Pena mediante la quale il condannato viene privato
dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del reato e relegato in un
territorio lontano dalla madrepatria. ● St. del dir. - Istituita dal
Diritto penale romano, durante il principato di Augusto, come una pena derivata
dall'esilio, stabiliva per il deportato la perpetua perdita della cittadinanza,
ma non della libertà, e la confisca dei beni. Nel Medioevo la
d.
decadde e fu sostituita dal bando e dall'esilio. In epoca moderna, dopo la
scoperta dell'America e con la nascita degli Imperi coloniali, la
d. fu
ristabilita in alcuni Paesi europei (Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra),
sia per colonizzare nuove terre, sia per allontanare dalla madrepatria
delinquenti o avversari politici. Nell'Impero britannico, ad esempio sotto il
Regno di Elisabetta I, la pena di morte poteva essere commutata nella
d.
nelle colonie: si formarono così colonie di deportati, dapprima in
America e poi, dopo l'indipendenza americana, in Australia e in Nuova Zelanda.
Spesso i deportati, affidati a imprenditori come lavoranti, potevano riscattare
la propria libertà con il guadagno del proprio lavoro. Nel 1857 la
d. fu abolita. La Russia zarista utilizzò la
d.,
soprattutto verso la Siberia e l'isola di Sachalin; abolita nel 1917, la pena fu
in seguito prevista solo per i condannati politici. Anche la Germania nazista
fece largo uso della
d., sia per motivi politici, sia per ragioni
razziali: gli Ebrei, in particolare, furono deportati in appositi campi di
concentramento. In Italia si discusse in varie occasioni dell'opportunità
di introdurre la
d.; tuttavia, la pena non entrò mai
nell'ordinamento penale.