«Attualità di Giacomo Puccini» di Giuseppe Tarozzi
Forse non c'è nel mobile e tormentato ultimo scorcio del secolo scorso e nei primi vent'anni dell'affannoso e irrequieto e irrazionale secolo nostro, una vita d'artista più quietamente piccolo borghese, più tranquillamente monotona e quotidiana che quella di Giacomo Puccini. Vive quasi sempre nell'Italia settentrionale, diviso per un certo periodo fra la sua Lucca e Milano, poi opta per la capitale lombarda (che non amerà mai) e, fatti i soldi, ottenuto il sospirato successo e non più bisognoso di mendicare da autori ed editori libretti e soggetti da musicare, se ne ritorna nella quieta, provinciale, un po' spenta atmosfera della Versilia, fra Torre del Lago e Viareggio. Ogni tanto interrompe questi lunghi soggiorni con viaggi all'estero sia per assistere agli allestimenti più interessanti delle sue opere, sia per tenersi aggiornato su ciò che di nuovo viene fatto nel campo della musica. Non è mai coinvolto direttamente nelle vicende politiche, sociali, culturali, che agitano, scuotono e tormentano il Paese. Non è testimone attento e volontario di avvenimenti storici, non viene fuori dal suo guscio che raramente (e con cautissimi giudizi) e quando proprio vi è tirato per i capelli. Attorno a lui succede di tutto: nasce e si organizza il movimento operaio, sorgono i primi veri sindacati, si inasprisce la lotta di classe, scoppia il nazionalismo e si afferma l'interzionalismo, prendono vita il simbolismo e il decadimentismo, Croce pubblica l'Estetica, si accende la cometa del futurismo, D'Annunzio interpreta il ruolo del poeta-eroe, scoppia la guerra in Libia, ha inizio e conclusione il grande massacro della prima guerra mondiale. Ma Puccini pare non accorgersi di tutto questo, rimane immobile, ascolta solo se stesso, le figure del suo mondo, i suoi silenzi, tormenta editore e librettisti alla ricera di nuovi successi, di nuove storie da mettere in musica. Potrebbe crollare il mondo (come difatti crolla), mutare un modo di vivere, tramontare un'epoca, che lui non si discosterebbe di un centimetro da quello che è il suo tormento e la sua gioia: il gorgo melodico che sente nascere continuamente dentro di sé e che lo afferra e lo abbandona, lo ripiglia e poi ancora gli sfugge in una sorta di tormento di Sisifo. E di ciò solo soffre e pena, geloso se qualche giovane si fa avanti e ottiene consensi (Pizzetti, per esempio), se qualche contemporaneo suo (Mascagni, soprattutto) gli contrasta il passo, attento a non farsi scavalcare nei favori delle platee di tutto il mondo, pronto subito a lamentarsi di non essere capito e di avere troppi nemici. In questo senso, la lettura del suo epistolario è quanto mai significativa e illuminante. Parrebbe assurdo che un uomo siffatto, talmente egoista e incuriosito solo di sé da rifiutarsi persino all'amore e al minimo rischio; parrebbe assurdo che un uomo dal carattere gretto, a volte persino meschino, sia stato un musicista non solo di grandissimo valore, ma anche moderno, dalla sensibilità accesa, talmente accesa e acuta da fluire poi naturalmente nell'estenuazione, nella nevrosi. Eppure Giacomo Puccini, a torto creduto da molti (da troppi) il mite cantore di miti figurine patetico-sentimentali, è stato indubbiamente tutto questo e anche più di questo. E' stato, con Turandot, il creatore dell'ultimo, vero melodramma del Novecento, anzi: dell'unico melodramma del Novecento. Succede con lui questo strano fenomeno: il finire dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento sono nella tecnica, nella politica, nelle guerre, nella congerie culturale e sociale un momento fra i più contradditori e sovvertitori e rivoluzionari e dilaniati dell'età moderna. Il Puccini non vede la varietà, la violenza e la novità dei tempi che gli sono stati destinati: ma non è impari a tanti fenomeni, li canta invece (a ben vedere, o meglio a ben sentire) con un totale struggimento per la loro fine, con una malinconia senza speranza, con un abbandono senza futuro come pochi, fra gli artisti suoi contemporanei, hanno saputo fare. Diventa così il cantore di un'epoca che muore, di una borghesia che tramonta e abdica. E' questa la cifra che lo distanzia, e di molto, dai vari Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea. Oltre, ovviamente, a una fantasia più salda e fertile. Verdi, genio completo, più grande moralmente, uomo venuto dalla terra, era stato il musicista di una borghesia che credeva a ideali a volte persino rivoluzionari, che voleva realizzarli, che si era impegnata e aveva creduto in se stessa e nel proprio compito storico. Poi era rimasto isolato, ma mai lo aveva abbandonato questa forza, questa indomita spinta spirituale. Puccini invece è il musicista di una classe borghese che, come le supernove, le stelle esplose i cui filamenti si spargono nello spazio nero, è ormai un astro finito. Una classe senza più spinte vitali e che non crede, se non per pigrizia, in se stessa, che vuole solo scordare. E per un certo verso l'autore di Bohème l'aiuta a scordare. Ma siccome è artista, siccome è autore di vivida ipersensibilità, è anche dolente, accorato protagonista. E' specchio intelligente di una crisi che di lì a poco si concretizzerà nell'incapacità di realizzarsi, di seguire l'evolversi. Certo, sull'arte pucciniana dura ancora molta incertezza. Si può anche aggiungere che la critica su questo autore è da un pezzo in ristagno (a parte le bellissime pagine di Claudio Sartori): si ripetono stancamente i soliti motivi, le solite belle variazioni sentimentali, le consuete riserve sull'eccessiva languidezza della sua poetica, sulla facilità e felicità espressiva; manca l'ingegno forte che spazzi l'orizzonte e investa quella poesia, quella musica, di una luce diretta. Gianandrea Gavazzeni, sia come interprete, sia come critico, ha ritentato valutazioni insieme analitiche e complessive, e forse è giunto a risultati nuovi che avranno capacità di resistere. Anche per merito suo, Puccini è stato inteso come annunciatore di una sensibilità d'eccezione, colui che ha tentato di farci percepire con la musica (e forse senza esserne cosciente) le sensazioni misteriose della vita, l'inquietante oscurità che circonda il nostro destino. Le sue qualità creative, tuttavia, in complesso si sono studiate poco: quando si sono isolati i suoi frammenti lirici e malinconici, melodici e sinuosi, e quando si è detto che egli inaugura nella nostra drammaturgia musicale un modo di sentire forse nuovo, si è detto tutto. Si potrebbe soggiungere che Puccini dà vita a un nuovo modo di costruire il melodramma, non più per linee architettoniche, ma per ritorni e per cerchi concentrici, gorghi melodici, appunto. Ma già qui, da parte della critica paludata e ufficiale, sorgerebbero le prime difficoltà, perché subito verrebbe affacciata la domanda: quante volte riesce questa costruzione? quante volte risponde alla natura dell'ispirazione pucciniana? Forse non conviene neppure rispondere a questi interogativi. Quello che importa è il tentativo, la volontà di operare per schemi nuovi, con sensibilità nuova, con nuovi riferimenti. E poi, sinceramente, un'operazione del genere non potrebbe prescindere in alcun caso dalla dilagante musicalità pucciniana, che talvolta pare un fascino, talvolta un'insidia; talvolta domina tirannicamente la nostra fantasia e si impone al nostro giudizio, talvolta ci irrita (nei suoi effetti più scoperti) e ci induce a cerca con acre pertinacia sotto la magia del canto la linea delle cose, il cammino del pensiero: operazione che può concludersi con un rifiuto. Tuttavia la sua musica ha dischiuso un campo vasto e ignoto ed è ricca di avvenire. Forse per queste sue novità interne ed esterne, oltre che per le sue evidenti e lancinanti diseguaglianze, Giacomo Puccini sconcerta ancora (se non il pubblico, che è tutto dalla sua) il giudizio degli studiosi e dei critici. Quale il limite, dunque, della creatività di questo musicista? Fatti salvi il valore della sua arte e l'importanza del suo discorso tecnico, si può osservare che la musica non va mai al di là dello stato d'animo, della sensibilità estetica e misteriosa. Così è per Butterfly, così è per Tosca (anche se questa figura ha più sangue dentro), così è persino per Mimì e Rodolfo, i due protagonisti di quel vero capolavoro, ma privo di forza morale, che è la Bohème. Puccini, alla fine, conguaglia nelle stesse tinte morbide e soavi tutti i più diversi personaggi. In questo modo la fine di Mimì equivale a quella di Butterfly, lo strazio del cavaliere Des Grieux è paragonabile a quello di Rodolfo e il grido d'amore di Cavaradossi è quasi identico a quello di Calaf nella Turandot. E' lo spessore morale, in definitiva, che manca a Puccini. E anche una visione chiara del mondo e una sua interpretazione. La sua grandezza, al contrario e per conseguenza, è tutta riposta nell'alone che circonda i suoi sapienti, morbidi, stupendi tocchi descrittivi; in quella malinconia, in quello stupore forte, in quello smarrimento, in quel trasalimento che si irradiano dalle sue costruzioni sonore e chiedono di staccarsene per vivere di vita propria. La musica, apparentemente dispersa, prende a poco a poco l'ascoltatore e l'attira nella sua sfera d'incanto malinconico in cui l'anima si dimentica e si perde. Quando l'operazione riesce, quando l'ispirazione è sincera e lo sorregge, allora Puccini dà vita ad opere difficilmente dimenticabili, a veri momenti di magia: il terzo quadro della Bohème, per esempio, o l'ultimo atto di Manon: l'uno e l'altro pieni di sfatto, sfaldato, profumato decadentismo. E gli esempi potrebbero continuare. Allora Puccini riesce sicuramente a superare i limiti che sembrano fatali al suo temperamento. Quando riesce a centrare il mondo crepuscolare e lo canta e lo fa suo, allora trova veramente la materia adatta e concreta per la sua anima spersa e ansiosa e ogni leziosità, ogni simbolismo caduco, ogni vaga nebulosità spariscono. Ecco perché, pur se debole, certamente nevrotico, sinceramente irrequieto e tormentato e non risolutore, Giacomo Puccini, l'ultimo musicista che abbia creduto alla possibilità di rinnovamento del canto e della musica, merita ancor oggi, e meriterà sempre, il nostro amore e la nostra riconoscenza di uomini.
