L'essere eterno. Infinita estensione del tempo che non ha avuto inizio e non
avrà termine. Come concetto filosofico assoluto quello di
e.
rappresenta la categoria che il pensiero contemporaneo ha più criticato
illustrandone il carattere puramente metaforico.
E. fu intesa dai Greci
come infinita estensione nel tempo che non ha avuto inizio e non avrà
termine; ma già da Parmenide e poi dai platonici, l'
e. viene
intesa piuttosto come puro presente, senza inizio e senza fine. Nella Sacra
Scrittura, l'
e. viene intesa come principio, fine e successione, in
questo senso passa in sant'Agostino, e in Boezio. Per sant'Agostino, Dio
è l'
e. e le cose create sono
temporalità. Nella
patristica postagostiniana, tra i padri orientali, spicca Zaccaria che nega la
necessità e l'
e. del mondo, creato volontariamente e liberamente
nel tempo da Dio. Boezio distingue l'
aeternitas del nunc stans dalla
sempiternitas del
nunc in tempore. Egli ricorda che è sul
piano dell'
e. che deve risolversi il problema della Provvidenza; il
tempo, e con esso le angosce e gli sconforti del presente, scompare nella luce
dell'
e. quale
interminabilis vitae tota simul et perfecta
possessio. L'idea dell'
e. come infinita durata e presente senza
inizio e senza fine ritorna nella teologia medioevale che l'attribuisce solo
all'ente perfetto. Averroè (1126-1198), uno dei massimi rappresentanti
della filosofia araba e ispiratore dell'indirizzo di pensiero occidentale
(averroismo) sorto in opposizione a San Tommaso nell'interpretazione
dell'aristotelismo, afferma che se Dio è eterno, anche il mondo, in
quanto necessaria manifestazione della natura di Dio, non può non essere
eterno. L'
e. comporta la necessità che interessa tutta la
struttura del reale. Sigieri di Brabante (1235-1281), autorevole rappresentante
dell'averroismo latino, attenendosi al principio aristotelico rivendicato da
Averroè, afferma parimenti che l'essere, nella sua struttura universale,
è necessario ed eterno. Pertanto, bisogna ammettere l'
e. della
materia, del movimento e delle specie, nonché l'
e. dell'anima
intellettiva che non è una parte dell'anima umana e non si moltiplica con
la moltiplicazione dei corpi. Essa è invece numericamente
una e
identica in tutti gli uomini. Il concetto di
e. intesa come presente
eterno, viene attribuito dall'idealismo post-kantiano allo spirito. Il tema
dell'
e. costituisce una parte essenziale del pensiero di S. Kierkegaard
secondo cui nella vita religiosa, l'esistenza umana si rivela nella sua
singolarità irripetibile, come esistenza finita in cui irrompe
l'infinito, come incontro di finito e infinito, di tempo e di
e.
L'atteggiamento "terrestre" e temporale è quello che ci lega a qualcosa,
ai beni finiti e particolari. La salvezza proviene dal distacco da ciò
che è terrestre, da una
disperazione che è la malattia
mortale attraverso la quale si conquista la fede. Per divenire coscienti del
significato eterno della propria esistenza occorre
disperare. Nulla di
finito può soddisfare un'anima umana nella quale si desta il bisogno
dell'eterno. L'unica via per ritrovare lo spirito immortale che vive nell'uomo
è quella della disperazione: chi non conosce la disperazione, per quante
gioie abbia provato, non conosce il significato della vita. Ma per disperare,
occorre forza, serietà, concentrazione. Chi dispera trova l'uomo eterno,
e come uomini eterni siamo tutti uguali. Finché vive nel tempo, l'uomo
è un esistente e non può astrarre dalla propria
esistenzialità che lo condiziona storicamente. L'esistenza religiosa
è un esistere non nella ragione, ma nel paradosso, e chi si dispone a
ubbidire al richiamo di Dio deve accettare l'assurdità della fede contro
la giustificazione della ragione. Il paradosso è la convivenza misteriosa
del tempo e dell'eterno, ma questo in termini speculativi. Chi non dubita del
finito, chi non ha conosciuto l'angoscia e la disperazione, non è pronto
ad accogliere l'irruzione misteriosa dell'eterno nel tempo.