«La scrittura di Kafka: un testimone inquietante» di Rudy De Cadaval
Il posto di Kafka nella letteratura europea contemporanea è tanto eccezionale quanto ben preciso. Non ha quindi bisogno di elogi, anche perché alcuni di essi non hanno certo contribuito a capire l'autore. Il caso del suo intimo amico Max Brod è uno degli esempi più significativi di fino a che punto l'entusiasmo per l'opera può deragliare lungo il cammino accentrandosi sugli elogi e nell'esigere una eccezionalità abbastanza ovvia da non richiedere enfasi. Anche se Max Brod indovina la collocazione di Kafka nell'ambito dell'espressionismo tedesco, rimarcando di sfuggita la sobrietà di uno stile la cui forza risiede nelle idee (cioè che distingue Kafka dal decadentismo che pur si può riscontrare nelle sue prime opere), tuttavia cade nell'errore di etichettarlo con una aureola di santo. La tendenza agiografica degli amici verso gli amici, che qualche volta in Brod lo induce a lusingare se stesso attraverso Franz, attualmente è difficile da digerire. Walter Benjamin, in primo luogo, e Adorno, sistematizzando e approfondendo gli sguardi critici sul passato, offrono i commenti più centrati riguardo a un'opera il cui aspetto di eccezione è quello di collocarsi fra la letteratura e la realtà, fra l'ossessione assoluta per il successo artistico personale e la coscienza che questo impegno coincide con la vanità della letteratura. Ma la curiosa nostalgia per la vita normale, per una trasparente fraternizzazione fra gli uomini (che il fatto di essere scrittore mette in ombra giacché obbliga alla parte di spettatore staccato dalla celebrazione sociale più o meno felice) non sarebbe mai arrivata alla chiarezza espressiva di Kafka, se questi non avesse mai accettato la cosa più semplice, quella che ci obbliga a deteologizzare le puntualizzazioni religiose come a non accontentarsi dei puri positivisti. Questa ammissione vale accettarsi come scrittore. In Francia, da Maurice Blanchot a Marthe Robert, passando da Claude Edmonde Magny e le osservazioni così precise di G. Bataille in «La Letteratura e il male», si è sempre riconosciuto l'ammirevole rigore dello scrittore. Una delle prime critiche alle opere di Kafka la si trova in Betrachtung («Contemplazione», 1913) di Robert Musil, che stabiliva un rapporto tra Robert Walser e Kafka: - «Anche qui ci troviamo di fronte ad una contemplazione che uno scrittore di cinquanta anni fa avrebbe considerato bolle di sapone; ma sia sufficiente ricordare la precisa differenza e affermare che qui la stessa invenzione creativa risuona tristemente mentre lì [in Walser] risuona divertente, che in questo c'è soltanto qualcosa di «barroco» e recente mentre in Kafka sono soltanto espressioni marginali, come qualcosa di quella scrupolosa malinconia con la quale uno sciatore ritaglia la sua ombra e arabeschi. Un controllo artistico straordinario su se stesso... e una piccola enfasi delle piccole infinitudini nel vuoto, una umile e scelta nullità, una gradevole dolcezza come in un suicida nel momento tra la decisione e l'atto, o comunque si voglia definire questo sentimento, che si può chiamare in tanti modi, giacché mette in luce in una sola volta un'oscura sfumatura intermedia completamente quieta...» («Espressionismo», pag. 188). Musil dimostra, a parte la sua abilità nell'inquadrare due artisti singolari, che vive dal di dentro la gestazione e l'impatto con l'espressionismo con una delle correnti precorritrici di tutto il ventaglio delle avanguardie europee. E fa risaltare, a tempo opportuno, che questa avanguardia si riallaccia con la tradizione che la precede, il decadentismo e uno splendido simbolismo di fine secolo che ancora raccoglie i fulgori di un «barocco» avviato già a vivere di espedienti, nonostante le sue ricchezze e proprio per queste. Come disgressione rivelatrice del mutamento nella letteratura occidentale, sarebbero ttante le considerazioni da fare; dobbiamo limitarci ad una molto semplice: la sua spinta di incitamento è il continuo interrogarsi sul fenomeno dello scrivere. Si tratta di indagare, partendo da determinati materiali, su ciò che questi stessi materiali possono mettere in luce. Sotto questo aspetto, l'analogia di Kafka e Klee (rimarcata da Benjamin e giustamente fatta risaltare da Adorno) ci offrirebbe la possibilità di spaziare a piacere in due campi tra i quali è molto pericoloso stabilire dei confronti: scrittura e pittura. Indichiamo almeno una piccola concordanza: al particolarismo pittorico di Klee farebbe riscontro la meticolosità descrittiva di Kafka. Quanto meno, la materialità del mestiere determina la sua avventura. Con ciò non si esclude nessuna risonanza che l'opera possa risvegliare in un certo lettore; ma è sicuro che si cerca di richiamare l'attenzione sulla costante dedizione che presuppone lo scrivere. Come dipingere, come vivere. Considerando le spiegazioni differenti e qualche volta contrapposte, gli spiritualisti vorrebbero domandarsi per quale motivo un autore così astratto e metafisico dia prova di una meticolosità da smanioso artigiano nella stesura delle sue righe, perché preferisca la descrizione dettagliata dei particolari ad una evocazione integratrice. E i materialisti raso terra (per fortuna sono sempre di meno) dovrebbero spesso approfondire di più il senso o le contraddizioni che si intravvedono nell'autore di «America».
