Partito politico italiano. Sorto durante il periodo di clandestinità degli oppositori al regime fascista, fu l'esito di una
serie di incontri fra varie personalità promossi per tutto il 1942 da
Alcide De Gasperi. Il nome scelto per la formazione politica dei cattolici non
voleva indicare una continuità con la corrente omonima di Romolo Murri
(V. MURRI, ROMOLO e DEMOCRAZIA CRISTIANA). La nuova
DC, infatti, si proponeva come
unità politica dei cattolici in quanto coesione di diverse realtà
rispetto ad un programma. In essa confluivano almeno quattro gruppi principali e
distinti: quello dei vecchi popolari (V. POPOLARE ITALIANO, PARTITO - fondato nel 1919) come De Gasperi, Piccioni, Scelba;
quello della tradizione del sindacalismo bianco come Gronchi, Rapelli e Grandi;
quello cosiddetto dei "professorini", La Pira, Dossetti, Lazzati, Fanfani,
cioè la nuova generazione più indipendente rispetto al retaggio
prefascista; i giovani formatisi all'interno delle associazioni cattoliche della
FUCI e di AC, come Andreotti, Moro, Colombo. Nel luglio del 1943, quale
elaborazione di una commissione apposita di ex popolari e di militanti del
Movimento Guelfo d'Azione, fu diffuso a dispetto della clandestinità il
Programma di Milano della DC, connotato a sinistra, e subito dopo
(gennaio 1944) il testo
Idee ricostruttive della DC, a firma Demofilo,
pseudonimo di De Gasperi. Il programma enunciato da questi due documenti
è così riassumibile: professione antifascista e affermazione della
democrazia e dello Stato liberale; indipendenza del piano politico da quello
religioso; equilibrio dei poteri dello Stato e principio di
rappresentatività in un sistema bicamerale eletto a suffragio universale;
decentramento amministrativo (comuni, regioni); libertà di insegnamento e
di scelta fra istruzione pubblica e privata; riforma agraria; lotta alla
disoccupazione ed emancipazione del proletariato non attraverso la lotta di
classe ma attraverso una progressiva compartecipazione dei lavoratori alla
gestione delle imprese e dei braccianti alla proprietà delle terre;
nazionalizzazione delle fonti di energia; azionariato popolare e controllo dei
monopoli; politica estera di tipo europeista. Restava dunque salda l'ispirazione
interclassista e corporativa che da sempre caratterizzava il pensiero politico
cattolico. Fra le variegate componenti all'interno del primo organo centrale
della
DC, e cioè la Commissione direttiva centrale, il gruppo
più forte era quello moderato raccolto attorno a De Gasperi. Come in
tutti i partiti antifascisti, dopo l'8 settembre 1943 l'attività della
DC si distinse al Nord come impegno nella Resistenza e al Centro-Sud come
tentativo di assicurare la continuità dello Stato, aderendo al CNL
(V. COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE). Il primo
Consiglio Nazionale del partito fu eletto dal Congresso interregionale di Napoli
(29-30 luglio 1944), con una netta prevalenza dei moderati rispetto alla
sinistra interna, rappresentata dai soli sindacalisti Grandi e Pastore: De
Gasperi ne era il segretario, Scelba il vicesegretario. La
DC
partecipò con suoi uomini ai Gabinetti Badoglio, Bonomi e Parri (il primo
dopo la Liberazione). Con la liberazione del Nord, anche nella
DC
assunsero maggior peso le componenti più spiccatamente riformiste e meno
moderate, con uomini come Enrico Mattei, comandante delle Brigate Partigiane del
Popolo e futuro presidente dell'ENI, e Giuseppe Dossetti, leader della nuova
sinistra
DC. Alla caduta del Governo Parri, espresso dal CLN
(giugno-novembre 1945), seguì la costituzione del primo ministero De
Gasperi (10 dicembre 1945): la
DC si pose alla guida del Governo con la
ferma intenzione di conquistare l'appoggio delle tradizionali masse cattoliche,
in armonia con la propria vocazione popolare non classista, e dei nuovi ceti
impiegatizi, e di guadagnarsi la fiducia della nuova borghesia imprenditoriale.
Il primo Congresso Nazionale (Roma 24-28 aprile 1946) si pronunciò
nettamente a favore della Repubblica, pur senza vincolare i suoi iscritti e
simpatizzanti in vista del referendum istituzionale del 2 giugno 1946; tuttavia
il partito in seguito contribuì con convinzione a stroncare le resistenze
monarchiche alla proclamazione della Repubblica. Alle elezioni della Costituente
la
DC ottenne il 35% dei voti, divenendo partito di maggioranza relativa.
Durante i lavori per la stesura della Costituzione il gruppo dei parlamentari
dossettiani, piuttosto forte, ebbe un peso determinante, soprattutto per la
qualità dell'apporto dottrinale e ideologico, consentendo con il proprio
appoggio anche alle sinistre laiche di dare un forte contenuto di rinnovamento
sociale alla Costituzione repubblicana. Nel frattempo, però, De Gasperi,
dopo un primo Governo di matrice resistenziale e di unità nazionale,
caratterizzato dalla formula tripartitica
DC-PCI-PSI, inaugurò con
un monocolore
DC la sua politica liberista attuata, dal 1948 in poi, da
Gabinetti "centristi" di alleanza con i partiti laici minori: PSDI, PRI, PLI. La
sinistra dossettiana si oppose esplicitamente a questa linea del partito con
mozioni interne che però non riuscirono a impedire la realizzazione
dell'indirizzo centrista, favorito anche dalle fratture tra la sinistra
gronchiana-sindacalista e quella dossettiana. Le elezioni politiche del 18
aprile 1948 si svolsero in un clima arroventato, nel timore di una vittoria
comunista: l'appoggio esplicito di Pio XII, il blocco sociale cementato
dall'attività dei Comitati Civici di Luigi Gedda, il sostegno dell'Azione
Cattolica e delle ACLI contribuirono alla vittoria della
DC, che
riunì i consensi delle masse cattoliche ma anche delle destre e delle
forze moderate, ottenendo addirittura il 48% dei voti. Nel partito e nel Governo
prevalse la linea conservatrice, favorita e, in certa misura, imposta dal
cristallizzarsi della situazione internazionale nei termini della "guerra
fredda". La sinistra dossettiana, che aveva la sua voce nella rivista "Cronache
sociali", alla luce di una stretta consequenzialità fra affermazione
evangelica e prassi politica, giudicò duramente la linea governativa,
socialmente immobilista e reazionaria, propugnando la necessità di un
riformismo coraggioso, della costruzione di un più consistente Stato
sociale, riferendosi in particolare al pensiero keynesiano e all'esperienza del
laburismo inglese e del
New Deal statunitense. Benché durante il
terzo Congresso del partito nel giugno 1949, che elesse segretario P.E. Taviani,
i dossettiani ottenessero il 35% dei voti e l'assegnazione di due vicesegretari
(Dossetti e Rumor), tuttavia fu persa la battaglia in nome delle riforme
intrapresa contro la politica economica del Governo ("linea Pella") e contro i
grandi centri del potere finanziario. Dossetti si dimise prima dalle cariche di
partito e poi da quella parlamentare per seguire la vocazione religiosa; la
sinistra
DC si sciolse e i suoi membri confluirono quasi tutti, in
previsione del Congresso, nella nuova corrente di
Iniziativa democratica
(Fanfani, Moro, Rumor, Taviani, Colombo, Zaccagnini) o nella cosiddetta
Sinistra di Base (Sullo, Galloni, Granelli, Chiarante, Capuani e Mattei),
mentre i sindacalisti diedero vita alla corrente di
Forze sociali
(Pastore, Storti, Donat-Cattin, Labor, Scalia). A destra si costituì
invece la
Lista Primavera capeggiata da Giulio Andreotti. Il Congresso
del 1952 segnò la netta affermazione di Iniziativa democratica che,
tuttavia, temendo eccessive aperture a destra o a sinistra, finì con
l'appoggiare il centro degasperiano, che pure aveva messo in minoranza, e la
legge maggioritaria da questo elaborata per "blindare" con un premio di
governabilità la coalizione che ottenesse alle elezioni almeno il 50% dei
consensi (legge nota anche come "legge-truffa"). Alle elezioni del giugno 1953
la
DC non riuscì, sia pure per pochi voti, a far scattare a suo
favore il premio che avrebbe dovuto garantire un Governo di legislatura.
Tuttavia furono soprattutto gli alleati minori ad essere ridimensionati. Il
Governo presentato da De Gasperi nell'agosto 1953, in quanto minoritario, non
ottenne in Parlamento la fiducia e segnò la fine del cosiddetto
"quadripartito organico" (
DC, PLI, PSDI, PRI) che aveva sostenuto la
serie dei Governi degasperiani a partire dalla rottura del 1948 con PCI e PSI.
La perdita della presidenza del Consiglio e della segreteria del partito, esito
del quinto Congresso tenutosi a Napoli nel 1954, segnò la fine della
leadership di De Gasperi, che morì dopo poco tempo. La vittoria
congressuale della corrente di Iniziativa democratica, appoggiata dalla Sinistra
di Base, portò Fanfani alla segreteria della
DC. Il nuovo
segretario da un lato si dedicò alla riorganizzazione e al consolidamento
della base del partito, che assunse almeno in parte caratteristiche
"d'apparato", dall'altra si impegnò, con l'appoggio anche dei maggiori
enti parastatali come ENI e IRI, in un'azione di governo di tipo riformista,
improntata a un'idea di Stato garante della stabilità economica e
perciò marcatamente interventista (come mostrava ad esempio il piano
Vanoni: V. VANONI, EZIO). Sul piano più
strettamente politico, Fanfani avviò il lungo cammino delle cosiddette
"aperture a sinistra", cercando un terreno di intesa, rispetto al riformismo
sociale, col PSI che contribuì, tra l'altro, alla rottura
dell'unità d'azione a sinistra fra socialisti e comunisti. Le elezioni
del 1958, che videro la
DC recuperare fino al 42% dei suffragi,
confermarono gli intenti riformisti del segretario (indirettamente rafforzati
anche dall'elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII), che costituì
un Governo di coalizione con il Partito Socialdemocratico. Tuttavia la linea
politica fanfaniana e la sua gestione del partito giudicata troppo
personalistica finirono col provocare una reazione interna alla
DC;
d'altra parte la fronda contro il segretario era ben viva fin dal 1955, quando
il gruppo di
Concentrazione (Gronchi, Rapelli, Gonella, Andreotti, Pella,
Ravaioli, Tambroni, Togni) era riuscito a portare Gronchi alla presidenza della
Repubblica, contro le indicazioni della segreteria politica del partito. Nel
1959, tuttavia, l'opposizione interna era molto più diffusa ed efficace e
portò da una parte alla caduta del Governo presieduto da Fanfani,
dall'altra all'allontanamento di quest'ultimo dalla segreteria. Alla vigilia del
Congresso Nazionale di Firenze del medesimo anno, la riunione della corrente
fanfaniana di Iniziativa democratica sancì la propria scissione: ne
nacque la formazione dei fanfaniani di
Nuove Cronache e la corrente di
coloro che avrebbero preso il nome di
dorotei, dal convento di S. Dorotea
dove si era verificata la rottura delle due componenti. Da questo momento si
acutizzò, all'interno del partito, la tendenza alla costituzione di
gruppi e correnti che fu una delle caratteristiche salienti della
DC:
esito della pluralità delle sue componenti, sia sociali sia culturali, e
della sua natura interclassista, ma anche segno della spiccata
litigiosità dei suoi esponenti. Al centro del dibattito politico
democristiano rimase il tema dell'apertura a sinistra e dei rapporti con il PSI.
Già nel Congresso del 1959, durante il quale si era costituita anche la
nuova corrente di
Centrismo popolare (Scelba, Gonella, Scalfaro, Restivo,
Lucifredi), la segreteria fu affidata ad Aldo Moro: la sua posizione di
equilibrio fra le correnti e le sue capacità di mediazione assicuravano
infatti una gestione dialettica, ma tesa all'unità, del partito. Queste
qualità soddisfacevano la vocazione per la trattativa dei dorotei mentre
le radici culturali di Moro erano una garanzia per le correnti della sinistra.
Fu proprio il nuovo segretario ad affermare che la
DC aveva "il dovere di
tenere aperto il problema della collaborazione col PSI". Il 1960 segnò
l'inizio di un'importante svolta politica: il Governo Segni, monocolore seguito
al Governo Fanfani con l'appoggio esterno delle destre, mostrò sintomi di
instabilità e cadde a causa del mancato appoggio del Partito Liberale,
che temeva aperture improvvise verso il PSI. Moro, in effetti, si adoperò
perché il presidente della Repubblica Gronchi affidasse l'incarico di
formare un ministero di coalizione
DC-PSDI-PRI a Segni, considerato uomo
capace di mantenere comunque credito presso la destra economica e politica. Dopo
breve tempo però Segni rinunciò, scoraggiato anche dall'esplicita
ostilità al progetto della Chiesa e della Confindustria. Il nuovo
incaricato fu Tambroni, ex gronchiano, che nell'ultimo Congresso del partito si
era fatto sostenitore di una politica di centro-sinistra. Con spregiudicatezza
Tambroni, però, fece sì che il suo monocolore trovasse sostegno
nell'estrema destra, segnando così l'ingresso nell'area di Governo dei
neofascisti. In contrasto con la direzione della
DC, che da subito
lavorò per la sua sostituzione, Tambroni cercò sostegno al di
fuori del partito, negli ambienti finanziari e industriali, sfidando anche la
piazza e fiancheggiando il MSI. Screditato nel Paese e messo sotto accusa nella
stessa
DC, il Governo Tambroni cadde il 19 luglio sostituito da un
ministero Fanfani d'emergenza e di normalizzazione democratica, sostenuto da
PSDI e PRI e con l'astensione dei socialisti, detto delle "convergenze
parallele": seguì in breve un Governo comprendente direttamente PSDI e
PRI, che fu il primo esempio di centro-sinistra. La disponibilità del
Partito Socialista aveva nel frattempo permesso il costituirsi di varie
amministrazioni comunali di centro-sinistra, tra cui quella di Milano (gennaio
1961). Il processo di apertura a sinistra subì però varie battute
d'arresto: significativa fu l'elezione alla presidenza della Repubblica nel
maggio 1962 di Antonio Segni con i voti determinanti della destra (PLI, MSI e
monarchici). Nelle elezioni amministrative del giugno successivo, la
DC
subì una certa flessione e ciò contribuì a raffreddare
l'orientamento verso sinistra. Questo indirizzo tuttavia continuò a
essere sostenuto da Moro che al Congresso di Napoli ripropose con molte cautele,
in un lungo discorso, la collaborazione col PSI riuscendo a far convergere sulla
mozione "Amici di Moro e Fanfani" l'80% dei voti. In tale mozione si
sottolineava da una parte la necessità di grandi riforme cui il Paese, in
quanto società industriale avanzata, non poteva rinunciare e, dall'altra,
il fatto che tali riforme erano realizzabili solo mediante la collaborazione
parlamentare della
DC, asse della democrazia italiana, e del PSI, partito
popolare con vocazione riformista. Nella campagna per le elezioni politiche del
28 aprile 1963, la
DC si presentò con lo slogan: "progresso senza
avventure", ma ciò non bastò ad arrestare l'emorragia di voti a
destra, a vantaggio dei liberali, mentre parallelamente il PSI cedeva parte dei
propri voti al PCI. Per quanto scontato in partenza, l'insuccesso elettorale
mise in difficoltà la segreteria di Moro. Il Governo Fanfani si dimise e
il 25 maggio l'incarico fu affidato a Moro, che volle l'ingresso dei socialisti
nel Governo. Le trattative si arenarono sul problema della riforma urbanistica,
costringendo Moro a rinunciare all'incarico che fu affidato a Giovanni Leone per
la costituzione di un Governo monocolore democristiano "balneare" (giugno 1963).
Il primo Governo con la partecipazione diretta di socialisti, oltre ai
socialdemocratici e ai repubblicani, fu varato nel dicembre successivo, sotto la
presidenza di Moro, con Nenni come vicepresidente e Saragat ministro degli
Esteri. La spaccatura democristiana fu evitata per un soffio grazie ad un
richiamo dell'"Osservatore Romano" all'unità dei cattolici (la destra di
Scelba aveva minacciato di votare contro il Governo), mentre il PSI pagò
l'ingresso nel Governo con una scissione a sinistra che diede vita al PSIUP. Le
illusioni di quanti credevano che l'Italia avesse finalmente trovato una
maggioranza stabile e durevole, intenzionata ad attuare le riforme di cui
l'Italia aveva bisogno, caddero presto, anche grazie all'affermazione di Fanfani
secondo cui il centro-sinistra era una formula "non irreversibile".
L'instabilità dei Governi pertanto continuò, confermata dalle
dimissioni di Moro nel giugno 1964, che successe a se stesso con un nuovo
Gabinetto di centro-sinistra costituito, però, su un programma talmente
vago da essere approvato anche da ambienti economici conservatori. Il IX
Congresso Nazionale della
DC, tenutosi a Roma nel settembre 1964, vide i
moro-dorotei dare vita alla corrente
Impegno Democratico, con la
confluenza dei gruppi di Andreotti, Pella e Sullo, che ottenne il 47% dei voti
congressuali. I fanfaniani di Nuove Cronache pesarono per il 21%, mentre la
sinistra di
Forze Nuove (nata dall'unione di Rinnovamento e della Base)
ottenne il 20% e la corrente scelbiana Centrismo popolare l'11%. Mariano Rumor,
già eletto segretario del partito dopo l'assunzione della presidenza del
Consiglio da parte di Moro, fu riconfermato e affiancato nella vicesegreteria da
Forlani (fanfaniano), Piccoli (doroteo) e Morlino (moroteo). Spaccature interne
al partito si manifestarono nuovamente in occasione dell'elezione del presidente
della Repubblica: Fanfani infatti oppose la propria candidatura a quella
ufficiale di Giovanni Leone. Dopo una lunga serie di votazioni improduttive, al
21° scrutinio fu eletto il socialdemocratico Saragat. Seguirono aspre
polemiche che si conclusero nel febbraio 1965 con la nomina di una direzione e
di una segreteria unitaria formata da Rumor e, come vicesegretari, Forlani
(Nuove Cronache), Galloni (Forze Nuove), Piccoli (Impegno Democratico), Scalfaro
(Centrismo popolare). Si rese necessario anche un rimpasto di Governo, con
l'assunzione del ministero degli Esteri da parte di Fanfani. Gli avvenimenti
interni ed esterni al partito furono utilizzati dalle correnti conservatrici
democristiane per bloccare ogni attività riformatrice dei ministeri Moro
sino alla fine del 1967, quando, avvicinandosi la fine della legislatura, si
produsse un'attività febbrile nel corso della quale venne approvata, tra
l'altro, la legge per l'istituzione delle regioni. Le tensioni interne,
tuttavia, non diminuirono: la sinistra si dimise allora dalla segreteria
(Galloni) e dalla direzione (Pastore, Granelli, Vittorino Colombo, Toros) per
giungere al X Congresso Nazionale del partito con la proposta di Rumor di
smantellare le correnti. Nel novembre 1967, la nuova grande maggioranza
(Rumor-Moro-Fanfani-Andreotti, Piccoli-Sullo), riuscì ad ottenere il 64%
dei voti, ma non lo scioglimento delle correnti, pur ritrovando una maggior
unità su alcuni temi tradizionali e generici della politica
democristiana: netta preclusione a ogni intesa con i comunisti, opposizione
decisa al divorzio, politica estera filo-americana. In omaggio a questa tendenza
unitaria e organicistica (dovuta più a una difesa del primato del partito
che a una effettiva concordia) si ribadì la scelta politica del
centro-sinistra, improntata però a un blando riformismo. Le carenze di
iniziativa e di realizzazione dei Governi della legislatura portarono nel 1968 a
una perdita di consenso elettorale sia la
DC (38%) sia il Partito
Socialista. Dopo la verifica elettorale Moro, già uscito dalla corrente
dorotea, lasciò anche formalmente la corrente di maggioranza, a causa
della sempre più accentuata tendenza moderata, in occasione del Consiglio
Nazionale, convocato nel novembre successivo. Rumor, confermato segretario, fu
designato alla presidenza del Consiglio e il 13 dicembre ricostituì la
coalizione di centro-sinistra, col socialista De Martino come vicepresidente.
Nel gennaio 1969 Flaminio Piccoli, doroteo, venne eletto nuovo segretario del
partito, con i voti, oltre che della sua corrente, dei fanfaniani e del gruppo
di Taviani, mentre Sullo, dopo aver lasciato i dorotei, diede vita al gruppo
della
Nuova sinistra. Frattanto andavano facendosi più forti nel
Paese le spinte per una modifica dei rapporti sociali, economici e produttivi,
oltre che politici, che non mancarono di ripercuotersi anche nel mondo
cattolico. Significativa in questo senso fu la presa di posizione delle ACLI,
che nel loro Congresso di Torino (giugno 1969) sancirono formalmente la fine del
"collateralismo" nei confronti della
DC. Abbandonati gli indugi, nel
corso dell'XI Congresso del 1969, Moro assunse la leadership delle sinistre e la
sua lista,
Amici di Moro, ottenne il 12,7% dei voti, mentre alla sinistra
unita (Base e Forze Nuove) andò il 18,2%. Iniziativa democratica
(Rumor-Piccoli-Colombo-Andreotti) si affermò come il gruppo di
maggioranza, ottenendo il 38,2%, mentre il resto dei voti si distribuì
tra la corrente fanfaniana di Nuove Cronache (15,9%), quella di Taviani (9,5%),
quella di Scalfaro (2,9%) e la Nuova sinistra di Sullo (2,6%). Benché la
sinistra fosse riuscita a eleggere Benigno Zaccagnini presidente del Consiglio
Nazionale del partito, in realtà l'indirizzo generale della
DC era
sempre meno coerente con quello ispiratore degli esecutivi di centro-sinistra.
Questa formula fu di fatto portata al logoramento per l'inerzia degli instabili
ministeri (ben nove nei sei anni fra il 1968 e il 1974): se qualche risultato fu
raggiunto (legge sulla casa, statuto dei lavoratori, introduzione dell'istituto
referendario) fu dovuto più alle pressioni delle altre forze politiche
che a genuine iniziative della
DC. Il Convegno di San Genesio, in cui il
fanfaniano Forlani e il basista De Mita avevano stipulato una sorta di patto
"generazionale", e la scissione in due tronconi della corrente dorotea (da una
parte Piccoli e Rumor, dall'altra Andreotti e Colombo) portarono alle dimissioni
di Piccoli dalla segreteria e alla sua sostituzione con Forlani, affiancato da
De Mita come vicesegretario. La favorevole conclusione delle agitazioni
sindacali dell'"autunno caldo" (V.) e la spinta
unitaria dei lavoratori al rinnovamento democratico del Paese condussero le
forze reazionarie a montare una strategia della tensione e della violenza che,
nel dicembre 1969, portò alla strage di Piazza Fontana a Milano. Le
elezioni regionali del giugno 1970 segnarono un'affermazione della destra
neofascista a scapito della
DC e acuirono gli scontri interni alla
coalizione: mentre la nuova segreteria democristiana, infatti, si trincerava
dietro la formula centrista di "lotta agli opposti estremismi", l'ala più
avanzata del PSI perseguiva "equilibri più avanzati", cioè la
collaborazione con il PCI. Il Governo guidato da Colombo, già scosso
dall'approvazione della legge sul divorzio, cui fecero opposizione la sola
DC e il MSI, cadde in seguito all'elezione alla presidenza della
Repubblica di Leone che sopravanzò Fanfani, candidato ufficiale del
partito, per il costituirsi di uno schieramento di posizione comprendente il
Movimento Sociale. Dal febbraio 1972 un monocolore democristiano presieduto da
Andreotti guidò l'Italia alle elezioni politiche anticipate: la tenuta
della
DC con il 38,8% dei voti, contestuale però ad una
complessiva crescita delle sinistre, non risolse il problema della
governabilità, di modo che la coalizione di centro (
DC-PLI-PSDI),
costituita da Andreotti nel giugno successivo, rese evidente
l'impossibilità di ridare vita al centrismo degli anni Cinquanta.
Corrente maggioritaria al Congresso del giugno 1973 risultò essere il
Movimento di Iniziativa Popolare (Rumor-Piccoli) col 32%, seguito dal gruppo
fanfaniano di Nuove Cronache col 18%, da Impegno Democratico
(Colombo-Andreotti), dalla Sinistra di Base e da quella di Forze Nuove, dagli
Amici di Moro e da Forze Liberali di Scalfaro. Fanfani fu eletto segretario del
partito per acclamazione, mentre venne rilanciata la formula del centro-sinistra
e Rumor fu eletto presidente del Consiglio. I tre ministeri guidati da Rumor,
tuttavia, non ebbero vita facile né produttiva: l'inflazione e la crisi
energetica provocarono divergenze nella coalizione sui metodi di soluzione ai
problemi economici. Inoltre Fanfani non solo fece blocco con le forze di estrema
destra, coinvolgendo l'intero partito nella campagna referendaria contro il
divorzio, ma uscì dallo scontro perdente. La ripresa della strategia
della tensione con la bomba in piazza della Loggia a Brescia, infine,
segnò la fine del centro-sinistra, mentre le elezioni amministrative del
1975 mostrarono un calo di voti per la
DC. Se il blocco doroteo
continuava a vedere nel ruolo centrista e di mediazione la vera vocazione della
DC, Moro, con l'obiettivo di superare la crisi economica e di rinsaldare
le istituzioni repubblicane e democratiche del Paese, non faceva mistero della
propria linea di attenzione nei confronti del PCI. Presidente del Consiglio a
capo di un Governo
DC-PRI, con l'appoggio esterno dei socialisti, Moro
riuscì a imporre nel Consiglio Nazionale Benigno Zaccagnini, esponente
della migliore tradizione del cattolicesimo democratico e immagine del
rinnovamento democristiano, come segretario del partito al posto di Fanfani.
Zaccagnini riuscì a gestire la linea di confronto con il PCI elaborata da
Aldo Moro e sostenuta dall'area di sinistra della
DC, lasciando
all'opposizione interna i gruppi di Fanfani e di Andreotti. Durante il XIII
Congresso
DC, tenutosi nel marzo del 1976, fu aspra la discussione sulla
strategia politica di Moro che il segretario proponeva come sua piattaforma
politica e base del rinnovamento del partito. Tuttavia Zaccagnini uscì
riconfermato nella sua carica, mentre Fanfani fu eletto presidente, ruolo che
lasciò in autunno ad Aldo Moro per assumere la presidenza del Senato. Le
elezioni del 1976 segnarono un netto recupero della
DC (38,8% dei voti),
ma anche una forte crescita del PCI (34,4%). Tale scenario politico rese
impossibile, anche solo numericamente, la riuscita di Governi di centro o di
centro-destra. Quasi necessaria sembrò, invece, la realizzazione del
controverso dialogo con i comunisti che aprì l'era della cosiddetta
"unità nazionale", ampiamente giustificata dall'emergenza economica
(inflazione, crisi petrolifera, deficit commerciale) e dal bisogno di
governabilità. Inizialmente Moro lavorò alla costituzione di un
monocolore, guidato da Andreotti e detto della "non sfiducia", reso possibile da
un'intesa programmatica dei partiti dell'arco costituzionale (PCI, PSI, PSDI,
PRI, PLI). Nel frattempo rimase aperto e vivo il dibattito interno sulla
partecipazione diretta del Partito Comunista al Governo. In questo stesso
periodo la
DC fu costretta a confrontarsi pubblicamente con gravi episodi
di corruzione che coinvolsero suoi esponenti di primo piano, come lo scandalo
Lockeed, per il quale l'ex ministro Gui fu rinviato al giudizio della Corte
Costituzionale: prime avvisaglie di quella che sarebbe diventata la "questione
morale". Perfino il presidente Leone, compromesso da oscure manovre finanziare,
fu costretto alle dimissioni. Nel marzo 1978, dopo intenso lavoro, fu possibile
varare un esecutivo Andreotti, sempre monocolore ma sostenuto da una maggioranza
parlamentare programmatica di cui il PCI era l'asse portante. Proprio nel giorno
del voto di fiducia, però, Moro, unanimemente riconosciuto come
l'artefice di questo "compromesso storico", fu rapito e poi ucciso dalle Brigate
Rosse. Questo fatto inizialmente accelerò il cammino del Governo, cui fu
subito votata la fiducia. La scomparsa dello statista democristiano, tuttavia,
segnò la fine della collaborazione fra
DC e PCI, così che
assai presto il Partito Comunista uscì dalla maggioranza e i
democristiani abbandonarono la via della solidarietà democratica. Dopo le
elezioni anticipate del 1979, che videro la
DC attestata intorno al 38%
dei voti, si svolse il XIV Congresso del partito, in cui risultò
maggioritaria la mozione di Donat-Cattin, detta del "preambolo". In essa si
dichiarava impossibile un'intesa di governo con il PCI e si proponeva un
rapporto sempre più stretto con i partiti laici minori, che già
nel 1979 sostenevano il Governo Cossiga. Per realizzare questa linea politica i
delegati congressuali scelsero Piccoli come segretario e Forlani come
presidente. Ma numerosi fatti concorsero in quegli anni a minare la
credibilità della
DC presso il corpo elettorale: lo scandalo Donat
Cattin, accusato di aver favorito la fuga all'estero del figlio terrorista; lo
scandalo dei petroli che costrinse alle dimissioni il ministro Bisaglia; il
coinvolgimento di Andreotti nell'uccisione del giornalista Mino Pecorelli; la
pubblicazione degli elenchi degli iscritti alla Loggia massonica segreta P2, che
rivelò l'affiliazione di molti membri della classe dirigente con funzioni
chiave nelle istituzioni pubbliche e, in particolare, di molti democristiani.
Tutti questi eventi, che causarono la caduta del Governo Forlani, portarono a
una profonda crisi progettuale, strutturale e anche di leadership nel partito,
ormai preda di un correntismo esasperato. In questo clima la
DC, per la
prima volta dal Governo del socialista Parri, perse la guida dell'esecutivo,
affidata a Spadolini: in discussione era la sua stessa vocazione alla
centralità nel sistema politico italiano, la sua caratteristica di asse
mediano. Nel tentativo di un rinnovamento e di un rilancio del partito fu
organizzata un'assemblea nazionale con l'intento di ridefinire il ruolo del
partito cattolico negli anni Ottanta, ma anche con quello di aprire maggiormente
il partito stesso alle realtà propositive del mondo cattolico operanti
nella società (i cosiddetti "esterni"). Il Congresso che seguì,
ancora dominato dal gioco delle correnti, vide Ciriaco De Mita, esponente della
sinistra interna, eletto segretario con un programma di rinnovamento e
moralizzazione del partito, di superamento delle correnti, di avvicendamento
della classe dirigente (specialmente al Sud). La persistente precarietà
dei Governi condusse intanto il Paese, per la quarta volta consecutiva, ad
elezioni anticipate. La
DC subì un netto calo di consensi, fatto
che diede voce alla opposizioni interne alla segreteria De Mita, peraltro troppo
recente per poter essere considerata responsabile del tracollo. Tuttavia la
sconfitta elettorale consentì la formazione di un esecutivo di
pentapartito (
DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) guidato dal socialista Bettino
Craxi. De Mita, riconfermato segretario nel 1984 e ancora nel 1986, pur non
avendo ottenuto un reale scioglimento delle correnti interne riuscì, in
entrambi i Congressi, a realizzare una sostanziale unità intorno alla sua
segreteria e a riconquistare al partito, nelle elezioni amministrative del 1985,
i consensi perduti. Sul piano delle alleanze politiche la sua leadership fu
caratterizzata dal forte antagonismo con il segretario socialista Craxi, cui non
riusciva a sottrarre la guida dell'esecutivo, nonostante ripetuti accordi in
merito; fu, tuttavia, un successo del suo piano strategico l'elezione nel 1985
di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica, votato da tutti i partiti
dell'arco costituzionale. Le elezioni politiche, di nuovo anticipate a causa
della mancanza di un'intesa sull'alternanza alla guida del Governo fra
socialisti e democristiani, confermarono la tendenza positiva della
DC.
Dopo un breve Governo Goria, nel 1988 fu De Mita a concentrare nelle sue mani la
guida del partito e del Paese. Durante il Congresso della
DC del 1989,
tuttavia, il metodo correntizio riprese il sopravvento determinando una
maggioranza (Grande Centro, andreottiani, Forze Nuove, con l'appoggio degli
"esterni" del Movimento Popolare) che elesse segretario Forlani, battendo la
sinistra di De Mita ormai minoritaria, cui però venne offerta la
presidenza del partito in omaggio alla tradizione dell'unità gestionale.
L'avvicendamento di Forlani alla guida della
DC costituì solo la
prima parte del progetto politico della rinnovata alleanza demo-socialista
(chiamata anche CAF, acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani) cui, infatti,
seguì nel giro di breve tempo la sostituzione, alla presidenza del
Consiglio, di De Mita con Andreotti. La normalizzazione interna e la ritrovata
concordia con gli altri esponenti di Governo non evitarono alla
DC un
nuovo calo elettorale sia alle europee del 1989 sia alle amministrative del
1990. L'unità interna d'altra parte venne meno assai presto: De Mita si
dimise dalla presidenza del partito e nel luglio 1990 si ritirarono i ministri
della sinistra democristiana dalla delegazione governativa, in quanto contrari a
parte della legge Mammì sulle emittenti televisive, giudicata troppo
favorevole alle reti Fininvest. Ormai costantemente carente sia sul piano della
progettualità politica, sia sul piano culturale, sia sul piano
gestionale, la
DC non seppe prendere posizione nemmeno rispetto al primo
referendum elettorale del giugno 1991, peraltro proposto dal democristiano Mario
Segni, lasciando libertà di voto. Le politiche dell'aprile 1992 segnarono
una seria sconfitta per la
DC che passò dal 34,3% del 1987 al
29,1%. Nel tentativo di operare un serio rinnovamento del partito, già
toccato dalle inchieste di "Mani pulite" (V. MANI PULITE,
OPERAZIONE) in corso in tutta Italia, nell'ottobre 1992 la presidenza del
Consiglio Nazionale democristiano fu assunta da Rosa Russo Jervolino e la
segreteria da Mino Martinazzoli, esponente della sinistra interna. Il progetto
di rinnovamento del nuovo segretario democristiano non fu però
sufficiente in rapporto al sempre più pesante coinvolgimento del partito
nei casi di corruzione, concussione o illecito finanziamento. La
DC,
infatti, fu duramente penalizzata dall'elettorato nelle elezioni amministrative
del 1993 che, svoltesi secondo il nuovo sistema maggioritario, resero esplicito
il definitivo tracollo del partito - soprattutto al Nord - che non
conquistò la carica di sindaco in nessuna delle città
politicamente rilevanti. Al suo interno acquistarono man mano importanza volti
nuovi, come la segretaria della
DC veneta Rosy Bindi. Fu proprio la
DC veneta ad autoconvocarsi, nel luglio del 1993, in assemblea
costituente e a lanciare un programma di rifondazione, connotato da un
orientamento verso il centro-sinistra e da una netta intransigenza rispetto alla
questione morale (tanto da richiedere lo spontaneo allontanamento da qualsiasi
carica interna o esterna al partito non solo dei rinviati a giudizio, ma anche
di tutti gli inquisiti). Mario Segni, invece, fautore di un rinnovamento in
senso liberale, decise di abbandonare la
DC. Il metodo e la
determinazione di Rosy Bindi e degli iscritti veneti, in sintonia con il
progetto del segretario Martinazzoli, trovò forte resistenza sia negli
esponenti della vecchia generazione, sia negli ambienti più moderati,
facenti capo a Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Agli inizi del 1994,
anche in seguito agli scandali di Tangentopoli, la
DC si sciolse; i suoi
rappresentanti diedero vita al Partito Popolare Italiano (V. POPOLARE ITALIANO, PARTITO - fondato nel 1994)
e al Centro Cristiano Democratico (V.).