ebbe sei mogli: da due divorziò
(Caterina d'Aragona, la prima moglie e Anna di Clèves, la quarta); altre
due finirono decapitate (Anna Bolena, la seconda moglie, e Caterina Howard, la
quinta); la terza moglie, Jane Seymour, morì dando alla luce un bambino,
il futuro Edoardo VI, la sesta, Caterina Parr, gli sopravvisse. Prima di
Edoardo, Enrico aveva avuto due figlie, entrambe poi diventate regine: Maria, da
Caterina d'Aragona, e Elisabetta, da Anna Bolena.
L'«INVINCIBILE ARMATA»
Nel 1554 Filippo aveva sposato Maria
d'Inghilterra ed era parso che su questo fronte la politica di restaurazione
cattolica della Spagna non dovesse incontrare resistenze. Il matrimonio non era
mai stato popolare in Inghilterra e dopo la morte di Maria non aveva lasciato
che una scia di paure e di risentimenti. La conferma da parte di Elisabetta
dello scisma anglicano coincise con un riavvicinamento del Governo inglese ai
principi ed alle comunità protestanti che lottavano nel continente contro
il cattolicesimo. L'Inghilterra offrì il suo aiuto agli ugonotti francesi
e a quei protestanti olandesi che stavano conducendo un'eroica resistenza contro
la dominazione spagnola. Filippo II, pensando di potere avere facilmente ragione
dell'avversario, preparò una grande spedizione militare destinata
all'invasione dell'isola. Con eccessiva fiducia, la poderosa ma eterogenea
flotta radunata dagli Spagnoli fu chiamata l'«Invincibile
Armata».
Ma nel 1588 l'Invincibile Armata fu disfatta prima ancora di
toccare il suolo dell'Inghilterra in parte dall'azione coraggiosa e decisa della
marina inglese, in parte dalle condizioni del tempo che contribuirono a
disperdere la flotta spagnola. Cogliendo la sua prima grande vittoria navale,
l'Inghilterra si affermava come potenza marittima e insieme come campione della
causa protestante in Europa.
LA CONTRORIFORMA
Alla rivolta protestante la Chiesa romana
non rispose certo con prontezza. Leone X (al secolo Giovanni de' Medici, figlio
di Lorenzo il Magnifico), papa dal 1513 al 1521, si limitò a scomunicare
Lutero senza capire bene quel che stava accadendo in Germania. Il suo
successore, Adriano VI, l'ultimo papa non italiano prima di Giovanni Paolo II
(era di Utrecht, nei Paesi Bassi), non sarebbe stato contrario a correggere
alcuni vistosi abusi nell'apparato ecclesiastico, ma non regnò che due
anni e con pochi consensi. Clemente VII, che gli successe nel 1523, era un altro
Medici e aveva avuto gran peso in curia al tempo di Leone X: come papa non ebbe
una gran fortuna. Alleatosi con Francesco I contro Carlo V, dovette assistere al
sacco di Roma da parte delle truppe imperiali; in Germania non riuscì a
impedire che la frattura tra cattolici e luterani diventasse insanabile
degenerando in guerra civile; in Inghilterra non poté evitare lo scisma
di Enrico VIII. L'unica cosa che gli riuscì fu di rimettere la sua
famiglia nella signoria di Firenze, il che però era davvero poca cosa,
anche per un papa mondano e nepotista come lui (e come tutti quelli del suo
tempo).
La risposta di Roma alla sfida dei protestanti cominciò ad
essere seriamente organizzata solo dal successore di Clemente VII, Paolo III
(1468-1549). Anche lui era un papa mondano e nepotista, preoccupato soprattutto
della sua famiglia, i Farnese: per suo figlio, Pier Luigi, sognava un grande
Stato in Italia e nel 1545 riuscì a darglielo, nonostante l'opposizione
di Carlo V, investendolo del ducato di Parma e Piacenza. Paolo III era
però perfettamente consapevole della gravità della situazione in
cui versava la Chiesa di Roma e, pur badando agli affari di famiglia,
cercò di mettervi rimedio in qualche modo.
Cominciò col
nominare una commissione incaricata di studiare i provvedimenti opportuni per
una riforma della Chiesa: era un segno che, anche se con vent'anni di ritardo
rispetto alla rivolta di Lutero (la commissione fu insediata nel 1536), la
Chiesa intendeva far suo lo slogan della riforma. Nel 1542 riorganizzò
l'Inquisizione. Quella tradizionale era costituita da tribunali che funzionavano
presso ogni diocesi e nei quali accanto al vescovo operava l'inquisitore
nominato dal papa; Paolo III (e più tardi Paolo IV e Sisto V, che ne
completarono l'opera) ne fece un'istituzione strettamente centralizzata,
affidata a una congregazione di cardinali con amplissimi poteri e con
giurisdizione su tutto il mondo cattolico (per distinguerla dalla vecchia si
disse Inquisizione «universale» o «romana» o brevemente
«Sant'Uffizio»).
Infine Paolo III convocò un Concilio con
l'obiettivo di dare una risposta globale, sul piano della dottrina e su quello
dell'organizzazione ecclesiastica, alla riforma protestante. Il Concilio si
aprì a Trento nel 1545 e si chiuse solo nel 1563. In questi diciotto anni
si riunì a grandi intervalli, dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552, dal
1562 al 1563, secondo le opportunità e gli umori dei papi, a cui
restò sempre assolutamente subordinato: i lavori di un Concilio si
presumono assistiti dallo Spirito Santo, ma tra i padri conciliari girava una
battutaccia, secondo cui lo Spirito Santo arrivava al Concilio, di volta in
volta, nelle valigie spedite da Roma.
Il Concilio ribadì (e non
poteva essere diversamente) tutte le dottrine e le pratiche contestate dai
riformati: la tradizione ecclesiastica veniva confermata come fonte di
verità accanto (e, per certi versi, al di sopra) alle Sacre Scritture; le
buone opere venivano confermate come fattori di salvezza accanto e insieme alla
grazia divina; di tutti e sette i sacramenti veniva confermata la
validità e la necessità e così via.
Nella Professione
di fede tridentina, che è la sintesi ufficiale delle conclusioni del
Concilio, dopo le consuete formule del Credo, si ritrovavano puntualmente tutte
le credenze giudicate superstiziose dai riformati (e non solo da loro, in
verità), come l'esistenza del Purgatorio (un'invenzione piuttosto recente
nella tradizione della Chiesa), il culto dei Santi e quello della Vergine, il
culto delle reliquie e quello delle immagini, la pratica delle indulgenze
(«sommamente salutare - si legge - al popolo cristiano»).
La
filosofia della complessa operazione che i cattolici hanno chiamato (e chiamano)
«riforma», ma che comunemente è nota come
«Controriforma» sta tutta nella chiusa della Professione di fede
tridentina e si può riassumere in una sola parola: conformismo. Al
cattolico si chiede obbedienza e basta. Da lui si pretende che la rinuncia ad
esercitare le proprie capacità di critica si fortifichi con il disprezzo
per la libertà di coscienza altrui: l'impegno a obbedire al pontefice e
ad accettarne gli insegnamenti, quali che siano, non è scindibile, nello
spirito della Controriforma, dall'impegno ad esigere dai propri sottoposti lo
stesso genere di obbedienza.
... Riconosco la Santa cattolica e
apostolica Chiesa di Roma, madre e maestra di tutte le Chiese, e prometto e
giuro sincera obbedienza al Romano Pontefice successore del beato Pietro,
principe degli Apostoli e vicario di Gesù Cristo.
Similmente accolgo
e liberamente riconosco ogni cosa tramandata, definita e affermata dal
sacrosanto Concilio Tridentino, e similmente condanno e ripudio tutte le cose
contrarie e tutte le eresie condannate e rigettate dalla Chiesa.
Io stesso
prometto, mi impegno e giuro di mantenere e confessare integra e immacolata sino
all'estremo di mia vita, costantemente, con l'aiuto di Dio, questa vera fede
cattolica (fuori della quale nessuno può essere salvo), che adesso
spontaneamente professo e tengo per vera; e che curerò, per quanto
sarà in me, che sia osservata, insegnata e predicata dai miei sottoposti
o da coloro la cui cura spetterà a me nell'ambito del mio ufficio:
così mi aiutino Iddio e questi santi Evangeli...
Questa
filosofia dell'obbedienza e del conformismo può apparire ad una coscienza
moderna ripugnante e persino un po' insensata: come si fa, infatti, ad estorcere
(perché di questo si tratta) ai propri soggetti un'adesione al
cattolicesimo che però si vuole «sincera», «libera»,
«spontanea»? Ma non era un modo di pensare stravagante: al contrario,
era piuttosto diffuso. Era lo stesso modo di pensare che aveva indotto Enrico
VIII a mandare sul patibolo come traditore dello Stato uno dei suoi più
fedeli collaboratori, Tommaso Moro, che semplicemente rifiutava di accettare lo
scisma della Chiesa anglicana; la stessa cosa - considerare tradimento
l'obiezione di coscienza - avrebbero fatto nel Seicento gli Asburgo con i loro
sudditi riformati che rifiutavano di rientrare nella Chiesa di
Roma.
«Ringraziando Dio», aveva scritto Tommaso Moro qualche mese
prima di essere decapitato, «io non agisco per ostinazione, ma per la
salvezza dell'anima mia, non potendo indurre la mia mente a pensare in modo
diverso in merito al giuramento. In quanto alla coscienza degli altri io non ne
sarò giudice, né mai ho spinto alcuno a prestare o a rifiutare il
giuramento». Chissà se Tommaso Moro, che la Chiesa di Roma ha fatto
santo per non aver giurato l'Atto di Supremazia, se la sarebbe sentita di
sottoscrivere la Professione di fede tridentina...
I MEDICI
Quella dei Medici è una delle
più grandi famiglie principesche italiane. Mercanti e banchieri originari
di Cafaggiolo, i Medici iniziarono la loro ascesa nel XIII secolo e nel secolo
successivo conquistarono (di fatto, se non di diritto) la signoria di Firenze,
quando, nel 1435, Cosimo il Vecchio (1389-1464) fu eletto gonfaloniere con
l'autorità di scegliere i candidati alle magistrature cittadine: questo
speciale potere gli permise di conservare formalmente le strutture repubblicane
dello Stato fiorentino, ma insieme di governare a suo piacere, mettendo in tutti
i posti che contavano amici, alleati o clienti. In questa forma indiretta la
signoria di Firenze giunse nel 1469 nelle mani di Lorenzo il Magnifico
(1449-1492), uno dei maggiori statisti del secondo Quattrocento, splendido
mecenate e grande esponente dell'umanesimo italiano. Cacciati nel 1494 i Medici
vi tornarono nel 1512. L'anno dopo Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico,
diventava papa con il nome di Leone X (fu lui a dover affrontare la ribellione
di Lutero). Scacciati di nuovo da Firenze nel 1517, i Medici vi tornarono
definitivamente (e ormai anche ufficialmente come principi ereditari) nel 1530,
imposti dalle armi di Carlo V, che in questo modo cercò di farsi
perdonare dal papa Clemente VII, anche lui un Medici (nipote di Lorenzo il
Magnifico e cugino di Leone X), il sacco di Roma. Nel 1537 la successione
toccò al duca Cosimo I (1519-1574), considerato il fondatore del moderno
Stato toscano: nel 1555, dopo una guerra di tre anni, Cosimo incorporò
nei suoi domini il territorio di Siena e nel 1569 ottenne dal papa il titolo di
Granduca di Toscana (confermato poi dall'imperatore nel 1576). La dinastia dei
Medici granduchi di Toscana si estinse con Gian Gastone, morto nel 1737. La
famiglia dei Medici diede due grandi regine alla Francia: Caterina, moglie di
Enrico II, e Maria, seconda moglie di Enrico IV.
Leone X ritratto da Raffaello
NEPOTISMO
«Nepotismo» fu chiamata la pratica
corrente tra i papi del Quattrocento (e proseguita almeno sino a tutto il
Seicento) di attribuire ai propri parenti (in genere i nipoti, da cui il
termine) cariche, beni, prebende, rendite ecclesiastiche, titoli nobiliari, in
qualche caso (Alessandro VI con suo figlio Cesare Borgio, Paolo III con suo
figlio Pier Luigi Farnese, ecc.) veri e propri Stati territoriali ritagliati per
lo più dai domini ecclesiastici. Era pratica consueta che, appena eletto,
il nuovo papa nominasse cardinali un certo numero di suoi parenti a cui poi
venivano affidati i più importanti incarichi di curia.
Il
«cardinal nepote» per antonomasia (detto anche «cardinal
padrone») era quello che svolgeva le funzioni di uomo di fiducia, portavoce
e consigliere personale del papa (una sorta di primo ministro, insomma) non di
rado più importante del papa stesso.
MACHIAVELLISMO E RAGION Dl STATO
Le tesi di Machiavelli sono quelle del
cosiddetto «realismo politico» (una tradizione fortemente radicata e
tuttora largamente presente nella cultura politica europea) che fa del potere un
fine assoluto e ostenta disprezzo per quanti, utopisti, idealisti, riformatori o
rivoluzionari, considerano il potere, tutt'al più, come uno strumento per
realizzare una convivenza migliore tra gli uomini. Non è affatto detto
però che Machiavelli condividesse le tesi che enunciava. C'è chi
le ha interpretate come una denuncia intenzionale dei meccanismi del potere;
certo, ne erano un'analisi spietata. Forse Machiavelli era addirittura un
idealista: in fondo non nascondeva la sua predilezione per il regime
repubblicano (dove, almeno in teoria, governano le leggi e dove quindi i metodi
arbitrari del principe machiavellico sono inammissibili), non solo non ammirava,
ma detestava cordialmente preti e papi (di cui tutto si può dire, tranne
che non avessero saputo conquistarsi e conservarsi il potere) ed è stato
tra i primissimi a formulare un programma nazionale (a quei tempi una vera
utopia!) consistente nella liberazione dell'Italia dalle ingerenze straniere e
soprattutto da quelle clericali.
All'inizio il termine «stato»
non aveva altro significato che quello di «condizione» o
«situazione», con un accentuato carattere di permanenza durevole e
quieta. Ancora diciamo: «essere in buono stato» o giacere «in
stato di quiete». Tra i diversi significati del termine ha preso piede
quello che identificava «stato» e «posizione», nel senso,
tuttora vivo, di condizione economica e sociale: per riconoscere il successo
conseguito da qualcuno nel mondo degli affari o del lavoro, si dice ancora che
«si è fatta una posizione». Ma «stato» poteva
indicare anche la condizione giuridica, essere cioè usato come sinonimo
di ordine o ceto giuridicamente riconosciuto: gli Stati Generali, ossia
l'assemblea rappresentativa dell'antica monarchia di Francia, si chiamava
così perché vi erano rappresentati i tre ordini o ceti della
Nazione, nobiltà, clero e «terzo Stato».
Il passaggio
della parola «stato» dalla sfera del privato (quale sinonimo della
condizione giuridica, economica o sociale di una persona) a quella della
politica (quale sinonimo di Res Publica) ha avuto luogo nel Quattrocento
italiano, quando le vecchie istituzioni comunali si erano svuotate di ogni reale
potere e privati cittadini, accumulando ricchezze e clientele, erano giunti a
dominare la scena politica, in molti casi senza neppure rivestire ufficialmente
cariche di governo (è il caso, tra gli altri, di Cosimo de' Medici a
Firenze). L'espressione «farsi stato» dilatava il suo significato
dall'acquisto di ricchezze e prestigio alla conquista del potere, e quest'ultima
poteva esprimersi dapprima nelle forme indirette dell'autorevolezza personale e
dell'influenza politica più o meno vincolante, poi del dominio scoperto
(come appunto era avvenuto ai Medici).
Niccolò Machiavelli
(1469-1527) fu il primo teorico della politica ad adottare il termine
«Stato» nel suo significato moderno. Machiavelli riconduceva tutte le
varie forme di Stato alla dualità fondamentale tra monarchia e
repubblica. È possibile che personalmente Machiavelli, che era stato
funzionario della repubblica fiorentina in un momento in cui i Medici erano
esclusi dal governo, propendesse per la forma repubblicana. Sta di fatto,
però, che i suoi interessi teorici si concentravano sulle monarchie, su
quegli Stati, cioè, che si incarnavano nella persona di un principe. E Il
Principe è il titolo della sua opera più fortunata, che
Machiavelli scrisse nel 1513, ma che fu pubblicata solo dopo la sua morte. Il
Principe ebbe un enorme successo. Si trattò però di un successo di
scandalo: le cose che vi erano scritte parvero ai più inaccettabili e
pericolose.
In sostanza Machiavelli sosteneva che la politica è
l'arte della conquista e della conservazione del potere e che in quest'arte non
c'è posto per scrupoli morali o religiosi: come aveva detto Cosimo il
Vecchio, «li Stati non si governano con i Paternosti». Il principe (e
cioè, più in generale, il politico, l'uomo di Stato) forse ama il
bene, ma, se vuol guardarsi dagli avversari, è quasi sempre costretto a
praticare il male. Le virtù private (sincerità, generosità,
altruismo, capacità di perdonare i torti ricevuti, ecc.) sono pericolose
debolezze in politica, dove è sempre meglio essere temuti che amati, se
non altro perché la capacità di incutere timore dipende da noi,
mentre il fatto di essere amati dipende soprattutto dagli altri. Tutta una serie
di atti e di comportamenti che sono assolutamente riprovevoli in un privato
(dall'omicidio all'inganno, alla calunnia, alla dissimulazione, ecc.) sono
invece leciti (se opportuni) o doverosi (se necessari) in un principe (e
cioè in un politico, in un uomo di Stato), perché il solo criterio
adeguato per giudicare le sue azioni è il successo: per dirlo con la
formula che comunemente sintetizza il machiavellismo, il fine giustifica i mezzi
e il fine in politica non è altro che la conquista e la conservazione del
potere. Machiavelli non diceva che ciò fosse un bene: si limitava a
constare che le cose andavano così.
Qualunque fossero le intenzioni
di Machiavelli, nel clima di fanatismo e di ipocrisia determinato dalle lotte di
religione le sue enunciazioni dovevano apparire a tutti cattolici e riformati,
empie, intollerabili, blasfeme. In Italia, poi, dove la Controriforma trionfava
e la repressione del dissenso, attraverso l'Inquisizione e l'Indice dei libri
proibiti, investì presto anche i palazzi principeschi, il pragmatismo
disinvolto dei teorici del successo e del potere assoluto, dei quali Machiavelli
era il caposcuola indiscusso, fu fatto oggetto di condanne indignate: l'intera
opera di Machiavelli fu messa all'Indice. Ciò non vuole affatto dire che
qualcuno, dentro o fuori della Chiesa, intendesse davvero rinunciare ai
comportamenti analizzati da Machiavelli. Proibito era parlarne. Ma neanche
questo era facile: la possibilità di ridurre a regole tecniche (e non
morali) un'azione rivolta essenzialmente alla conquista del potere e al suo uso
più sapiente, era ormai un momento irrinunciabile della riflessione
politica.
Quando, sul cadere del Cinquecento, si prese coscienza che,
piacesse o meno, la dissociazione fra morale o religione da un lato e politica
dall'altro procedeva di fatto nella spietata prassi del potere assoluto, prese
corpo un estremo tentativo di conciliazione, verboso e ambiguo che però
diede vita ad un dibattito interessante. Lo scritto che diede il via alla
discussione fu il trattato di un ex-gesuita piemontese, Giovanni Botero,
intitolato Della ragion di Stato (Venezia, 1589), che esordiva con la famosa
definizione: «Stato è un dominio fermo sopra popoli e Ragione di
Stato è notizia di mezzi atti a fondare conservare ed ampliare un dominio
così fatto». «Ragione» è la latina ratio, ossia il
criterio che regola l'azione poca, a cui Botero, devotamente intento a difendere
il primato della religione, riconosceva in realtà, almeno implicitamente,
una sfera serata ed autonoma: «Ragion di Stato», ammetteva,
«altro non è che ragion di interesse». In questi termini la
«ragione» specifica assegnata allo Stato, ispirata esclusivamente alla
logica del potere, tornava a identificarsi con il più sfacciato
opportunismo. Ma, e qui stava la conciliazione di politica e religione, i
sovrani cattolici potevano giovarsi di una sorta di generale sanatoria morale al
prezzo, tutto sommato modesto, di una formale obbedienza alla Chiesa.
La
subalternità della politica alla religione non era insomma affermata da
Botero come un imperativo per la coscienza cristiana, ma piuttosto consigliata
in termini di convenienza. Il sovrano empio, diceva tra l'altro, sarà
maledetto da Dio e combattuto da lui in ogni circostanza, fino alla perdita
finale del trono e della vita eterna. Il sovrano pio, al contrario, potrà
contare sul favore divino e i santi si materializzeranno sui campi di battaglia
per combattere in suo favore. (L'idea non era peregrina, ma corrispondeva a una
credenza diffusa: la bellissima chiesa di Santa Maria della Vittoria in Roma,
tanto per fare un esempio, ricorda ancora oggi la straordinaria partecipazione
della Vergine alla battaglia della Montagna Bianca, vinta nel 1620
dall'imperatore sui suoi sudditi boemi eretici e ribelli).
UNA CHIESA PER IL PAPA
Nel momento stesso in cui negava l'esistenza
di errori o di fenomeni di degenerazione nel corpo della Chiesa e confermava con
arrogante puntiglio l'integrità della tradizione che faceva capo al papa
di Roma, e cioè nel momento stesso in cui ritornava senza eccezioni o
esitazioni al passato, il Concilio di Trento definiva un modo completamente
nuovo di essere cristiani. La novità stava essenzialmente nello stato di
emergenza che il Concilio aveva solennemente proclamato, dichiarando la Chiesa
in pericolo e chiamando il popolo a difesa dell'istituzione minacciata.
Più che una condizione transitoria, determinata dal dilagare degli scismi
e delle divisioni, questa emergenza era la condizione naturale di una Chiesa
tutta militante, fatta, per così dire, per la guerra. D'ora in poi essere
cattolico avrebbe significato accettare questo stato di guerra permanente, e
adeguarsi ad esso senza discutere, prendendo attivamente e volonterosamente
parte alla lotta, oppure obbedendo, tacendo, dando almeno esteriormente segni di
consenso. Il primo dovere del cattolico diventava il conformismo: «li
secolari», aveva detto un vescovo al Concilio di Trento, «debbono
umilmente ricevere quelle dottrine della fede che gli è data dalla Chiesa
e non ne disputare, né pensarvi più oltre».
In questa
prospettiva la vecchia frattura tra clero e laicato, eterna fonte di tensioni e
di proteste, non solo non era stata sanata dal Concilio, ma volutamente
approfondita. Se una riforma era urgente nella Chiesa, era quella del personale
ecclesiastico, specialmente del clero delle parrocchie, generalmente impreparato
ai compiti di mobilitazione e di vigilanza che ora era chiamato ad assolvere nei
confronti del popolo. La realizzazione della riforma del basso clero
toccò principalmente ai vescovi, a cui erano stati largamente
riconosciuti dignità, poteri, responsabilità nuove, ma nel quadro
(s'intende) della più stretta subordinazione all'autocrazia papale; i
vescovi erano i generali dell'esercito ecclesiastico ed era loro compito
precipuo addestrare i sottoposti, seguirne i progressi con frequenti ispezioni,
spronarli con un conveniente sistema di premi e punizioni.
Non fu impresa
da poco spiegare al clero delle parrocchie il senso delle decisioni del Concilio
e, per esempio, convincere tanti poveri preti che condividevano ingenuamente
l'esistenza dei propri parrocchiani (a cominciare dall'onesta consuetudine di
metter su famiglia) della necessità di distinguersi dal popolo e di
onorare con un stile di vita diverso la propria appartenenza alla gerarchia, e
cioè alla sfera sacra del potere. Questo ruolo di gerarchi (per quanto
umili) attribuito ai preti di parrocchia richiedeva poi capacità che
facevano loro tradizionalmente difetto. Non solo occorreva sapere un po' di
latino, ma nella predicazione e nella confessione bisognava trasmettere
esattamente, senza improvvisazioni ed errori, gli insegnamenti della Chiesa;
cosa tutt'altro che facile, viste le astrusità teologali per le quali i
cristiani si massacravano a vicenda e vista la labilità del confine che
divideva superstizione e religione, ortodossia ed eresia, magia e
devozione.
Anche dal punto di vista amministrativo il Concilio di Trento
aveva addossato al clero delle parrocchie compiti nuovi e gravosi: tra le tante
novità di questa Chiesa militante e militarizzata era forse la più
innovativa, simile alla scoperta, che i generali avrebbero fatto assai
più tardi, che nella guerra moderna conta più l'efficienza dei
furieri che il valore delle truppe d'assalto. I parroci avrebbero dovuto d'ora
in poi tenere una precisa contabilità delle entrate e delle uscite,
familiarizzarsi con i bilanci, inventariare diligentemente i beni della chiesa e
sorvegliare sulla loro conservazione, esigere dai contadini decime e crediti,
registrare puntualmente nei libri parrocchiali i battesimi, i matrimoni e le
morti, censire periodicamente, famiglia per famiglia, la popolazione della
parrocchia (redigere cioè i cosiddetti «stati delle anime»),
annotare l'assiduità dei fedeli alle funzioni pubbliche, indagare sulle
credenze e sui costumi privati dei parrocchiani e, naturalmente, riferire il
tutto ai superiori. Occorsero decenni perché questa complicata e
capillare macchina amministrativa e di controllo si mettesse in moto. Ma alla
fine (e fu merito dei vescovi) funzionò e poté servire di modello
per l'organizzazione di quell'altra mostruosa macchina di governo che sarebbe
diventato lo Stato moderno.
In un apparato di potere, Chiesa o Stato che
sia, c'è un solo valore che conta: l'obbedienza. L'obbedienza,
però, è anche un'antica virtù del cristiano: i laici devono
obbedienza ai religiosi, i monaci all'abate, i preti al vescovo e così
via. In fondo, una delle più antiche e comuni immagini della Chiesa
cristiana è quella di un gregge, affidato a pastori; e non si è
mai vista una pecora disobbedire o ribellarsi. Talvolta nella tradizione della
Chiesa l'obbedienza ha assunto anche valori specifici, più alti. Il
monaco, ad esempio, obbedisce all'abate non solo per rispettare la regola e
contribuire all'ordinato funzionamento della comunità, ma anche
perché l'obbedienza, o piuttosto la rinuncia alla disobbedienza, è
un esercizio di ascesi, talvolta più duro della rinuncia ai piaceri del
sesso o della gola; è mortificazione e penitenza, un po' come il cilicio.
Oppure, anziché rinuncia e mortificazione, l'obbedienza è una
testimonianza: è l'affermazione di qualcosa, non una negazione. Pensiamo
a San Francesco: in lui obbedienza significava soprattutto remissività
disarmante, mansuetudine, non violenza; quella non violenza che, come
nell'evangelico e proverbiale imperativo di «porgere l'altra guancia»,
presume di essere più efficace della violenza stessa e conta, prima o
poi, di avere la meglio.
Queste antiche forme di obbedienza avrebbero
continuato a essere praticate all'interno della Chiesa secondo le vocazioni e le
capacità di ciascuno, ma l'obbedienza predicata dalla Controriforma era
di una specie diversa. Non era certo l'ascesi del monaco o la mansuetudine del
frate che la Chiesa di Roma poteva pensare di opporre alla libertà del
cristiano proclamata dai riformati. Per sterminare l'eresia, la mansuetudine non
serviva; occorreva semmai l'odio, il furore, la passione mistica, l'antica
ferocia dei Domenicani (che infatti fu largamente utilizzata) e magari la
vocazione al martirio, coniugati però con lo spirito di disciplina degli
eserciti moderni. Se ai laici era richiesto un atteggiamento di generico
conformismo, dai preti e soprattutto dagli appartenenti agli ordini religiosi,
che erano un po' i corpi speciali dell'armata ecclesiastica, si poteva
pretendere una forma eroica di conformismo.
Questa combinazione di
esaltazione mistica e di mentalità militare che alla fine si
rivelò la ricetta vincente della Controriforma, era stata intuita assai
per tempo da Ignazio di Loyola (1491 o 1495-1556). Spagnolo, militare di
carriera, nato in una famiglia di militari, durante una lunga convalescenza per
una ferita alle gambe ricevuta in battaglia Ignazio ebbe tempo, tra il 1521 e il
1522, di maturare la sua conversione e di comporre la sua opera fondamentale,
gli Esercizi spirituali. Da buon militare non aveva alcuna preparazione
letteraria o teologica: decise dunque di studiare, ma insieme cominciò
subito, come diceva, «ad aiutare le anime», il che parve sconveniente
e pericoloso a molti. Mendicando e aiutando le anime, tra visioni, esercizi
ascetici, pellegrinaggi e qualche soggiorno in prigione (dove ogni tanto lo
portava il suo zelo religioso, sempre sospetto in tempi di eresie) girò
diverse università raccogliendo intorno a sé un gruppo di seguaci,
che cominciarono fin d'allora a chiamarsi «la
Compagnia».
L'intenzione originaria del gruppo era di recarsi in
Terrasanta, ma una provvidenziale guerra con i Turchi li bloccò in Italia
dove trovarono un'ideale terra di missione: c'era tanto da fare in Europa, che
non valeva davvero la pena di andare in mezzo ai Turchi! L'evento che fece di un
gruppetto di visionari il nucleo della futura, potente Compagnia di Gesù
fu la decisione di Ignazio di aggiungere ai tre tradizionali voti di obbedienza,
povertà e castità quello specialissimo di obbedienza cieca al
papa. Con ciò Ignazio individuava perfettamente l'essenza del
cattolicesimo controriformista: non un papa per la Chiesa, ma una Chiesa per il
papa. E l'obbedienza di cui parlava Ignazio era appunto quella richiesta a un
soldato di fronte al nemico: assoluta e totale. La formula che la definiva,
perinde ac cadaver, «come un corpo morto», è diventata
proverbiale per indicare la completa mancanza di scrupoli o di riserve
nell'eseguire gli ordini superiori, di qualunque genere siano.
I NUOVI ORDINI RELIGIOSI
Oltre alla Compagnia di Gesù, fondata
da Ignazio di Loyola e approvata nel 1540 da Paolo III, diversi nuovi ordini
religiosi nacquero o si svilupparono nell'atmosfera della Controriforma. Tra
questi alcuni risultavano dalla riforma di ordini religiosi preesistenti:
è il caso dei Cappuccini, usciti dalla grande famiglia francescana e
riconosciuti autonomi da Clemente VII nel 1528, e quello delle Carmelitane e dei
Carmelitani scalzi, riformati dalla mistica spagnola Santa Teresa d'Avila e dal
suo discepolo, Giovanni della Croce (Juan de la Cruz) santo e poeta.
Esplicitamente diretto a combattere l'eresia protestante fu l'ordine dei Teatini
fondato nel 1523 da Gaetano da Thiene (da cui il nome) e da Giampiero Carafa,
cardinale e poi papa col nome di Paolo IV (uno dei grandi papi della
Controriforma: già inquisitore, ampliò ulteriormente i poteri
dell'Inquisizione romana e fece compilare il primo indice dei libri
proibiti).
Uno dei grandi settori in cui la Chiesa della Controriforma fu
impegnata è quello che oggi chiameremmo dei servizi sociali:
l'istruzione, l'assistenza ai poveri e ai malati, ecc. Molti ordini vi si
specializzarono: quello dei Somaschi, fondato da Gerolamo Emiliani (1481-1537),
si dedicò all'assistenza ai bambini abbandonati; quello dei Barnabiti
(fondato nel 1530 presso la chiesa di San Barnaba a Milano) e la congregazione
(non un vero e proprio ordine) degli Oratoriani di San Filippo Neri (1515-1595)
all'istruzione (come del resto la Compagnia di Gesù, che però
curava esclusivamente gli istituti di istruzione superiore o universitaria); i
Camillini all'assistenza ai malati ecc.
Nel Seicento sorsero gli ordini
degli Scolopi, fondato da Giuseppe Calasanzio, per l'istruzione gratuita ai
figli del popolo (Scuole Pie), dei Lazzaristi o Preti della Missione fondati da
San Vincenzo de' Paoli (Vincent de Paul) uno dei grandi animatori del
cattolicesimo francese attivo specialmente nel campo dell'assistenza ai poveri,
dei Trappisti (dall'abbazia di Notre-Dame de la Trappe) usciti nel 1668
dall'antico ordine dei Cistercensi in nome di un ritorno all'originario rigore
della regola benedettina.
IL CASO FRANCESE
Le lotte tra protestanti e cattolici si
erano da poco placate in Germania, dove nel 1555 era stata stipulata la Pace
d'Augusta, quando tornarono a divampare in Francia. In Francia, il conflitto
religioso coincise con un periodo di grave crisi della monarchia e ad un certo
punto parve definitivamente tramontato quel potere quasi assoluto che i sovrani
francesi avevano esercitato con tanta energia nell'ultimo secolo. Ma per uscire
dal caos della guerra civile il popolo francese dovette tornare a raccogliersi
disciplinatamente intorno alla monarchia, che in definitiva uscì
rafforzata dalla terribile prova.
I protestanti francesi aderivano alla
dottrina di Giovanni Calvino, che dal 1541 al 1564 guidò e ispirò
da Ginevra l'azione dei suoi seguaci. I calvinisti francesi, comunemente
chiamati ugonotti, rappresentavano solo una minoranza, ma una minoranza
influente e combattiva: ad essa aderiva tra l'altro una grossa porzione della
nobiltà, guidata dall'ammiraglio Gaspard de Coligny (1519-1572), uno
degli eroi della guerra contro la Spagna. Morto il Coligny nel massacro della
notte di San Bartolomeo (la festa di San Bartolomeo cade il 24 agosto), la guida
del partito ugonotto fu presa dallo stesso cognato del re, poi erede al trono,
Enrico di Borbone. A capo del partito cattolico stava invece la casata dei
Guisa, guidata dal duca Enrico e dal cardinale Luigi, suo fratello
minore.
Dopo il lungo conflitto con l'Impero e con la Spagna concluso nel
1559, la Francia avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo di
tranquillità e di pacifico lavoro. Ma a partire dal 1559, dopo i grandi
re della prima metà del secolo, Francesco I ed Enrico II, che avevano
disputato a Carlo V l'egemonia in Europa e consolidato in patria
l'autorità della monarchia, si succedettero alla guida del Paese i figli
di Enrico II, Francesco II, Carlo IX e Enrico III, dalla personalità
piuttosto debole (i primi due erano saliti al trono ancora ragazzi), sovrastati
dalla singolare personalità della madre, la fiorentina (e
«machiavellica») Caterina de' Medici (1519-1589).
In questa
situazione di oggettiva debolezza della monarchia i grandi gruppi della
nobiltà feudale ripresero forza e, in concorrenza l'uno con l'altro,
tentarono di controllare il governo mediante l'influenza che riuscivano ad
esercitare sulla famiglia reale. La frattura religiosa che divideva il Paese
diede a ciascuno di questi gruppi la possibilità di trovare un vasto
seguito popolare e di ottenere importanti alleanze esterne: i calvinisti furono
sostenuti dall'Inghilterra, i cattolici dalla Spagna e dal papa. Incapace di
sottrarsi a queste pressioni, Caterina de' Medici e i suoi figli tentarono di
restare arbitri della situazione adottando un atteggiamento oscillante e
opportunistico e cioè appoggiando ora l'uno ora l'altro partito e
operando in ogni circostanza con un'assoluta mancanza di
scrupoli.
Così, però, riuscirono soltanto ad aggravare le
tensioni e a precipitare il Paese in una guerra civile che minacciò
seriamente di distruggere quella fragile unità che la Francia aveva
conquistato nei secoli precedenti. Fu una guerra spaventosamente devastatrice:
si combatteva tra città e città, tra villaggio e villaggio, tra
famiglia e famiglia. Scorrerie, uccisioni, stragi erano all'ordine del giorno e
naturalmente con il pretesto della religione ebbero via libera le vendette
private, le rivalità familiari, le cupidigie personali. La situazione
parve volgere irrimediabilmente al peggio quando i cattolici, accusando il re
Enrico III di debolezza nei confronti degli ugonotti, formarono una lega,
finanziata dal papa e da Filippo II, re di Spagna, con il proposito di deporlo.
Cacciato da Parigi da una rivolta popolare che univa confuse aspirazioni
democratiche con il fanatismo cattolico, Enrico III decise di sbarazzarsi dei
capi della Lega, Enrico duca di Guisa e suo fratello, il cardinale Luigi, e
l'antivigilia di Natale del 1588 li fece uccidere da suoi sicari. Sette mesi
più tardi toccava al re essere pugnalato da un seguace della Lega
cattolica, il domenicano Jacques Clément. Il nome di Clément
merita di essere ricordato perché il suo gesto originò
un'interessante dibattito dottrinale nel quale molti cattolici difesero la
liceità del regicidio.
L'assassinio di Enrico III non giovò
affatto ai progetti della Lega e del papa. Enrico III, che era l'ultimo figlio
di Enrico II e Caterina, era, bene o male, un cattolico. Morto lui, la
successione al trono toccò a suo cognato, Enrico IV di Borbone, capo del
partito ugonotto. I cattolici erano decisi a non permettere che la corona di
Francia cadesse nelle mani dei protestanti e impedirono con le armi al nuovo re
di insediarsi in Parigi. Enrico IV dette però prova di fermezza e insieme
di opportunismo: stroncò le residue resistenze popolari, si
convertì al cattolicesimo (lo aveva già fatto altre volte) per
togliere di mezzo ogni possibile ostacolo al suo riconoscimento quale legittimo
re di Francia, ottenne l'assoluzione del papa dalla scomunica, ma poi, sconfitte
le truppe spagnole che ancora operavano in Francia e conclusa la pace con
Filippo II, con l'editto di Nantes, riconobbe nel 1598 agli ugonotti il diritto
di professare la propria religione. Era la prima volta che veniva sancita
pubblicamente una sia pur limitata libertà di culto e di
coscienza.
Pacificata in tal modo la Francia, Enrico IV dedicò ogni
energia a ristabilire l'autorità della monarchia. Le consorterie
nobiliari furono sciolte e private d'ogni influenza sul governo e le grandi
casate aristocratiche tacitate con generosi emolumenti. Gli Stati Generali,
ossia l'assemblea rappresentativa del popolo francese, che di fronte alla
patente debolezza della monarchia avevano alzato il capo facendo intendere di
voler fare chissà che cosa (e non avevano fatto niente) furono messi da
parte. La direzione degli affari fu affidata a ministri devoti al re che nulla
potevano fare senza l'autorizzazione e l'approvazione del sovrano. L'esercito e
la marina furono potenziati per scoraggiare i nemici interni ed
esterni.
L'opera di consolidamento della monarchia non si fermò qui.
Enrico IV fu uno dei primi statisti europei a capire che la forza dello Stato si
fondava in ultima analisi sulla prosperità del Paese e sulla sua
capacità produttiva e che il peso delle tasse non doveva superare le
possibilità contributive dei sudditi. «La lana dell'agnello
tosato», diceva un saggio, «l'anno dopo ricresce, ma l'agnello
scorticato muore». In breve tempo il suo ministro per gli affari economici
e finanziari, l'ugonotto Sully, riuscì con sgravi fiscali e incentivi a
risanare l'agricoltura francese rovinata dalle guerre civili e a incrementare
commerci e industrie. Il governo di Enrico però intervenne nella vita
economica non solo per incoraggiarne lo sviluppo ma anche per controllarlo e per
indirizzarlo secondo i suoi fini: secondo i principi di quella che sarebbe stata
poi detta «politica mercantistica», la ricchezza prodotta con la
protezione e l'interessamento dello Stato doveva essere usata al servizio dello
Stato stesso e cioè contribuire alla sua potenza.
La monarchia
francese doveva attraversare altri momenti difficili: lo stesso Enrico IV fu
assassinato nel 1610 da un fanatico cattolico, che non gli perdonava di aver
concesso ai protestanti la libertà religiosa. Ma la politica di Enrico
IV, cioè l'assolutismo monarchico, restò il modello a cui si
ispirarono il suo successore, Luigi XIII, e la vedova di questi, Anna d'Austria,
reggente durante la minore età del figlio, Luigi XIV, entrambi coadiuvati
da ministri di eccezionale abilità (chi ha letto i romanzi di Alessandro
Dumas del ciclo dei Tre Moschettieri ricorderà almeno due di questi
grandi ministri: il cardinale di Richelieu e il cardinal
Mazzarino).
LA NOTTE DI SAN BARTOLOMEO
L'episodio più celebre, e il più
orribile, delle guerre di religione in Francia è la strage della notte di
San Bartolomeo (la notte, cioè, tra il 23 e il 24 agosto del 1572) quando
decine di migliaia di ugonotti vennero scannati nel sonno. A Parigi, dove vi si
erano raccolti per presenziare alle nozze di Enrico di Borbone con la sorella
del re, Margherita di Valois, quasi tutti i capi del partito ugonotto caddero
nella trappola: lo stesso Enrico di Borbone scampò soltanto per essersi
repentinamente convertito al Cattolicesimo, che altrettanto repentinamente
abiurò non appena si trovò in salvo. La strage era stata
concertata con i Guisa da Caterina de' Medici, che intendeva ridimensionare la
crescente influenza del Coligny sul figlio Carlo IX, e forse immaginava di
potersi liberare dei Guisa con l'aiuto degli ugonotti superstiti così
come si era liberata degli ugonotti con l'aiuto dei Guisa. Per il momento,
comunque, diventò la beniamina di tutto il mondo cattolico, che aveva
accolto con esultanza la notizia del massacro (il papa Gregorio XIII, ritenne
doveroso celebrare l'avvenimento facendo coniare una medaglia commemorativa con
il motto ugonotorum strages).
PARIGI VAL BENE UNA MESSA
Al momento di salire al trono Enrico si rese conto
che non sarebbe riuscito a governare la Francia senza l'appoggio cattolico. I
cattolici si erano impadroniti di Parigi ed erano decisi ad impedire con ogni
mezzo l'ingresso in città di un re protestante. Allora Enrico, che si
preoccupava più del bene del Paese che delle beghe religiose, si
convertì al cattolicesimo; in tal modo poté entrare in Parigi e
dare inizio ad una politica di riconciliazione tra i partiti e di rafforzamento
del potere monarchico. Si dice che in tale occasione pronunciasse la frase
«Parigi val bene una messa» che esprime efficacemente il significato
politico della sua conversione.
UGONOTTI
Il francese huguenot deriva dall'incrocio del
tedesco Eidgenossen, che significa compagni giurati o confederati, con il nome
proprio Hugues (Ugo). Il termine venne usato per la prima volta a Ginevra negli
anni Venti del Cinquecento per indicare i patrioti che si opponevano alle mire
annessionistiche del duca di Savoia: il loro capo era appunto Hugues de
Besançon.
Nel decennio successivo passò a indicare i
riformati e più specificamente quelli che si ispiravano alle dottrine di
Calvino.
IL MIRACOLO OLANDESE
I Paesi Bassi del Nord, che comunemente sono
chiamati Olanda, dal nome della loro provincia più importante, e i Paesi
Bassi del sud, che corrispondono pressappoco all'attuale Belgio, appartenevano
in origine al ducato di Borgogna, uno dei domini ereditati da Carlo V (che era
nato appunto a Gand), nel cui ambito godevano di antichi privilegi, che ne
salvaguardavano la sostanziale autonomia. Area intensamente urbanizzata, i Paesi
Bassi rappresentavano nell'Impero di Carlo V la regione economicamente
più florida, ricca di ottimi agricoltori, di ingegneri, di tecnici, di
artigiani, di marinai. Dai Paesi Bassi era possibile trarre con relativa
facilità quattrini sotto forma di introiti fiscali o di prestiti,
purché, naturalmente, le richieste del Governo non eccedessero le
capacità contributive e non soffocassero le attività
economiche.
Carlo V aveva governato i Paesi Bassi con una relativa
prudenza. Essendosi schierato con la Chiesa di Roma aveva imposto anche in
queste province la lotta alle correnti protestanti che vi si erano diffuse,
senza però forzare mai la mano. Quando, nel 1556, Carlo V abdicò,
i Paesi Bassi passarono, con la Spagna, a Filippo II e furono coinvolti nella
politica di intransigente restaurazione cattolica condotta da questo solitario,
malinconico e poco fantasioso sovrano (perfino un po' maniacale nel suo
instancabile attaccamento ai quotidiani, minuti doveri di re). Era una politica
alla grande, che ha fatto della Spagna il campione del cattolicesimo nel mondo
e, almeno per qualche tempo, la potenza egemone in Europa, ma che, spingendola a
intervenire incessantemente con i suoi eserciti e con le sue flotte ovunque si
levasse una minaccia o si offrisse un'opportunità di colpire i nemici
della Chiesa e del sistema politico spagnolo, ne ha consumato le energie umane e
finanziarie.
La Spagna doveva fare argine contro la pressione turca nel
Mediterraneo e contemporaneamente doveva presidiare l'Atlantico e il Mare del
Nord. Il possesso delle colonie americane assicurava alla Spagna un ingente
flusso di argento, ma comportava uno sforzo enorme in termini di uomini e di
denaro, sia per il mantenimento dei presidi militari, sia per l'organizzazione e
la difesa di regolari comunicazioni marittime sulle lunghe rotte
transatlantiche. Nel 1580 la dinastia regnante in Portogallo si era estinta e
Filippo II aveva ereditato anche quella corona: un'enorme aumento di potenza, ma
anche di responsabilità. E, naturalmente, Filippo II non poteva restare
estraneo alle guerre di religione in Francia dove intervenne con uomini e
denari.
Chi pagò il prezzo più alto per questa politica fu la
Castiglia, che era il cuore della monarchia spagnola e che giunse alla fine del
Cinquecento in condizioni di totale dissesto economico, dissanguata
finanziariamente da un fiscalismo dissennato e spopolata per effetto dei
continui reclutamenti forzati di fanti che venivano poi mandati a morire ai
quattro canti del mondo. Rispetto alla Castiglia le altre regioni della Spagna
(l'Aragona e la Catalogna, ad esempio) e gli altri Stati del sistema spagnolo
(compresi i regni di Napoli e Sicilia, che pure furono duramente colpiti con
tasse e reclutamenti di soldati) se la cavarono nel complesso assai meglio.
Quanto ai Paesi Bassi, l'aumentato fiscalismo, l'intolleranza religiosa, lo
scarso rispetto per le tradizionali autonomie cittadine del Governo spagnolo
provocarono in breve un'estesa rivolta, in cui, almeno in un primo tempo,
cattolici e protestanti restarono uniti.
Alle prime manifestazioni di
protesta Filippo II rispose nel 1567 con l'invio di un corpo di spedizione di
ventimila uomini agli ordini del duca d'Alba, un grande generale che in fatto di
intransigenza, fanatismo e crudeltà superava di un buon tratto il suo re
e che infatti divenne il personaggio-simbolo di quei metodi terroristici di
governo, a cui tutte le potenze europee avrebbero fatto largo ricorso nei secoli
successivi. Ma il suo tentativo di piegare la rivolta con il terrore
fallì miseramente ed anzi ebbe l'effetto di rinsaldare l'unione di
cattolici e protestanti nella resistenza all'occupazione spagnola. Solo l'arrivo
nel 1578 di Alessandro Farnese, bravo militare ma ancor più bravo
politico, cambiò la situazione: un po' con la minaccia delle armi e un
po' con l'impegno di restaurare le libertà tradizionali, riuscì a
sottomettere le province meridionali, a maggioranza cattolica.
Le sette
province del Nord (Olanda, Zelanda, Utrecht, Geldria, Overyssel, Frisia e
Groninga), a maggioranza calvinista, continuarono invece la lotta e nel 1581
proclamarono la propria indipendenza. Il nuovo Stato adottava la teoria
contrattualistica secondo la quale il potere sovrano non deriva affatto da
un'investitura divina, ma (come aveva per primo sostenuto Marsilio da Padova) da
una delega popolare; è il popolo che affida al monarca l'autorità
di governare nell'interesse di tutta la società e il popolo stesso gliela
può togliere se è stata male utilizzata. Nella dichiarazione di
indipendenza della Repubblica delle Province Unite il diritto dei popoli
all'insurrezione era espresso a tutte lettere:
... È a tutti
evidente che un principe è posto da Dio al governo di un popolo per
difenderlo dall'oppressione e dalla violenza, come il pastore il suo gregge; e
Dio non creò il popolo schiavo del suo principe, per obbedire ai suoi
ordini a ragione ed a torto, ma creò piuttosto il principe per il
vantaggio dei sudditi (senza i quali egli non potrebbe essere principe) e per
reggerli secondo giustizia, per amarli ed aiutarli come il padre i suoi figli, o
il pastore il suo gregge e per difenderli e proteggerli finanche a costo della
vita. E quando egli non si comporti così, ma al contrario li opprime,
tentando di violare loro antiche consuetudini e privilegi esigendo la loro
servile ubbidienza, allora egli non è più un principe, ma un
tiranno e i sudditi non devono considerarlo in altro modo. E in particolare,
quando ciò è fatto deliberatamente, senza autorizzazione degli
Stati [Generali], essi possono non soltanto rifiutarsi di riconoscere la sua
autorità ma procedere legittimamente alla scelta di un altro principe per
la loro difesa.
Questa è la sola via lasciata ai sudditi, le cui
umili petizioni e rimostranze non riuscissero a persuadere il loro principe, o a
dissuaderlo da provvedimenti tirannici; e questo è ciò che la
legge di natura impone per la difesa della libertà che noi dobbiamo
trasmettere ai posteri anche a costo della nostra vita...
La
Repubblica delle Sette Province Unite aveva una labile costituzione federale,
dove ciascuna provincia conservava, almeno in teoria, la piena sovranità.
Senza la guerra, probabilmente, il nuovo Stato si sarebbe sfasciato subito.
L'emergenza della guerra imponeva invece l'unione di tutte le province mentre il
carattere temporaneo dei sacrifici connessi a questa unità li rendeva
più tollerabili. In realtà l'emergenza sarebbe finita soltanto con
il riconoscimento formale da parte della Spagna dell'indipendenza olandese, nel
1648, e cioè ottant'anni dopo lo scoppio della rivolta: un tempo
più che sufficiente per cementare quella prima precaria
unione.
Simbolo dell'unità nazionale olandese era lo statolder (in
olandese stadhouder = «luogotenente» o «viceré») che
era una carica ereditata dall'antica costituzione monarchica del Paese: simbolo
dell'autonomia delle singole province e della natura repubblicana del nuovo
Stato erano invece gli Stati Generali, ossia l'assemblea dei rappresentanti
delle sette province. Questa commistione di monarchia e repubblica era presente
nella stessa carica di statolder, che in Olanda e Zelanda era ereditaria,
mentre, almeno formalmente, era elettiva nelle altre province. Comunque,
affidata sin dal 1575 al principe Guglielmo d'Orange, uno dei primi e più
tenaci animatori della resistenza olandese, essa restò sempre nella sua
famiglia.
La guerra contro la Spagna non solo assicurò
l'unità del Paese, ma ne garantì la prosperità economica.
La separazione dalle province settentrionali produsse in quelle meridionali
l'esodo dei protestanti verso il Nord. Si trattava di gente ricca di
capacità e di capitali il cui afflusso determinò una sorta di boom
economico. La continuazione della guerra, poi, consentiva di bloccare i traffici
di Anversa, nel sud, che era tradizionalmente la città più
sviluppata della regione, a tutto vantaggio di Amsterdam, la capitale
dell'Olanda. Nello stesso tempo consentiva ai corsari olandesi di avventarsi
sulle navi spagnole e di attaccare le colonie della Spagna in tutte le parti del
mondo. A partire dal 1580, quando Carlo V raccolse la corona del Portogallo, a
quelle spagnole si aggiunsero come legittimo obiettivo di guerra, le navi e le
colonie portoghesi. Tra il 1580 e il 1648 la marina olandese divenne la
più forte del mondo e l'Olanda si trovò padrona di un vastissimo
Impero coloniale.
Il successo dell'Olanda parve ai contemporanei un
miracolo, o, a seconda dei punti di vista, un'opera diabolica (di questo parere
erano gli Spagnoli e, in genere, i papisti). Appariva in ogni caso un evento
eccezionale, altamente improbabile. Più esattamente i miracoli erano tre:
che un piccolo popolo di pacifici marinai, artigiani e mercanti avesse tenuto a
bada (e alla fine avesse sconfitto) la Spagna, che era la maggiore potenza
militare del mondo; che una labile confederazione di sette piccole repubbliche
fosse riuscita a conservare la sua unità nelle circostanze più
difficili dimostrando una solidità superiore a quella di tante arroganti
monarchie; che un Paese privo di risorse naturali fosse diventato in meno di un
secolo la maggiore potenza economica e marittima del mondo e il centro di un
grande Impero. E, col senno di poi, di miracoli ne potremmo elencare parecchi
altri: la straordinaria fioritura artistica e scientifica del Seicento olandese
(Grozio, Rembrandt, Spinoza, Huygens erano olandesi), la precoce e quasi
generale scomparsa dell'analfabetismo, l'instaurazione di un regime di
tolleranza nel bel mezzo delle guerre di religione, ecc.
L'EUROPA E IL MONDO
La ripresa economica dell'Europa dopo i
traumi del XIV secolo (guerre, pestilenze, carestie, rivolte sociali) coincise
con l'inizio di una delle più straordinarie avventure della sua storia:
l'espansione in altri continenti e la conquista di regioni lontane e
sconosciute. Sino al XV secolo nelle diverse parti del mondo le varie
civiltà umane si erano sviluppate in modo relativamente autonomo e spesso
ignorandosi completamente l'un l'altra. Da allora la situazione si è
rapidamente modificata. Nel giro di pochi secoli almeno un'esperienza ha
accomunato tutti i popoli del mondo: quella dell'aggressione
europea.
Nell'età feudale l'espansionismo europeo aveva dato vita al
grande movimento delle crociate; dirette contro il mondo islamico, esse erano
rimaste però circoscritte alla vecchia regione mediterranea. Nel XV
secolo l'espansione in direzione del Mediterraneo era sbarrata dalla potenza
turca, saldamente attestata sulle sponde orientali del mare. Ma l'Europa
trovò un'altra strada verso nuove conquiste: l'Atlantico.
Fu il
più occidentale Paese d'Europa, il Portogallo, a dare l'avvio alla nuova
fase dell'espansione europea. Molte circostanze lo rendevano adatto a
quest'opera, in primo luogo la favorevole posizione geografica, l'esistenza di
una forte tradizione marinara e il possesso di efficienti strumenti tecnici di
navigazione: nella prima metà del XV secolo veniva messa a punto la
caravella, ossia quel tipo di vascello che per tutto il secolo sarebbe stato il
principale protagonista delle esplorazioni atlantiche.
Diversi furono i
motivi che spinsero i Portoghesi alla ricerca di nuove terre: la
possibilità di colonizzare le isole dell'Atlantico (Madera e Azzorre) e
di coltivarvi la canna da zucchero, ma anche grano e cereali (di cui c'era
grande richiesta, dato il declino della produzione in tutto il continente
europeo); la speranza di arrivare ad impossessarsi delle miniere d'oro del
Sudan, di cui gli Europei avevano vaghe ma allettanti notizie; il disegno,
infine, di giungere, circumnavigando l'Africa, sino ai Paesi dell'Asia che
producevano le spezie (pepe, cannella, noce moscata ecc.) in modo da evitare la
mediazione commerciale dei popoli mediterranei.
I successi dei Portoghesi
si susseguirono con ritmo sempre più rapido. Nella prima metà del
XV secolo si erano già impadroniti di Madera, delle Azzorre e delle Isole
del Capo Verde; nel 1472 le navi portoghesi varcavano la linea dell'Equatore e
nel 1488 si spingevano al Capo di Buona Speranza. Raggiunta l'estrema punta
meridionale dell'Africa, l'avanzata nell'Oceano Indiano e poi nell'Oceano
Pacifico fu ancora più rapida.
Gli Spagnoli si inserirono
relativamente tardi in questa impresa di esplorazione e di conquista. Nel 1492
Cristoforo Colombo per conto del re di Spagna attraversò l'Atlantico, con
l'intento di raggiungere il continente asiatico. Il viaggio lo condusse invece
in terre ancora sconosciute: l'America.
Fin qui i Portoghesi avevano goduto
una specie di monopolio sulle scoperte geografiche, formalmente riconosciuto
anche dai papi che, come capi della Chiesa e vicari di Dio in terra, Si
arrogavano una piena e generale autorità su tutti i popoli del mondo,
anche quelli non cristiani: nel 1455, ad esempio, il papa Niccolò V aveva
autorizzato il re del Portogallo a conquistare le terre africane fino agli
estremi limiti meridionali, a ridurre in schiavitù gli abitanti e a
sequestrarne i beni.
L'impresa di Colombo rompeva questo monopolio e
rendeva necessario un accordo tra le potenze interessate. Nel 1494 si giunse,
ancora una volta con l'intervento del papa, al trattato di Tordesillas che
divideva il mondo in due emisferi, l'uno dei quali riservato agli Spagnoli,
l'altro ai Portoghesi. L'accordo naturalmente suscitò le proteste degli
altri Stati europei che ne erano stati esclusi. Solo qualche intellettuale
però mise in dubbio il diritto dell'Europa di spartirsi il mondo e quello
del papa di decidere della sorte di popoli che non solo non riconoscevano la sua
autorità, ma non sapevano neppure chi diavolo fosse.
Fino ai primi
anni del Cinquecento l'esplorazione prevalse sulla conquista. A partire dal 1510
circa Spagnoli e Portoghesi cominciarono ad occupare stabilmente le terre di
recente scoperte. I due Imperi che così vennero a costituirsi ebbero
però caratteri completamente diversi. I Portoghesi volevano prima di
tutto assicurarsi una serie continua di basi navali e commerciali sulla rotta
delle Indie, lungo le coste atlantiche dell'Africa, in Brasile e tutt'intorno
all'Oceano Indiano (dove miravano ad eliminare la concorrenza di altre marine,
in particolare di quella araba, che da tempo immemorabile assicurava le
comunicazioni commerciali tra l'India, l'Africa e il Mediterraneo).
Solo in
un secondo momento i Portoghesi diedero vita in Brasile, che era la sola regione
d'America loro riservata dal trattato di Tordesillas, ad una colonizzazione vera
e propria. Gli Spagnoli, al contrario, puntarono a sfruttare vaste e popolose
regioni del Nuovo Mondo impadronendosi di Stati già organizzati. E
infatti, sconfitti e uccisi i sovrani locali, occuparono subito gli unici grandi
Imperi allora esistenti in America: quello degli Aztechi nel Messico,
conquistato da Hernàn Cortés (1485-1547) tra il 1519 e il 1521, e
quello degli Inca in Perù, conquistato da Francisco Pizarro (1475-1541)
tra il 1529 e il 1533.
Dal loro Impero i Portoghesi trassero enormi
ricchezze. Ma la difesa del monopolio commerciale sulla nuova via delle Indie
costò grandi sacrifici al Portogallo e logorò lentamente le
energie del Paese. Alle continue guerre contro gli Arabi, contro i Turchi,
contro le popolazioni locali si aggiungevano le difficoltà della
navigazione: si pensi che su 625 vascelli partiti dal Portogallo per le Indie
tra il 1497 e il 1572 circa la metà (300 per l'esattezza) non fecero mai
ritorno.
Quanto all'Impero Spagnolo, esso attraversò due successive
fasi. La prima, quella della conquista, si esaurì nell'opera di
asservimento delle popolazioni locali e nell'incetta di metalli preziosi
(soprattutto, in un primo tempo, nella forma della pura e semplice rapina di
gioielli, monili e altri oggetti di oreficeria). La seconda fase, durante la
quale ebbe inizio lo sfruttamento sistematico delle miniere d'oro e d'argento,
vide l'instaurazione di un'economia agricola con caratteri simili a quella
dell'economia feudale europea: un ristretto ceto signorile, laico ed
ecclesiastico, d'origine spagnola deteneva ogni potere ed ogni ricchezza; la
produzione poggiava sullo sfruttamento di una larga massa di lavoratori indigeni
asserviti, le cui condizioni, però, erano molto più dure di quelle
dei contadini-servi europei. Così, mentre si dissolveva in Europa, il
sistema servile rinasceva in forma più oppressiva in
America.
LA CONQUISTA
Dopo la scoperta di Colombo gli Spagnoli
avevano esplorato in pochi anni le più importanti isole delle Antille. Da
Hispaniola (Santo Domingo) la colonizzazione si era estesa alle altre grandi
isole come Porto Rico (1509), Giamaica e Cuba (1511). Gli Spagnoli si erano
preoccupati soprattutto di impadronirsi dell'oro accumulato dagli indigeni, ma
nel giro di pochi anni l'oro era finito e i primi conquistadores si erano
trovati a dover risolvere il problema della loro permanenza in
America.
Nelle Antille la sopravvivenza dei coloni dipendeva interamente
dall'arrivo delle navi spagnole che li rifornivano di tutto ciò che era
loro necessario: anche la farina per fare il pane veniva dalla Spagna. Gli
Spagnoli, infatti, non erano riusciti ad impiantare stabilmente attività
agricole nelle isole conquistate: gli Indios impiegati in questi lavori morivano
quasi subito. Si trattava dunque da un lato di conquistare un minimo di
autonomia economica, soprattutto per quanto riguardava i rifornimenti
alimentari, e dall'altro di trovare nuove riserve di metalli preziosi tali da
rendere economicamente vantaggiosa l'impresa di una sistematica colonizzazione.
Cominciò allora, a partire da Cuba, un movimento di esplorazione del
continente americano, diretto principalmente verso il Messico e, più a
sud, verso l'istmo sul quale gli Spagnoli avrebbero fondato Panama e che ha
preso il suo nome.
Nel 1518 Hernàn Cortés partì da
Cuba verso il continente. Con lui erano circa 600 soldati, 16 cavalieri e una
decina di cannoni: forze decisamente esigue di fronte alla potenza degli Aztechi
che dominavano il Messico. A favore del piccolo esercito spagnolo giocavano
però sia le divisioni tra le varie popolazioni, alcune delle quali (come
ad esempio quella della città di Tlaxcala) sopportavano malvolentieri il
predominio azteco, sia la superiorità tecnica garantita dalle armi da
fuoco e dai cavalli, completamente sconosciuti in America. All'imperatore azteco
Montezuma (o Moctezuma), poi, quegli stranieri dalla pelle bianca sembravano
essere proprio gli inviati divini che, secondo una leggenda azteca, sarebbero
venuti dall'oriente a governare l'Impero.
Con l'aiuto dei soldati di
Tlaxcala Cortés poté giungere fino alla capitale dell'Impero
Tenochtitlàn dove Montezuma lo accolse trattandolo come un semidio. Per
non correre rischi, Cortés lo fece prigioniero e lo indusse, con altri
capi aztechi, a giurare fedeltà al re di Spagna. A questo punto,
però, la rivalità tra il governatore di Cuba, che aveva la
sovrintendenza sull'impresa, e Cortés, rischiò di trasformare
l'impresa in un disastro. Le popolazioni messicane, infatti, irritate dalle
continue richieste degli Spagnoli, che erano sempre, ossessivamente, alla
ricerca di oro, e dalle distruzioni di templi operate per promuovere la loro
conversione al Cristianesimo, si erano ribellate agli Spagnoli e allo stesso
Montezuma.
Cortés si trovò chiuso nella città, proprio
mentre l'imperatore moriva. Di notte, perdendo quasi metà dei soldati,
gli Spagnoli riuscirono a fuggire e a raggiungere la pianura davanti a
Tenochtitlàn. Qui, ricevuti rinforzi e con l'aiuto di alleati indigeni,
gli Spagnoli posero l'assedio alla città; fu facile tagliare le
comunicazioni e costringere i Messicani dopo alcuni mesi di assedio ad
arrendersi. Nell'agosto del 1521 Cortés rientrava in Tenochtitlàn,
faceva bruciare l'ultimo imperatore Cuauhtemoc, e prendeva rapidamente nelle sue
mani tutto l'Impero Azteco. Tenochtitlàn veniva distrutta e al suo posto
veniva edificata Città del Messico, futura capitale del vicereame della
Nuova Spagna.
Francisco Pizarro aveva partecipato alla spedizione con la
quale Vasco Nurlez de Balboa, governatore della colonia spagnola sull'istmo di
Panama, aveva raggiunto il Pacifico; si era mostrato abile e coraggioso e anche
a lui era stato affidato il comando di una spedizione verso le regioni del sud.
Altri esploratori avevano raccontato che in quelle terre esisteva un regno
ricchissimo ancora sconosciuto agli Spagnoli: l'Impero Inca. Pizarro
riuscì nel 1526 ad arrivare a Tùmbez, ai margini dell'Impero Inca
e si rese conto di avere di fronte un regno vastissimo, ricco e potente.
Lasciato il socio e compagno d'avventure Diego de Almagro (1575-1538) al comando
della fortezza di Tùmbez, Pizarro tornò in Spagna, per pattuire
con il governo le condizioni della conquista del Perù.
Ottenuta la
nomina a governatore e capitano generale, rientrò a Panama dove
organizzò la nuova spedizione. Finalmente, nel 1531, con 180 uomini, 27
cavalli e due pezzi d'artiglieria si portò a Tùmbez, da dove,
ricevuto qualche rinforzo, iniziò la marcia verso l'interno. Quando
giunse ad incontrare l'imperatore inca, Atahualpa, Pizarro aveva con sé
un centinaio di uomini e una sessantina di cavalli; Atahualpa aveva invece
quarantamila soldati ai suoi ordini. Ma Pizarro riuscì con l'inganno a
impadronirsi dell'imperatore. Atahualpa offrì una quantità enorme
di oro in cambio della libertà. Quando però gli Spagnoli ebbero
l'oro, Pizarro fece uccidere Atahualpa e di colpo si trovò a capo di
tutto l'Impero.
L'Impero degli Inca era organizzato in modo che i
cambiamenti al vertice della gerarchia sociale non erano neppure avvertiti dalla
popolazione. I contadini erano abituati ad accettare senza condizioni la
volontà dell'Inca e non riponevano alcun interesse nelle vicende
politiche. Questa tradizione di passività giocò tutta a favore dei
conquistatori, a cui diede il modo di organizzare senza difficoltà e con
pochissime risorse umane uno stabile dominio su una regione sterminata. L'unico
serio episodio di resistenza si verificò tra il 1535 e il 1536, quando
gli Inca ribelli strinsero inutilmente d'assedio la città di Cuzco,
antica capitale dell'Impero, difesa da una guarnigione spagnola.
Ancora una
volta furono i contrasti tra i conquistadores a mettere a repentaglio il dominio
spagnolo. Nel 1537 Almagro prese le armi contro Pizarro, ma fu sconfitto e
ucciso nel 1538. Nel 1541 toccò a Pizarro essere assassinato dai
partigiani di Almagro che gli nominarono come successore un figlio dello stesso
Almagro, che, a sua volta, fu spodestato nel 1542 dal nuovo governatore inviato
dal Governo spagnolo.
GLI EUROPEI NEL NORD AMERICA
Dal Messico, che Cortés aveva
conquistato tra il 1519 e il 1521, e dalla Florida nella quale si erano
insediati gLi Spagnoli, partirono diverse spedizioni incaricate di percorrere i
vasti territori ancora sconosciuti che si stendevano a Nord. Intorno ad essi
circolavano le voci più strane: si parlava dell'esistenza di città
meravigliose, come le «sette città di Cibola», che avrebbero
avuto le mura d'oro incrostate di smeraldi, mentre una leggenda indiana
localizzava in quei luoghi una favolosa fonte le cui acque avrebbero avuto il
potere di donare l'eterna giovinezza. Le spedizioni, in particolare quelle di
Coronado e di De Soto, servirono per il momento solo a sfatare queste leggende;
ma più tardi i territori così esplorati vennero a costituire due
nuove importanti province dell'Impero Spagnolo: il Nuovo Messico, dove nel 1609
veniva fondata Santa Fé, e la California, dove nel Settecento sorse una
catena di missioni cattoliche affidate ai frati francescani. Questi, oltre a
curare l'evangelizzazione degli indigeni, intrapresero proficue attività
economiche con la fondazione di grandi aziende agricole.
Gli Spagnoli erano
penetrati nel continente Nord americano muovendosi da Sud verso Nord; i Francesi
seguirono invece l'itinerario inverso, da Nord verso sud. Giovanni da Verrazzano
nel 1524 aveva esplorato la costa Nord americana e Jacques Cartier risalì
tra il 1534 e il 1536 il fiume San Lorenzo sino al luogo dove, nel 1608, sarebbe
stata fondata la città di Quebec. In questa regione i Francesi diedero
vita alla colonia del Canada. Di qui nel corso del Seicento i Francesi,
spingendosi verso Sud lungo la vallata del Mississipi, raggiunsero il Golfo del
Messico. Sorse così, ad opera soprattutto di René Robert de La
Salle, suo primo viceré, l'altra colonia francese del Nord America, la
Louisiana (chiamata così in onore del re di Francia, Luigi XIV), che
faceva capo alla città di Nouvelle Orléans (oggi New
Orléans). Quanto agli Inglesi, che avevano già esplorato Terranova
con Giovanni Caboto nel 1497, si insediarono stabilmente nel continente Nord
americano sul finire del secolo successivo, ma si impegnarono in un'opera di
sistematica colonizzazione solo nel Seicento.
CONQUISTATORI E CONQUISTATI
Quando Cristoforo Colombo e i primi Spagnoli
si trovarono a contatto con le popolazioni indigene dell'America nacque un grave
problema. Come dovevano essere trattati gli Indios? Quali rapporti dovevano
essere instaurati tra gli Spagnoli e le popolazioni indigene? Gli Spagnoli si
erano trovati di fronte a popolazioni non europee o non cristiane anche in
Spagna e in Africa (Arabi Berberi, Ebrei); allora però il problema era
apparso relativamente semplice perché trattandosi di «infedeli»
le norme del diritto comunemente accettate ne autorizzavano l'asservimento come
nemici catturati o vinti nel corso di una guerra «giusta», ossia di
una guerra intrapresa per la difesa della «vera» religione.
In un
primo momento sembrò che anche agli Indios americani potessero essere
applicate queste norme, tanto che lo stesso Colombo non ebbe alcuna esitazione
ad inviare un buon numero di indigeni in Spagna come schiavi. Nel 1500 essi
però furono liberati e rimandati indietro dal re che deliberò che
«nessuno poteva permettersi di catturare e ridurre in schiavitù un
indiano di quelle isole». In quegli anni infatti in Spagna erano sorti
dubbi sulla legittimità della schiavitù degli Indios americani. In
generale si ammetteva che era possibile renderli schiavi se la guerra in cui
erano catturati fosse una guerra giusta; ma chi doveva decidere se la guerra era
giusta o no?
I conquistadores preoccupati di avere a disposizione uomini da
far lavorare nei campi e nelle miniere tendevano a considerare tutte le guerre
«giuste». Il re di Spagna invece cominciò ben presto a
proteggere gli indigeni limitando severamente le possibilità di ridurli
in schiavitù; in questa posizione del sovrano spagnolo erano senza dubbio
presenti motivi morali e umanitari, ma agiva soprattutto una preoccupazione
politica. I re di Spagna cercavano di impedire che i conquistadores con il
possesso di un gran numero di schiavi diventassero troppo potenti.
In ogni
caso, il problema della schiavitù degli Indios si collegava a quello del
diritto di Spagnoli e Portoghesi ad occupare il Nuovo Mondo. Si arrivò
alla conclusione che la conquista dei nuovi territori era giustificata dal fatto
che in questo modo veniva diffuso il cristianesimo. Cortés, ad esempio,
scriveva a Carlo V che il Signore aveva concesso ai re spagnoli di scoprire
nuovi Paesi perché voleva che la fede cristiana potesse essere diffusa
tra le popolazioni americane. Con queste premesse la conquista assumeva uno
spiccato carattere religioso; era il papa stesso ad incaricare il sovrano
spagnolo di evangelizzare i pagani e di diffondere la dottrina cristiana
attraverso la conversione forzata delle popolazioni conquistate.
Si impose
dunque ai conquistadores, prima di intraprendere una qualsiasi azione offensiva
contro gli Indios, di dare lettura del requerimento (= «invito»), un
singolare documento che spiegava agli indigeni come il re di Spagna avesse
ricevuto dal papa l'autorizzazione ad impadronirsi dei loro territori e li
invitava a sottomettersi pacificamente agli Spagnoli e a convertirsi di buon
grado al Cristianesimo. Se questo invito non veniva accolto la guerra diventava
«giusta» e tutto era permesso.
Solo con le Leggi Nuove del 1542
la schiavitù degli Indios venne completamente abolita: essa però
continuò ad esistere di fatto ancora per molti anni, soprattutto nelle
regioni più lontane dove era facile sfuggire alla sorveglianza dei
procuratori del re incaricati di far osservare le leggi sugli schiavi. Del
resto, almeno in casi eccezionali, i sovrani spagnoli tornarono ad autorizzare
la schiavitù, come accadde tra il 1608 e il 1674 in Cile nella guerra
contro gli Araucani, una popolazione particolarmente bellicosa.
Accanto
alla schiavitù e anche dopo che questa venne abolita esistevano nelle
colonie spagnole altre forme di lavoro forzato. L'encomienda, che nella Spagna
medievale stava a indicare il patronato del signore sui suoi vassalli, in
America e nella sua forma più antica consisteva nell'assegnazione ad un
colono (repartimento) di un certo numero di indigeni, variante tra 40 e 150,
perché li impiegasse nelle sue proprietà (haciendas). Gli Indios
in questo caso non erano propriamente schiavi, ma non potevano allontanarsi dal
luogo dove risiedevano, un po' come accadeva ai servi della gleba nel sistema
feudale. Gli Spagnoli giustificavano questa forma di lavoro coatto con il
pretesto che gli Indios erano pigri di natura e senza costrizione non avrebbero
mai lavorato. In realtà, gli indigeni erano abituati a un ritmo di vita e
di lavoro assai diverso, più lento e tranquillo di quello degli Europei.
Per gli Spagnoli questa tranquillità comportava un danno economico ed era
pertanto considerata un vizio da estirpare in ogni modo.
L'istituzione
dell'encomienda era giustificata, tra l'altro, con motivazioni religiose. Sotto
la guida dell'encomendero, infatti, gli Indios avrebbero dovuto essere istruiti
e convertiti al Cristianesimo: erano, per così dire, affidati alle sue
cure (encomendar in spagnolo significa appunto «raccomandare»,
«affidare»). La legge stabiliva gli obblighi che l'encomendero aveva
verso gli Indios: doveva innanzi tutto costruire una chiesa per loro e istruire
i figli dei cacicchi (i capi indigeni, responsabili verso gli Spagnoli della
sottomissione delle popolazioni da loro dipendenti); ma doveva anche compensare
il lavoro prestato dagli Indios con sufficienti razioni di cibo, regolare le ore
di lavoro e rispettare il riposo della domenica. Ci si attendeva insomma che
attraverso l'encomienda gli Indios potessero essere inseriti a poco a poco nella
civiltà europea e nel modo di produzione spagnolo.
In pratica i
padroni spagnoli cercavano di sfruttare al massimo il lavoro degli indigeni e
tutte le regole venivano sistematicamente violate. Gli Indios venivano
addirittura prestati, barattati o venduti. Quando l'apertura, nel 1545, delle
ricchissime miniere d'argento di Potosì richiese il reclutamento di molte
braccia, gli encomenderos non esitarono a inviarvi a lavorare squadre di propri
dipendenti o addirittura a vendere gli Indios di cui avevano la tutela ai
padroni delle miniere.
Questi eccessi suscitarono la disapprovazione e le
proteste di uomini come il domenicano Bartolomé de Las Casas che
contribuirono a far modificare il sistema dell'encomienda: invece
dell'assegnazione di lavoratori coatti, ai coloni fu concesso di riscuotere
speciali tributi dagli Indios: in questa forma l'encomienda restò in
vigore fino al 1720. Di fatto però gli Indios continuarono a lavorare
nelle proprietà bianche. L'obbligo di pagare un tributo li portava di
solito a indebitarsi con i padroni bianchi e naturalmente, per pagare il debito,
dovevano lavorare.
La forma peggiore di lavoro forzato, quella che
più era temuta dagli indigeni, era la mita, che si richiamava ad un
antico uso dell'Impero Inca, dove i sudditi erano obbligati a prestare una serie
di servizi all'imperatore: si trattava in sostanza di corvées. Era
adoperata dagli Spagnoli per ogni sorta di lavori pubblici ma soprattutto per
rifornire di mano d'opera le miniere del Perù. Il servizio nelle miniere
di Potosì durava un anno e vi erano impiegati 13.500 uomini forniti ogni
anno dai cacicchi della regione. Le leggi prevedevano turni di riposo e orari di
lavoro ben precisi, ma i padroni delle miniere non rispettavano le norme. Non
pagavano rimborsi per le spese del viaggio e trovavano ogni pretesto per
decurtare i salari dovuti, in modo che i lavoratori si indebitassero e fossero
così costretti a continuare il lavoro nelle miniere oltre il termine
stabilito. Per non perdere tempo i minatori dovevano dormire di notte nelle
gallerie e non potevano lasciare il lavoro se nella giornata non avevano
estratto una determinata quantità di minerale. La mortalità tra i
lavoratori indigeni era così alta e il loro lavoro era considerato
così orribile che quando un gruppo di indigeni partiva per la mita nel
loro villaggio si celebrava il servizio dei defunti. Un viceré del
Perù ebbe a dire a questo proposito che se si fossero potute spremere le
monete coniate con l'argento di Potosì ne sarebbe venuto fuori più
sangue che metallo.
BARTOLOMÈ DE LAS CASAS
Bartolomé de Las Casas (1474-1565) era
figlio d'uno dei primi conquistatori e fu egli stesso tra i primi Europei a
giungere in America (1506). Vide dunque di persona e molto per tempo quali
fossero i sistemi usati dagli Spagnoli per «pacificare» gli Indios.
Nel 1511 il sermone di un frate, Antonio de Montesinos, contro gli encomenderos,
determinò in lui una crisi di coscienza, che lo portò a rinunciare
ai titoli di proprietà, a farsi ordinare sacerdote e, infine, nel 1523,
ad entrare nell'ordine domenicano. Ottenne nel 1516 il titolo di
«procuratore universale e protettore degli Indios». Forte di tale
investitura, fu protagonista di memorabili dispute teologiche, sempre sostenendo
l'iniquità della conquista armata del Nuovo Mondo e il buon diritto degli
indigeni a difendersi. Ispirò alcuni atti di politica coloniale spagnola,
tra cui le Leggi Nuove del 1542. Nel 1544 fu nominato vescovo di Chiapas.
Viaggiatore e scrittore infaticabile, lasciò una monumentale Storia delle
Indie dove ricostruì le vicende delle esplorazioni e delle conquiste tra
il 1492 e il 1520.
La Storia delle Indie fu pubblicata soltanto nel 1875.
Famosissima fu viceversa la Brevissima relazione della distruzione delle Indie
pubblicata nel 1552 e tradotta in diverse lingue. La Brevissima relazione diede
origine alla cosiddetta «leggenda nera» della conquista spagnola
cioè al racconto delle violenze degli Spagnoli sulle Indie
Occidentali.
INDIOS E NERI
Molto presto ci si accorse che gli indigeni
americani, appena entravano in contatto con gli Spagnoli morivano in gran
numero. Molti di loro, naturalmente, erano stati uccisi dagli Spagnoli nel corso
delle guerre della conquista; ma anche quando le guerre terminarono, la
mortalità restò elevatissima. Le dure condizioni in cui gli
indigeni erano costretti a lavorare per i dominatori spagnoli provocavano
stragi. Gli Europei, poi, erano portatori di malattie contro le quali
gl'indigeni non erano immunizzati: era sufficiente un'epidemia d'influenza o di
morbillo per annientare una intera comunità. Infine la distruzione
sistematica della propria cultura e delle proprie abitudini di vita privava gli
indigeni della capacità e della volontà di resistere alle fatiche
loro imposte. In generale sopravvissero più facilmente le popolazioni
degli altipiani, mentre nelle isole e nelle zone tropicali gli indigeni nel giro
di pochi anni scomparvero.
Gli Spagnoli avevano grande bisogno di
manodopera. Chi emigrava in America, infatti, non partiva con l'idea di fare
l'agricoltore o l'artigiano, ma pensava solo ad arricchirsi il più
rapidamente possibile. Per qualsiasi genere di prodotto, dunque, i coloni
dovevano fare affidamento esclusivamente sulle importazioni dalla madrepatria o
sul lavoro degli indigeni. La rapida diminuzione (e talvolta la totale
scomparsa) delle popolazioni locali nel lavoro dei campi e nelle miniere poneva
dunque agli Spagnoli un grave problema: quello di trovare una manodopera
altrettanto a buon mercato e di riempire i vuoti che sempre più numerosi
si aprivano nelle comunità indigene.
La soluzione fu trovata
nell'impiego degli schiavi neri, che si rivelarono lavoratori molto resistenti
riuscendo ad affrontare anche quei lavori particolarmente faticosi nei quali gli
Indios finivano in breve tempo col trovare la morte. L'uso dei neri come schiavi
aveva tra l'altro il vantaggio di non suscitare opposizioni di carattere legale
o morale. I neri infatti venivano acquistati da mercanti stranieri, per lo
più portoghesi, che a loro volta li avevano comprati da capi tribù
africani che vendevano prigionieri di guerra: questo lungo giro di compravendita
insieme con la convinzione che i neri discendessero da Cam, il figlio maledetto
di Noè, bastava ad eliminare ogni scrupolo.
La tratta assunse
così proporzioni sempre più vaste, tanto che in alcune regioni
dell'America tropicale, i neri, che si adattavano perfettamente al clima,
sostituirono completamente gli indigeni. Questo commercio era sotto il controllo
del re di Spagna, che rilasciava speciali licenze di importazione; quando
però l'importanza dei neri crebbe, la tratta divenne un grosso affare
internazionale e Nazioni come la Francia e l'Inghilterra gareggiarono per
assicurarsi l'asiento, ossia il diritto di rifornire di schiavi neri l'America
spagnola. In Brasile l'importazione di schiavi neri cominciò più
tardi perché nei primi tempi la situazione economica della regione non
richiedeva ancora un forte impiego di manodopera. L'impiego degli schiavi neri
ebbe un grande sviluppo quando si impiantarono le piantagioni di zucchero e poi
quando furono scoperte le miniere di Minas Gerais.
A parte gli schiavi,
nelle terre spagnole del Nuovo Mondo potevano entrare solamente i sudditi del re
di Spagna; inoltre questi dovevano essere «buoni cristiani»
perché il loro comportamento avrebbe dovuto essere d'esempio agli
indigeni. Per lo stesso motivo le autorità vigilavano affinché non
giungessero in America malviventi, anzi chi commetteva qualche delitto in
colonia di regola era rimandato in patria. Una norma, poi, richiedeva che i
coloni fossero sposati perché si pensava che una famiglia desse
più affidamento dal punto di vista della moralità che non persone
sole. Naturalmente non era difficile aggirare queste leggi; chi voleva partire
per le colonie poteva imbarcarsi come marinaio e poi disertare una volta giunto
in America. Altri si imbarcavano clandestinamente.
Generalmente i bianchi
spagnoli, i neri africani e gli Indios americani convissero senza eccessive
complicazioni e spesso si fusero in una varietà di incroci razziali. In
un primo tempo le autorità spagnole avevano cercato di tener separati gli
indigeni dai bianchi ed avevano proibito a questi ultimi di risiedere nei
villaggi degli Indios. In pratica non era stato possibile mantenere questa
separazione. Era frequente che uno Spagnolo convivesse con una donna india:
più raro invece era il matrimonio perché per lo Spagnolo
significava perdere la «purezza di sangue». I figli nati da queste
unioni erano i «meticci». Abbastanza frequenti erano le unioni tra
neri e donne indie anche se le autorità cercavano di tenere divise le due
comunità per paura che solidarizzassero contro i bianchi. Da queste
unioni nascevano figli chiamati «zambos». Non accadeva quasi mai che
un bianco sposasse una nera dal momento che questa era di solito una schiava;
erano invece comuni le unioni libere che davano origine a figli chiamati
«mulatti». Tra i bianchi si faceva poi una netta distinzione fra
quelli nati in Spagna e quelli nati in America; questi ultimi venivan chiamati
«creoli».
A queste distinzioni di razza corrispondevano
normalmente precise differenze sociali. Una gerarchia sociale alquanto
semplificata vedeva infatti al vertice i nobili spagnoli, di solito proprietari
di latifondi o alti funzionari statali, poi i creoli, che costituivano la
borghesia, attivi soprattutto nel commercio, poi i meticci, che formavano la
maggioranza dei lavoratori salariati, ed infine i mulatti e gli schiavi neri.
Gli Indios restavano estranei alla struttura sociale ed economica delle colonie:
non erano inseriti nella produzione e praticavano piuttosto un'economia di
sopravvivenza. La ricchezza poteva permettere il passaggio dall'uno all'altro di
questi strati sociali. Mentre però era abbastanza facile per un meticcio
ricco entrare nell'ambiente dei creoli, era molto più difficile che i
creoli entrassero a far parte dell'aristocrazia spagnola. Ciò dipendeva
dalla diffidenza della Spagna verso i creoli che, appartenendo alla borghesia
coloniale, sopportavano a malincuore i sistemi di monopolio imposti dalla
madrepatria.
LA TERRA
Preoccupazione costante del Governo spagnolo
era di conservare un efficace controllo dei territori americani a dispetto delle
enormi distanze e degli scarsi mezzi a disposizione delle autorità. Per
evitare che i coloni acquistassero sul piano politico o su quello economico un
peso tale da indurli a pericolosi atteggiamenti di indipendenza, cercò,
tra l'altro, di impedire che eccessive estensioni di terra finissero nelle mani
di un solo padrone. In verità l'assegnazione di enormi territori era
stata una pratica abbastanza frequente nei primi tempi della conquista.
Adelantados, cioè capi o promotori della conquista, come Cortés e
Pizarro, che avevano organizzato a loro spese le spedizioni, erano stati
compensati con la concessione di intere regioni. In seguito però queste
concessioni furono revocate. Anche i poteri e le cariche in un primo tempo
assegnati a Cristoforo Colombo erano stati quasi subito ridimensionati.
Cortés, il conquistatore del Messico, fu esautorato nel 1535 e
tornò a morire oscuramente in patria.
Nonostante queste precauzioni
non si poté impedire la formazione di vasti latifondi. Nelle colonie
spagnole tutta la terra apparteneva al re; i privati potevano entrarne in
possesso solo per concessione regia. Ai coloni che emigravano in America veniva
garantita la proprietà di piccoli appezzamenti e della casa che dovevano
costruirvi sopra; era vietato costruire recinzioni e, salvo una piccola
porzione, i terreni dovevano restare aperti al pascolo. Ai cittadini, oltre al
terreno per costruire la casa in città, era assegnato anche un piccolo
appezzamento fuori dall'abitato. Coloro, poi, che intendevano dedicarsi su larga
scala all'allevamento del bestiame potevano richiedere estensioni maggiori di
terreno da adibire a pascolo (estancias, haciendas).
In teoria queste
assegnazioni non comportavano la proprietà del terreno, ma chi ne
beneficiava ne diventava di fatto il padrone assoluto. Esisteva una serie di
limitazioni che avrebbero dovuto impedire la concentrazione nelle mani di un
solo proprietario di molte estancias. Così, per esempio, i proprietari
non avrebbero potuto vendere i loro terreni prima di un certo numero di anni, o
prima di avervi costruito case o iniziato lavori agricoli. In realtà la
compravendita di terreni era frequente sebbene clandestina. Anche le usurpazioni
erano comunissime: accadeva cioè che i terreni effettivamente posseduti
fossero molto più vasti di quelli assegnati; in questo caso col pagamento
di una multa si poteva regolarizzare l'usurpazione. Il fallimento di tutti i
tentativi fatti per impedire la formazione di latifondi in America si deve alle
crescenti difficoltà finanziarie del Governo spagnolo, il quale per far
fronte al bisogno di denaro trovava comodo intascare le multe che legalizzavano
le usurpazioni o addirittura mettere all'asta i terreni di uso pubblico. Queste
vendite all'asta finivano naturalmente per favorire i più ricchi, quelli
che di solito possedevano già grandi estensioni di terreno.
Altra
causa del costituirsi del latifondo in America fu l'introduzione del
maggiorascato, un'istituzione largamente presente in Europa, per cui, dietro
pagamento di una speciale tassa, le proprietà terriere potevano essere
trasmesse al solo primogenito (escludendo gli altri figli dall'eredità):
in questo modo si salvaguardavano le proprietà contro la frammentazione
conseguente alle divisioni ereditarie. Accanto al latifondo privato, e in
virtù delle donazioni di terre che i privati stessi o le autorità
facevano alle chiese, e ai conventi, nacque un latifondo ecclesiastico, che,
come in Europa, era esente da imposte. Il fenomeno assunse proporzioni enormi,
nonostante qualche tentativo del governo centrale (per ragioni essenzialmente
fiscali) di bloccarne lo sviluppo. Nella Nuova Spagna all'inizio del XVII secolo
un terzo di tutte le case, di tutti i terreni e di tutti gli altri beni immobili
apparteneva agli ordini religiosi.
Gli Indios, naturalmente, furono i
più danneggiati dalla formazione dei latifondi; anch'essi infatti
possedevano terre, ma per i ricchi proprietari bianchi era facile appropriarsi
dei loro campi acquistandoli per un tozzo di pane o semplicemente fingendo di
acquistarli. Qui si può cogliere un'importante differenza tra il
latifondo latino-americano e quello europeo. In Europa la grande
proprietà terriera, era nata nel corso del Medio Evo in relazione alla
particolare funzione politica, militare e sociale dei signori feudali, che,
oltre che sfruttarne la forza lavoro, amministravano e proteggevano le
popolazioni contadine da loro dipendenti. Quando quelle funzioni passarono nelle
mani dei ceti borghesi e delle burocrazie statali, anche il sistema della
signoria feudale cominciò a disgregarsi. Nell'America Latina, invece, e
particolarmente nelle colonie spagnole, il latifondo nacque proprio per
iniziativa di «borghesi» che investivano in terreni i capitali
accumulati nell'esercizio di attività commerciali o industriali. In altre
parole, mentre in Europa il denaro dei borghesi operava la dissoluzione del
latifondo, in America Latina lo faceva nascere. A questa differenza se ne lega
un'altra ancora più importante. I grandi possedimenti feudali europei
erano unità economiche che producevano innanzi tutto per l'autoconsumo;
vi si ricavava cioè una grande varietà di prodotti - dal grano e
altri generi alimentari, alla canapa e al lino per gli abiti, al legname da
costruzione, ecc. - che servivano alla sussistenza dei contadini impegnati nel
feudo. Solo una piccola parte della produzione globale era destinata al
commercio. Proprio per questo l'avvento della borghesia significò in
Europa il tramonto della società feudale: l'interesse della borghesia,
che traeva dal commercio i suoi guadagni, portava all'eliminazione progressiva
del sistema dell'autoconsumo ed alla commercializzazione progressiva di tutta
intera la produzione.
Nell'America Latina, invece, il latifondo costituiva
un'unità economica che produceva essenzialmente per il commercio, nel
senso che solo una piccola parte della produzione era destinata al consumo degli
Indios asserviti, mentre tutto il resto veniva venduto all'estero ed esportato
in Europa. E proprio in vista della vendita del prodotto si affermò
presto la necessità di una specializzazione produttiva, nel senso che
ogni possedimento produceva soltanto quei generi che risultavano più
adatti alle condizioni ambientali ed alla natura del terreno (monocoltura).
Nacquero così le grandi piantagioni di canna da zucchero e di tabacco (e
più tardi quelle di caffè e di cotone) mentre altre regioni si
specializzarono nell'allevamento del bestiame o nello sfruttamento delle
miniere.
REDUCCIONES E BANDEIRANTES
L'attività missionaria nell'America
Latina si sviluppò parallelamente alla conquista militare. Alla fine del
periodo coloniale esistevano trentacinque vescovati e sette arcivescovati. Quasi
tutti gli ordini religiosi, e in primo luogo domenicani, francescani, gesuiti,
avevano preso parte alla colonizzazione: spingendosi nell'interno avevano
fondato missioni che, presidiate da soldati, avevano il compito di convertire
gli indigeni al cristianesimo e di preparare il terreno per l'arrivo dei
coloni.
Nel Paraguay, lungo il corso dell'alto Paranà, al confine
con il Brasile, i gesuiti crearono l'organizzazione missionaria senza dubbio
più originale: le reducciones, vasti territori concessi dal governatore
in esclusiva alla Compagnia di Gesù perché provvedesse alla
conversione e all'educazione delle popolazioni guaranì. I coloni non
potevano metterci piede e gli indigeni non potevano essere sottoposti ad alcuna
forma di lavoro coatto. Persuasi che gli indigeni fossero ingenui come fanciulli
e che fosse il contatto con i bianchi a rovinarli, i gesuiti costruirono
villaggi dove gli Indios vivevano sotto la loro guida e la loro protezione. In
questi villaggi i missionari insegnarono agli Indios tecniche agricole e
artigiane moderne e promossero un notevole sviluppo economico, i cui frutti,
caso forse unico nella storia della colonizzazione europea, non venivano
esportati, ma distribuiti tra la popolazione o comunque reinvestiti nella
colonia stessa, salvo, s'intende, il tributo dovuto alla Corona
spagnola.
Le riduzioni erano avversate da tutti i coloni perché
sottraevano manodopera indigena e costituivano un pessimo esempio per gli Indios
e per gli schiavi neri da loro dipendenti. Il pericolo più grave a cui le
riduzioni erano esposte era costituito però dalle scorrerie dei
bandeirantes, come venivano chiamati in Brasile i membri delle bande di
avventurieri che nel corso del XVII e XVIII secolo, partendo per lo più
da San Paulo, si spingevano all'interno alla ricerca d'oro e di schiavi. In
Brasile, infatti, a differenza delle colonie spagnole, la schiavitù degli
Indios era autorizzata (fu proibita solo nel 1758) e la caccia all'indio era
un'attività remunerativa. Gli Indios delle riduzioni erano
particolarmente apprezzati come schiavi, perché dotati di un'educazione e
di capacità professionali di tipo europeo. Per sfuggire alle razzie i
gesuiti spostarono più a Sud le loro riduzioni, ma a metà
Settecento, con l'intenzione espressa di liquidarne una volta per tutte
l'esperienza. sette riduzioni furono cedute dalla Spagna al Portogallo. Guidati
dai gesuiti i Guaranì cercarono di resistere, ma furono massacrati. In
seguito il territorio ceduto al Portogallo tornò alla Spagna, ma nel
frattempo la Compagnia di Gesù era stata sciolta e le riduzioni, affidate
ai francescani, non tornarono più alla prosperità di
prima.
LE CITTŔ SPAGNOLE IN AMERICA
Nell'America spagnola la costruzione di una
città doveva essere regolata da precise norme: piazze ed isolati
sorgevano secondo linee rette. Per prima cosa si delimitava la piazza centrale e
da qui si facevano partire le strade. Anche quando i centri spagnoli si
sovrapponevano a quelli indigeni preesistenti, la città veniva
ristrutturata in modo da acquistare una forma regolare e geometrica. Solo in
qualche caso sorsero città prive di un preciso piano edilizio; si
trattava per lo più di centri che assumevano all'improvviso grande
importanza, per esempio per la scoperta nelle vicinanze di giacimenti minerari,
e che quindi richiamavano in poco tempo un elevato numero di abitanti. Fu quello
che accadde alla città di Potosì, sulle Ande, che dopo la scoperta
di grandi giacimenti d'argento raggiunse in pochi anni 160.000 abitanti. Se per
le città spagnole questo sviluppo disordinato e irregolare fu
un'eccezione, per quelle brasiliane costituì invece la
regola.
UN'ECONOMIA A CICLI
La storia dell'America Latina rimase legata
per un lungo periodo alla ricerca dei metalli preziosi. Lo sfruttamento delle
risorse minerarie non ebbe un andamento regolare e continuo: in certi periodi la
produzione di metalli preziosi era intensa, in altri quasi inesistente. Per
importanza, poi, prevaleva di tempo in tempo l'uno o l'altro metallo
sicché si parla di cicli dell'oro e di cicli dell'argento, che si sono
alternati. Un primo ciclo dell'oro terminò verso il 1530 quando
finì il saccheggio dei depositi accumulati nel corso dei secoli dalle
civiltà precolombiane e quando si esaurirono i giacimenti facilmente
rinvenibili in superficie. Un nuovo ciclo iniziava quando si verificava qualche
fatto nuovo, come la scoperta di nuovi giacimenti o l'introduzione di tecniche
di estrazione più avanzate e redditizie. Per l'oro segnarono l'inizio di
tali cicli l'apertura delle miniere di Buritica verso la metà del XVI
secolo e quella delle miniere brasiliane di Minas Cerais nel XVIII secolo. Per
l'argento un ciclo di intensa produzione cominciò con la scoperta delle
miniere del Potosì nel 1545 e quelle di Zacatecas nel 1546. Per l'argento
fu decisiva l'applicazione della nuova tecnica dell'amalgama col mercurio che
permetteva di estrarre il metallo più velocemente e da minerali meno
ricchi.
La caratteristica produzione a cicli non era limitata ai metalli
preziosi: anche prodotti agricoli, come il legno, lo zucchero, il caffè,
il cacao e l'allevamento del bestiame ebbero nella storia americana un andamento
simile. Ciò significa che in una regione, per un dato periodo, si
praticava la produzione di un solo genere agricolo; quando questa si esauriva o
non era più conveniente se ne cominciava un'altra. Caratteristica di
questo modo di produrre era l'estrema rapidità con cui poteva essere
iniziata una coltivazione, ma anche la velocità con cui veniva
abbandonata. La caduta dei cicli produttivi comportava gravi scompensi economici
e sociali perché tutta una società organizzata per un certo tipo
di produzione si trovava da un momento all'altro a dover cambiare sistema di
vita. La monoproduzione (= «una sola produzione») e specialmente la
monocoltura agricola erano forme di specializzazione produttiva che giovavano
soprattutto agli interessi della madrepatria. Essa infatti poteva rifornirsi
nelle varie colonie di tutte le materie prime che le erano necessarie,
ottenendole a prezzi molto bassi e in cambio poteva vendere a prezzi altissimi i
manufatti e le altre merci che le colonie, per il fatto stesso della
specializzazione, non potevano produrre.
La produzione a cicli,
caratteristica di tutta l'America meridionale e centrale, ha segnato in
particolare la storia del Brasile, la cui formazione è stata diversa da
quella delle colonie spagnole. Innanzi tutto i Portoghesi vi giunsero quasi per
caso e l'importanza economica della scoperta non fu compresa immediatamente:
l'unica sua risorsa era all'inizio il Pao Brasil, un legno rosso usato in
tintoria che diede il nome all'intero Paese. Il Brasile produttore
essenzialmente di legname contava alla fine del XVI secolo appena 60.000
abitanti, ma i bianchi in proporzione erano numerosi (25.000) mentre pochi erano
gli Indios e gli schiavi neri. Verso il 1570 si aprì un nuovo ciclo di
produzione: quello dello zucchero. Dalle isole atlantiche la coltivazione della
canna da zucchero si diffuse in Brasile dove venne praticata con sistemi
primitivi che distruggevano in breve tempo la capacità produttiva dei
terreni. Quando un terreno era esaurito, veniva bruciata una zona della foresta
e il fazendeiro, cioè il padrone della fazenda, con i suoi schiavi si
spostava su questa nuova area. Lo sviluppo della colonia portoghese risale a
questo periodo: la popolazione aumentò, ma soprattutto fu intensificata
l'importazione di schiavi neri che vennero impiegati in gran numero nelle
piantagioni di zucchero. Fu questo il grande momento della regione del Nord-Est,
dove erano concentrate le fazendas; città come Recife (Pernambuco) e
Bahia raggiunsero uno splendore notevole riempiendosi di abitanti e abbellendosi
di ricchi edifici e di monumenti barocchi. Caduta la produzione dello zucchero
in seguito alla concorrenza delle Antille, nel Brasile cominciò un nuovo
vertiginoso ciclo di produzione: quello dell'oro. Questo terzo ciclo
iniziò verso il 1720 con la scoperta delle miniere d'oro di Minas Gerais
e proseguì per un cinquantennio; a partire dal 1729 nella stessa zona
furono scoperti anche i diamanti. Lo sfruttamento delle miniere portò
alla nascita improvvisa di grandi città: Ouro Preto, ad esempio, sorse
nel giro di pochi anni e raggiunse i 100.000 abitanti. Ma con la fine del ciclo
dell'oro queste città decaddero altrettanto rapidamente. Anche l'ascesa
di Rio de Janeiro è legata al ciclo dell'oro: era qui infatti che i
prodotti di Minas Gerais si imbarcavano per l'Europa.
L'indipendenza del
Brasile non modificò nell'Ottocento il sistema di produzione a cicli: se
era cambiato il regime politico la realtà sociale ed economica rimaneva
la stessa. Ancora da Rio partì l'altro grande ciclo produttivo: quello
del caffè. Ma furono soprattutto la città e lo Stato di San Paolo
a beneficiare della ricchezza prodotta da questa coltura che rappresentò
fin verso i primi decenni del XX secolo la base dell'economia brasiliana. Quella
del caffè fu una produzione molto redditizia ma soggetta a periodiche
crisi di sovrapproduzione: in certi anni i piantatori giunsero a distruggere
parte del raccolto per non dover abbassare i prezzi. Così nel 1905 il
caffè venne addirittura usato nelle locomotive al posto del
carbone!
Verso la fine del secolo scorso cominciò il ciclo del
caucciù: decine di migliaia di uomini si addentravano nelle foreste
dell'Amazzonia alla ricerca dell'albero da cui trarre il latice che vendevano a
prezzi altissimi o per lavorare nelle piantagioni. Erano i seringueiros, la cui
fortuna durò fino a quando le piantagioni dell'Asia del Sud-Est non
furono in grado di produrre gomma in quantità maggiore e a minor prezzo.
Nel 1913 le esportazioni del Sud-Est asiatico superarono quelle del Brasile e da
quel momento l'avventura della gomma terminò. Manaus, la città che
era cresciuta vertiginosamente con il traffico della gomma ridiventò una
piccola città di provincia.
AMERICA LATINA: INGLESI E FRANCESI
La rapidità con cui gli Spagnoli si
impadronirono della loro fetta d'America ha del prodigioso: in meno di
cinquant'anni conquistarono una sterminata regione che si estendeva per molte
migliaia di chilometri, mentre, per fare un confronto, gli Inglesi, nei secoli
successivi, procedendo dalle coste atlantiche verso l'interno del continente
nordamericano avrebbero impiegato duecento anni per percorrere duecento
chilometri, in media un chilometro all'anno. Si trattava, evidentemente, di due
modelli molto diversi di colonizzazione. L'avanzata degli Spagnoli in quei primi
decenni ebbe il carattere della pura conquista: la colonizzazione e gli
stanziamenti vennero più tardi. I conquistadores, cioè, non si
fermavano a dissodare il terreno o a impiantare attività produttive come
avrebbero invece fatto i coloni inglesi dell'America settentrionale: la sete dei
metalli preziosi li spingeva ad esplorare e conquistare sempre nuovi territori e
ad abbandonarli appena l'oro si esauriva o cadevano le speranze di
trovarne.
Alla fine del XVI secolo, comunque, in quella che era ormai
l'America «latina» (detta così perché interamente nelle
mani di due popoli latini, gli Spagnoli e i Portoghesi) la fase della conquista
era terminata da un pezzo ed era cominciata quella della colonizzazione. I
possedimenti spagnoli, divisi in due vicereami, si estendevano con
continuità lungo tutto il continente dal Messico al Cile. Qui la
conquista aveva dovuto arrestarsi fermata dai bellicosi Araucani; solo nel XIX
secolo questi territori entrarono a far parte dell'America bianca divisi tra
Cile e Argentina. Verso l'interno restava invece una larghissima fascia di
terreno, corrispondente all'America equatoriale e tropicale della pianura, che
era già stata attraversata dagli esploratori, ma dove la colonizzazione
non era ancora giunta. L'America spagnola alla fine del XVI secolo era limitata
ai grandi altipiani e all'istmo, alle aree, cioè, dei grandi imperi
precolombiani, dove c'era abbondanza di uomini e di ricchezze e dove il clima
risultava più adatto agli Europei.
L'organo principale
dell'amministrazione spagnola per l'America era il Consiglio delle Indie che
risiedeva in Spagna: sotto il controllo del re preparava le leggi destinate ai
territori americani, sorvegliava l'operato dei funzionari statali e svolgeva le
funzioni di tribunale supremo. In America l'autorità regia era
rappresentata dai Viceré, designati direttamente dal re e scelti tra i
membri delle più illustri famiglie della nobiltà spagnola; di
norma restavano in carica per pochi anni e i loro poteri erano limitati dalle
Audiencias, organi collegiali con funzioni giudiziarie e amministrative. Le
Audiencias, formate da un numero variabile di Oidores (uditori), vigilavano sul
comportamento dei funzionari e davano pareri ai viceré su tutti gli
affari più importanti. Le diverse colonie erano suddivise in unità
amministrative e giudiziarie minori a ciascuna delle quali era preposto un
Corregidor che di solito aveva il particolare compito di controllare gli Indios.
Le città godevano di una certa autonomia; il consiglio comunale, il
Cabildo, era formato da due sindaci, gli Alcades, e da alcuni consiglieri, i
Regidores.
I possedimenti portoghesi presentavano caratteristiche alquanto
diverse: intanto non si poteva ancora parlare di colonie ma piuttosto di basi
commerciali, isolate le une dalle altre e minacciate dalla penetrazione di altri
coloni europei. I grandi spazi vuoti attirarono infatti presto l'interesse dei
concorrenti e nel corso del Seicento nel tratto di costa tra il Rio delle
Amazzoni e l'Orinoco sorsero diversi insediamenti francesi, inglesi e olandesi.
Dal punto di vista amministrativo il territorio controllato dal Portogallo era
articolato in Capitanie, una sorta di feudi dotati di larga autonomia, mentre
l'autorità suprema spettava al Governatore Generale del Brasile che solo
nel 1714 assunse il titolo di Viceré.
Il sistema fondato sulle
Capitanie, che i Portoghesi avevano già sperimentato negli arcipelaghi
atlantici, resistette fino al 1604, quando fu creato per le colonie portoghesi
in America il Conselho da India. Nella prima fase della colonizzazione la
Capitania era una vasta concessione data dalla Corona portoghese ad un
personaggio che assommava ruoli politici ed economici. I Capitani dovevano
prendersi cura dell'agricoltura e del commercio, attirare coloni e finanziare il
loro insediamento sino a che la nuova colonia fosse in grado di bastare a se
stessa. Ciò implicava tra l'altro il rifornimento della mano d'opera
necessaria o riducendo in schiavitù gli Indiani o comperando schiavi
africani: entrambi i metodi erano piuttosto onerosi. In generale
l'amministrazione di una Capitania richiedeva la disponibilità di ingenti
capitali, e infatti certi Capitani erano dei finanzieri che, senza neppure esser
mai stati in Brasile, si limitavano a investirvi del denaro.
Le Capitanie,
si è detto, erano concessioni analoghe ai feudi. Come questi erano
ereditarie e comportavano per il titolare il rispetto di una serie di obblighi
sotto pena di sequestro in caso di violazione o di fellonìa. I Capitani
ricevevano in assoluta proprietà dieci leghe di costa divise in bande
discontinue; avevano il diritto di esportare annualmente in Portogallo un certo
numero di schiavi indiani, di controllare il traffico fluviale all'interno della
Capitania e di concedere terre a coloni. Potevano trattenere un decimo della
tassa sull'estrazione delle pietre e dei metalli preziosi o di altre tasse che
riscuotevano per conto del re. Avevano il monopolio dei mulini e percepivano
diritti su quelli che lavoravano su licenza. Durante i primi dieci anni
ricevevano una parte delle tasse sul pesce e sul legno da tintura (il legno
Brasile, uno dei generi di esportazione più interessanti) inviato in
Portogallo.
I Capitani potevano fondare città e accordare loro
privilegi; nominavano dei funzionari che erano tenuti al giuramento di
fedeltà nei loro confronti. Esercitavano la giurisdizione penale,
compresa la pena di morte, sugli indigeni e sui bianchi delle classi inferiori e
potevano infliggere fino a dieci anni di esilio ai nobili. Esattamente come i
grandi feudatari del Medio Evo i Capitani godevano di larghe immunità:
gli ufficiali regi o corregidores non potevano penetrare nelle Capitanie ed i
titolari di queste non potevano essere sospesi senza essere stati ascoltati
personalmente dal re.
All'inizio vi furono quindici Capitanie concesse a
dodici donatari, ma in seguito l'evidente mancanza di coesione tra esse indusse
Giovanni III a creare un governo centrale o Capitania generale. Quando nel 1549
il governo del Brasile fu centralizzato, il capitano generale divenne il
delegato del re. Egli doveva assicurare la difesa comune delle Capitanie,
controllare i Capitani e assicurarsi che le imposte dovute al re fossero
effettivamente riscosse.
Dal punto di vista della politica economica le
colonie erano totalmente dipendenti dalla madrepatria. Secondo le idee del
tempo, infatti, le loro risorse dovevano essere integralmente al servizio della
madrepatria. Se un prodotto americano faceva concorrenza ad uno spagnolo veniva
soppresso; i giacimenti di ferro, per esempio, presenti in diverse colonie non
erano sfruttati per non fare concorrenza alle miniere spagnole; quando,
all'inizio del XVII secolo, la produzione locale di vino crebbe al punto da
rendere superflue le importazioni dalla Spagna, si ordinò di estirpare
gran parte delle vigne americane. Le colonie non potevano commerciare che con la
madrepatria e anche gli scambi tra le colonie dipendenti dalla stessa Corona
dovevano passare attraverso Siviglia e Cadice che erano i capolinea,
rispettivamente spagnolo e portoghese, del commercio americano. Le colonie
fornivano in genere materie prime, metalli e pietre preziose, sostanze tintorie,
cuoi e zucchero, mentre la Spagna e il Portogallo inviavano in America i
manufatti di cui i coloni potevano aver bisogno. In verità uno dei
problemi che la Spagna non seppe risolvere fu quello di adattare il proprio
apparato produttivo alle esigenze dei coloni sviluppando le produzioni
più richieste: così gran parte dei manufatti che la Spagna inviava
nelle colonie erano fabbricati altrove, in Olanda, in Inghilterra, a Genova,
ecc.
Il monopolio commerciale della madrepatria faceva sì che i
coloni americani dovessero dipendere per molti generi di consumo dall'arrivo dei
convogli di navi che in determinati periodi dell'anno attraversavano
l'Atlantico. È facile immaginare quali inconvenienti ne nascessero: a
parte il prezzo esorbitante delle merci, su cui gravava il costo del trasporto,
spesso i convogli giungevano con forti ritardi, o non giungevano affatto, oppure
non portavano merci della qualità richiesta e nella quantità
necessaria, ecc. Era inevitabile che i consumatori americani cercassero di
rimediare a questi inconvenienti ricorrendo in maniera massiccia al
contrabbando.
I Paesi che erano stati esclusi dalla spartizione
dell'America, la Francia, l'Inghilterra, i Paesi Bassi erano ben contenti di
smerciare clandestinamente in America i loro prodotti e organizzarono il
contrabbando su vastissima scala. Le autorità spagnole fingevano spesso
di ignorare questo traffico illegale in parte perché erano impotenti a
fermarlo, in parte perché i loro funzionari si lasciavano facilmente
corrompere, ma soprattutto perché il contrabbando svolgeva una funzione
indispensabile alla vita delle colonie americane. Molte volte si svolgeva alla
luce del sole: per salvare le apparenze le navi contrabbandiere fingevano di
essere in avaria ottenendo così il permesso di entrare in porto; per
riparare i presunti danni scaricavano in terra le merci, che poi venivano
vendute più o meno clandestinamente; infine la nave ripartiva e ripeteva
la stessa operazione in un altro porto.
Il monopolio commerciale della
Spagna e del Portogallo era d'altra parte apertamente sfidato dalla guerra di
corsa, organizzata o favorita dai governi dei Paesi che erano in guerra o in
attrito con loro. I primi a sfidare la potenza navale spagnola furono i corsari
francesi e inglesi. Quando l'Inghilterra si trovò ufficialmente in guerra
con la Spagna (e con il Portogallo, che dal 1580 era unito alla Spagna) gli
attacchi dei corsari si intensificarono e numerose città furono prese e
saccheggiate. Con l'insurrezione dei Paesi Bassi contro la Spagna a francesi e
inglesi si erano affiancati i corsari olandesi.
LA CONQUISTA DELL'AMERICA LATINA DA PARTE FRANCESE E INGLESE
I tentativi francesi di penetrazione
nell'area continentale dell'America Latina risalivano addirittura alla
metà del XVI secolo, ma per lungo tempo non ebbero alcun successo.
Solamente nel 1650 la Francia si assicurò il possesso di Caienna, primo
nucleo della Guyana francese. L'Inghilterra e l'Olanda invece vi si erano
stanziate già prima, nel 1595 e nel 1621. L'Olanda nel 1630 riuscì
a strappare al Portogallo una lunga striscia di costa brasiliana, ma nel 1654
aveva dovuto lasciarla in seguito ad una rivolta dei piantatori di zucchero.
Caratteri diversi ebbe la penetrazione delle Nazioni europee nelle Antille. La
scomparsa delle popolazioni indie e la corsa all'oro verso il continente aveva
lasciato queste isole quasi disabitate ad eccezione di alcune zone di Cuba,
Santo Domingo, Porto Rico. Francia Inghilterra e Olanda furono così
facilitate nell'insediare basi commerciali prima nelle Piccole Antille (1625) e
poi anche nelle Grandi Antille (1635). La Francia fu favorita anche dal fatto
che le basi dei filibustieri, molti dei quali erano protestanti francesi
riparati in America al tempo delle guerre di religione, si trasformarono
facilmente in colonie.